– Invece no – disse Dora. – Voi non mi servite. Voi non correte su e giù per le scale tutto il giorno per me. Non vi sedete mai accanto a me a parlarmi di Doady, di quando le sue scarpe erano rotte, ed egli era tutto impolverato... oh, poverino! Mi fate mai qualche cosa che mi piaccia, voi? – Dora s’affrettò a baciare mia zia e a dire:
– Sì che fate tutto, stavo scherzando – per paura che mia zia la pigliasse sul serio. – Ma, zia – disse Dora, carezzevolmente – ora ascoltate. Voi dovete andare. Io vi sec-cherò tanto che finirete col fare a mio modo. Darò tanti dispiaceri al mio cattivo marito, se non vi conduce. Di-venterò tanto noiosa... e lo diventerà anche Jip. Volete poi pentirvi per sempre e per sempre di non esserci andata? Inoltre – disse Dora, ravviandosi i riccioli, e guardando curiosa mia zia e me – perché non dovete andare tutti e due? Non mi sento molto male. Che? Sto molto male, forse?
– Che domanda! – esclamò mia zia.
– Che discorsi! – dissi io.
– Sì, lo so che sono sciocca! – disse Dora, guardando pianamente prima me, e poi mia zia, e atteggiando le labbra come a baciarci dal suo lettino. – Bene, allora dovete andare tutti e due, o non vi crederò; e allora mi metterò a piangere.
Vidi, nel viso di mia zia, che ella cominciava a cedere, e Dora, che se n’accorse anche lei, si illuminò di nuovo.
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– Al ritorno avrete da dirmi tante cose, che ci vorrà almeno una settimana per farmele capire! – disse Dora. –
Perché so che non capirò, tutto a un tratto, se si tratta di affari, com’è probabile. Se poi vi saran delle addizioni da fare, non so se ci riuscirò; e il mio cattivo marito mi terrà intanto il broncio. Ecco! Ora voi andrete, non è vero? Starete via soltanto una sera, e Jip saprà farmi buona guardia in vostra assenza. Doady mi porterà su prima d’andarvene, e io non verrò giù finché non ritor-nerete; e mi farete il piacere di portare ad Agnese una mia terribile lettera di rimproveri, perché non è mai venuta a trovarci.
Convenimmo, senz’altro, d’andare entrambi, e che Dora era una piccola impostora, che fingeva di sentirsi male per essere vezzeggiata. Ella ne parve gioiosamente soddisfatta; e in quattro, vale a dire mia zia, il signor Dick, Traddles e io partimmo per Canterbury con la diligenza di Dover quella sera stessa.
All’albergo, dove il signor Micawber ci aveva dato l’appuntamento, e dove entrammo, non senza qualche difficoltà, nel cuore della notte, trovai una lettera che diceva che egli si sarebbe presentato puntualmente alle nove e mezzo. Dopo di che, ci recammo tutti intirizziti, a quell’ora indebita, ai nostri rispettivi letti, per una lunga successione di piccoli corridoi, che odoravano come se fossero stati immersi per secoli in una soluzione di minestra e scuderie.
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La mattina presto, vagai per quelle vecchie e tranquille vie, e di nuovo mi trovai all’ombra dei venerandi cancelli e della Cattedrale. Le cornacchie svolazzavano intorno alle torri, che, dominando un vasto spazio della campagna lussureggiante traversata da limpide acque, si profilavano nella trasparente aria del mattino, come se non vi fossero stati in terra mutamenti di sorta. Pure, le campane, sonando, mi narravano melanconicamente di mutamenti in ogni cosa; mi narravano della loro età, e della giovinezza della mia leggiadra Dora, e dei molti, che avevano vissuto, avevano amato ed erano morti, mentre le loro vibrazioni, ronzando a traverso la ruggi-nosa armatura del Principe Nero sulla Cattedrale, festu-che sull’abisso del Tempo, s’erano dileguate nell’aria come cerchi nell’acqua.
Contemplai da un angolo l’antica casa che mi aveva ospitato, ma non mi avvicinai, per tema che, osservato, potessi involontariamente mandare a monte il disegno per cui eravamo stati chiamati. Il sole della mattina illuminava l’orlo dei suoi comignoli e le incorniciature delle finestre, dipingendoli d’oro; e come un senso dell’antica pace mi scendeva in cuore.
Andai a passeggio in campagna per un’oretta, e poi tornai per la via principale che nel frattempo s’era riscossa dal sonno. Fra quelli che s’affacendavano nelle botteghe, vidi il mio antico nemico, il macellaio, che certo aveva prosperato negli affari, e si mostrava ai passanti 1321
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con un bel paio di stivali e un bambino. Era occupato a vezzeggiare il bambino, e sembrava il più tranquillo cittadino del mondo.
Eravamo tutti molto ansiosi e impazienti, quando ci sedemmo a tavola per la colazione. Come ci avvicinavamo alle nove, la nostra inquietudine aumentava. Finalmente non facemmo neanche più mostra d’occuparci del pasto, che, salvo che per il signor Dick, era stato fin dal principio una semplice formalità; ma mia zia si mise a passeggiare su e giù per la stanza; Traddles, seduto sul canapè, faceva, con gli occhi al soffitto, le viste di leggere il giornale; e io guardavo fuori della finestra per dare il primo annunzio dell’arrivo del signor Micawber.
Non dovei aspettare a lungo, perché al primo rintocco della mezz’ora, lo sbirciai in istrada.
– Eccolo! – dissi – e senza l’abito nero.
Mia zia si legò i nastri del cappellino (era venuta a colazione col cappellino), e indossò lo scialle, come per prepararsi a qualche cosa di forte e di decisivo. Traddles si abbottonò con aria risoluta. Il signor Dick, turbato da questi formidabili preparativi, ma sentendo necessario di imitarli, si tirò il cappello, con ambe le mani, più che gli fu possibile, sulle orecchie; e immediatamente se lo ritolse per salutare il signor Micawber.
– Signori e signora – disse il signor Micawber –
buongiorno! Mio caro signore – al signor Dick, che gli 1322
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dava una vigorosa stretta di mano – voi siete sommamente gentile.
– Avete fatto colazione? – disse il signor Dick. – Ac-cettereste una costoletta?
– Neanche per sogno, mio buon signore! – esclamò il signor Micawber, impedendogli di sonare. – L’appetito e io, signor Dixon, siamo da lungo tempo nemici.
Il signor Dixon si compiacque tanto del suo nuovo nome, e vide un tratto di tanta generosità nel signor Micawber che glielo conferiva, che gli strinse di nuovo la mano, ridendo come un bambino.
– Dick – disse mia zia – attenzione! Il signor Dick ridi-ventò serio, arrossendo.
– Ora, signore – disse mia zia al signor Micawber, mettendosi i guanti – siamo pronti a partire per il Vesuvio o per dovunque vi piacerà.
– Signora – rispose il signor Micawber – io ho la speranza, infatti, di farvi assistere fra poco a un’eruzione.
Signor Traddles, io ho il vostro permesso, credo, di ricordare qui che noi siamo stati in comunicazione insieme.
– È un fatto indiscutibile, Copperfield – disse Traddles, al quale io diedi un’occhiata di sorpresa. – Il signor Micawber mi ha consultato su ciò che contava di fare; e io l’ho consigliato nel modo che m’è parso più opportuno.
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– Se non m’inganno, signor Traddles – continuò il signor Micawber, – ciò che conto di fare è una rivelazione molto importante.
– Sommamente importante – disse Traddles.
– Forse in tali circostanze, signori e signora – disse il signor Micawber – voi mi farete il favore di farvi guidare, per il momento, da uno, che, comunque indegno di esser considerato diversamente di un relitto sulla sponda dell’umana natura, e per quanto sfigurato nella sua forma originale da errori individuali e dalla forza cumulativa di un concorso di circostanze, è pur sempre un vostro simile.