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Due persone sul declive degli anni abitavano quel deserto; esse s’ingegnarono d’apprestar tutta l’aita, che la lor povertà offrir poteva, allo stato lacrimevole de lor prossimi. Questi due vecchi eran quali ci vengon dipinti Bauci e Filemone; da cinquant’anni gustavano le dolcezze dell’imeneo, senz’averne assaporato mai le amarezze; una sanità robusta, frutto della temperanza e della tranquillità dello spirito, semplici e dolci costumi, un fondo inesausto di schiettezza nel lor carattere; tutte le virtù che l’uomo non riconosce, che da sè stesso, formavano l’appannaggio accordato loro dal cielo. Erano essi la venerazione di tutti í vicini villaggi i cui abitanti immersi in una rusticità felice, avrebbero potuto passar per gente da bene, se fossero stati cattolici. Si facevano essi un dovere di non lasciar

mancar nulla ad Agatone e Suname (tale era il nome de’ due vecchi sposi) e la loro carità si stendeva a nuovi ospiti.- Oh mio caro Pangloss, diceva Candido, che

peccato che voi siate stato bruciato! Avevate ben ragione; ma non è in alcuna parte dell’Europa o dell’Asia che tutte le cose van bene; è solo nell’Eldorado, dove

non è possibile d’andare, e in una capannuccia situata nel luogo più freddo, più arido, più spaventevole della terra. Quanto piacere avrei a sentirvi qui ragionare dell’armonia prestabilita e delle monadi! Oh quanto volentieri passerei io i miei giorni fra questi luterani dabbene, sennonchè mi converrebbe rinunziare al

privilegio d’andare alla messa, e riserbarmi ad esser lacerato nel Giornale cristiano.

Candido aveva un gran desiderio di saper le avventure di Zenoide; ma non le

richiedeva per discretezza, ed ella che se ne accorse soddisfece alla di lui impazienza, parlando in tal guisa.

CAPITOLO XI (torna all’indice)

Istoria di Zenoide. Come qualmente Candido se ne innamorò e quel che ne

seguì.

“Io nasco da una delle più antiche case della Danimarca. Uno de’ miei antenati perì in quel convito in cui il perfido Cristierno apprestò la morte a tanti senatori. Le ricchezze e le dignità accumulate nella mia famiglia non han prodotto finora che

illustri sventurati. Mio padre osò dispiacere a un uomo potente, dicendogli la verità; gli si suscitarono contro degli accusatori che lo infamarono di mille immaginari delitti; i giudici furono ingannati. Ah quali giudici posson mai evitare le trappole, che la calunnia tende all’innocenza? Mio padre fu condannato ad esser

decapitato sopra un patibolo. La fuga sola potendolo liberar dal supplizio, si rifugiò da un amico, che credeva degno di sì bel nome. Stemmo qualche tempo nascosti

in un castello ch’ei possiede sulla, riva del mare, e vi saremmo ancora, se il crudele, abusando dello stato deplorabile in cui eravamo, non avesse voluto vendere i suoi servigi a un prezzo che ce li fece detestare. Aveva l’infame concepita una sregolata passione per mia madre e per me; tentò la nostra virtù coi mezzi più indegni d’un galantuomo, e noi ci vedemmo costretti ad esporci ai più spaventevoli pericoli, per evitar gli effetti della sua brutalità. Prendemmo la fuga una seconda volta, e voi sapete il resto.”

Nel finir questo racconto Zenoide pianse nuovamente. Candido asciugò le sue lacrime, e disse per consolarla - Tutto è per lo meglio, signorina; poiché se il vostro signor padre non moriva avvelenato, ei sarebbe stato infallibilmente

scoperto; e gli avrebbero tagliata la testa: la vostra signora madre ne sarebbe certamente morta di dolore, e noi non saremmo in questa capanna, ove le cose van molto meglio, che ne’ più be’ castelli possibili. - Ah! signore, rispose Zenoide, mio padre non ha detto mai che tutto fosse per lo meglio. Noi apparteniamo tutti a

Dio che ci ama, ma che non ha voluto. allontanar da noi le cure divoratrici, le malattie crudeli, i mali innumerabili che affliggon l’umanità: nasce il veleno in America accanto alla chinachina: il più felice mortale ha’ sparso delle lacrime: dal

mescuglio dei piaceri e delle pene risulta quel che si chiama vita, cioè un tratto di tempo determinato, sempre troppo lungo agli occhi del saggio, che deve

impiegarsi a fare il bene della società, nella quale ei si trova per godere le opere

dell’Onnipotente, senza ricercarne follemente le cagioni: a regolare la sua

condotta sul testimone di sua coscienza, ed a rispettare in ispecie la sua religione.

O felice chi può seguirla! Ecco quel che spesso diceami il mio rispettabile padre.

Venga il malanno, aggiungeva egli, a quegli scrittori temerari che cercano di

penetrare nei secreti dell’Onnipotente. Su questo principio, che Dio vuol essere rispettato dalle migliaia di atomi a’ quali ha dato l’essere, hanno gli uomini unito chimere ridicole a verità rispettabili. Il dervis dai turchi, il bramino in Persia, il bonzo in China, il talapuino nell’Indie, rendon tutti un differente culto alla divinità, ma essi godono la quiete dell’anima nelle tenebre ove sono immersi; e chi volesse dissiparle, renderebbe loro un cattivo uffizio. Non è un voler bene agli uomini, il sottrarli dall’impero del pregiudizio.

- Voi parlate come un filosofo, disse Candido: vorrei sapere, mia bella signorina,

di qual religione siate. - Io sono stata allevata nel luteranismo, rispose Zenoide: questa è la religione del mio paese. - Tutto ciò che avete detto, riprese Candido, è

un tratto dl luce che mi ha colpito: io provo per voi un mondo di stima e di ammirazione… Come può darsi che regni tanto spirito in sì bel corpo? In verità.

signorina, io vi stimo e vi ammiro a un segno…. Candido borbottava ancor

qualche parola, e Zenoide avvedendosi della sua agitazione, lo lasciò. Ella evitò

da quell’istante in poi di trovarsi sola con lui, e Candido cercò di trovarsi solo con lei, o d’esser solo affatto. Egli era immerso in una melanconia, che aveva per lui

del diletto; amava con trasporto Zenoide; e volea dissimularlo; i suoi sguardi tradivano i segreti del suo cuore. - Ah diceva egli, se il maestro Pangloss fosse qui, ei mi darebbe un buon consiglio, perchè egli era un filosofo.

CAPITOLO XII (torna all’indice)

Continuazione dell’amore dl Candido.

L’unica consolazione che provava Candido, era di parlare alla bella Zenoide in presenza de’ loro ospiti. - Come, le disse un giorno, il re a cui vivevate da presso, potè permettere l’ingiustizia che si fece alla vostra casa? Voi dovete bene aborrirlo. - Ah, disse Zenoide, chi può odiare il suo re? Chi può non amar quello in

cui è riposta la spada sfolgoreggiante delle leggi? I re sono le vive immagini della

divinità, e noi non dobbiamo condannare mai la loro condotta; l’obbedienza, e il rispetto fanno il dovere de’ buoni sudditi. - Io vi ammiro, sempre più rispose Candido: conoscete voi, signorina, il gran Leibnitz, e il gran Pangloss, che è stato

abbruciato dopo che scampò da esser impiccato? Sapete voi dello monadi, della

materia sottile, e de’ vortici? - No, disse Zenoide, mio padre non mi ha parlato mai

di alcuna di queste cose; egli mi ha dato solamente una tintura della fisica sperimentale, e mi ha insegnato a disprezzare ogni sorta di filosofia, che non concorra direttamente alla felicità dell’uomo, che gli dia false nozioni di ciò ch’ei deve a se stesso, e di ciò ch’ei deve agli altri, che non gl’insegni a regolare i costumi, che non gli riempia lo spirito che di parole barbare, e di congetture temerarie, che non gli dia più chiare idee dell’autore degli esseri che quella che gli somministrano le di lui opere, e le maraviglie che si operano tutti i giorni sotto i

suoi occhi. - E maggiormente v’ammiro, signorina; voi m’incantate, voi mi rapite; siete un angelo che il cielo m’ha inviato per illuminarmi sopra i sofismi del maestro Pangloss. Povero animale ch’io era! Dopo d’aver sopportato un numero

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