prodigioso di pedate, di frustate sulle spalle, di nerbate sotto le piante de’ piedi; dopo d’aver sopportato un terremoto; dopo d’aver assistito all’impiccagione del dottor Pangloss e averlo veduto abbruciare poco fa; dopo d’essere stato preso per decreto del Divano, e battuto da alcuni filosofi, io credeva pure che tutto andasse bene. A ch’io ne son ben disingannato! Intanto la natura non mi è parsa
mai tanto bella, quanto allora ch’io vi ho veduta. I concerti campestri degli uccelli suonano al mio orecchio con una armonia che fino a questo giorno io non
conosceva; tutto si anima, e il sentimento che mi invade, pare che imprima un altro colore su tutti gli oggetti: io più non sento quella molle languidezza che provava ne’ giardini che avevo a Sus. Quel che voi m’ispirate è differente assolutamente. - O via, finiamola, disse Zenoide, il seguito de’ vostri discorsi potrebbe offendere la mia delicatezza, e voi dovete rispettarla. - Tacerò, disse Candido, ma il mio fuoco non sarà che più ardente.
Pronunziando queste parole riguardò Zenoide, si avvide che ella arrossiva, e da
uomo esperto concepì le più lusinghiere speranze
La giovine danese scansò per qualche tempo ancora di trovarsi con Candido. Un
giorno ch’ei passeggiava in fretta nel giardino degli ospiti, diede in un trasporto amoroso. - Perchè non ho più i miei montoni del buon paese d’Eldorado! Perchè
non son io in stato di comprare un piccolo regno! Ah s’io fossi re… - Che vi sarei
io… disse una voce che colpì il cuore del nostro filosofo. - Siete voi, bella, Zenoide? diss’egli cadendole ai piedi. Io mi credeva solo; le poche parole che avete pronunziate pare che mi assicurino fa felicità alla quale aspiro: io non sarò
mai re, nè forse mai ricco, ma se voi mi amate… non rivolgete da me quegli occhi
pieni di vezzi, che io vi leggo un consenso che può solo compire i miei desideri.
Bella Zenoide, io vi adoro; aprasi la vostr’anima alla pietà. Che vedo! voi piangete!
Ah ch’io son troppo fortunato! - Sì voi siete fortunato, disse Zenoide: niente mi obbliga a celare la mia sensibilità per un oggetto che io ne credo degno: finora non avete avuto pietà della mia sorte che per i legami dell’umanità: è tempo ormai
di stringere questi legami con altri legami più santi. Io mi sono consigliata; riflettete seriamente ai casi vostri, e pensate sopratutto che sposandomi,
contraete l’obbligo di proteggermi, e di mitigare e dividere le miserie che forse ancora mi serba la sorte. - Sposarvi? dice Candido: queste parole mi illuminano sull’imprudenza della mia condotta. Ah! caro idolo della mia vita, io non merito da
voi tanta bontà. Cunegonda non è morta ancora. - Chi è questa Cunegonda?
chiese Zenoide - Questa è mia moglie, rispose Candido colla sua solita sincerità.
Restarono i nostri amanti qualche tempo senza aprir bocca voleano parlare, e le
loro parole spiravano su’ lor labbri; i loro occhi erano molli di pianto; Candido tenea fra le sue mani quelle di Zenoide, se le stringeva al cuore e le divorava di
baci. Ardì alzare gli sguardi e credè di vedere scritto il suo perdono ne’ begli occhi di lei - Caro amante, gli diss’ella, la mia collera coprirebbe malamente i trasporti
che autorizza il mio cuore. Fermati per altro; tu mi rovineresti nell’opinione degli uomini, e saresti poco capace d’amarmi se io diventassi l’oggetto de’ loro disprezzi: fermati, e rispetta la mia debolezza.
Non riferiremo tutta quella conversazione interessante; ci contenteremo di dire che l’eloquenza di Candido abbellita dall’espressioni amorose, ebbe tutto
quell’effetto che egli potea aspettare sopra una filosofessa giovine e sensibile.
Questi amanti, i cui giorni passavano per l’innanzi fra la mestizia e fra l’inquietudine, parvero felici; il silenzio delle foreste, le montagne coperte di bronchi e spine, ed attorniate da precipizj, le pianure gelate, i campi ripieni d’orrore de’ quali erano circondati, li persuasero maggiormente del bisogno
ch’essi avevano di amarsi. Erano risoluti a non abbandonare quella solitudine orribile, ma il destino non era stanco di perseguitarli, come lo vedremo nel capitolo seguente.
CAPITOLO XIII (torna all’indice)
Arrivo di Volhall. Viaggio a Copenaghen.
Candido e Zenoide trattenevansi sull’opere della divinità, sul culto che gli uomini
devono rendergli, su i doveri che li uniscono fra loro, e specialmente sulla carità,
virtù d’ogni altra virtù più utile al mondo, e non vi s’occupavano con declamazioni
frivole; insegnava Candido ai giovinetti il rispetto dovuto al freno sacrato delle leggi; Zenoide istruiva ragazze su quanto doveano a’ lor parenti, ed ambi si riunivano per gettare in quei giovani cuori i fecondi semi della religione. Un giorno ch’essi si dedicavano in quelle pie occupazioni, venne Suname ad avvertire
ch’era arrivato un vecchio signore accompagnato da molti domestici, e che al ritratto che le avea fatto di quella ch’ei cercava, non aveva potuto dubitare che non fosse la bella Zenoide. Quel signore seguiva Suname alle calcagna ed entrò
quasi nel tempo stesso di lei nel luogo ov’erano Zenoide e Candido.
Svenne Zenoide alla sua vista, ma poco sensibile a spettacolo compassionevole,
la prese Volhall per mano e la tirò con tanta violenza ch’ella rinvenne; ma non rinvenne che per spargere un rio di lacrime. - Mia nipote, le diss’egli con un sorriso amaro, io vi trovo in molto buona compagnia: non mi stupisco che la preferiate al soggiorno della capitale, alla mia casa, alla vostra famiglia. Sì, signore, rispose Zenoide, io preferisco i luoghi ove abitano la semplicità e il candore, al soggiorno del tradimento e dell’impostura. Io non rivedrò che con orrore quel luogo ov’ebbero principio le mie sventure, ove ho ricevuto tante prove
del vostro nero carattere, ove non ho altri parenti che voi… - Signorina, replicò Volhall, voi mi seguirete, se vi piace; quand’anche doveste svenire un’altra volta.
Così dicendo, la strascinò seco, e la fe’ montare in un calesse che l’attendea. Ella
ebbe appena tempo di dire a Candido di seguirla, e partì benedicendo i suoi ospiti e promettendo loro di ricompensare i generosi servigi ricevuti.
Un domestico di Volhall ebbe compassione del dolore in cui Candido era
immerso; credendo ch’ei non avesse altro affetto per la giovine danese, fuor quello che inspira la virtù infelice, gli propose di andare a Copenaghen, e gliene