Io bisbigliai poche parole ad Agnese, che piangeva, piangeva di gioia e di tristezza al mio fianco, e vi fu un 1345
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movimento accanto a noi, come se il signor Micawber avesse finito. Egli disse, con molta gravità: «Vi chiedo scusa», e continuò, con un misto d’estremo abbattimento e di fervida gioia, la perorazione della sua lettera.
«Ora ho finito. Non mi rimane che da concretare queste accuse, e poi sparire, con la mia sventurata famiglia, da un panorama nel quale sembra che noi costituiamo un ingombro. Sarà subito fatto. Si può ragionevolmente prevedere che il nostro bambino, il più fragile membro della famiglia, sarà il primo a sparire d’inanizione; e che i nostri due gemelli lo seguiranno. Così sia. Quanto a me, il pellegrinaggio a Canterbury mi ha giovato molto: la prigione per debiti e la miseria faranno il resto. Io confido che le fatiche d’una lunga e ardua investigazione, seguita con tanta penosa lentezza nelle sue minime tracce, in mezzo alle mie incessanti occupazioni, ai miei opprimenti timori, allo spuntar del giorno e al calar della sera e fra le ombre notturne e sotto l’occhio sospettoso di uno che sarebbe superfluo chiamare Demonio – insieme con l’angoscia per la miseria in cui sarebbe caduta la mia famiglia, dopo che le avessi condotte a termine, saranno come lo spargimento di poche gocce di acqua dolce sulla mia pira funerea. Non chiedo di più. Soltanto, per spirito di giustizia, si dica di me, come di quel valo-roso eroe navale, col quale non ho la prevenzione di pa-ragonarmi, che ciò che ho fatto, l’ho fatto, non per interessi egoistici e venali, ma per
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«L’Inghilterra, la patria e la bellezza.
E rimango, per la vita, ecc:, ecc.».
«WILKINS MICAWBER».
Con molta commozione, ma con pari soddisfazione, il signor Micawber piegò la lettera e la consegnò con un inchino a mia zia, come un documento che le sarebbe piaciuto di conservare.
Esisteva, come avevo già osservato al tempo della mia prima visita colà, una cassaforte nella stanza. La chiave era nella serratura. Uriah parve in preda a un improvviso sospetto. Con un’occhiata a Micawber, si slanciò verso la cassaforte, e l’aprì rumorosamente. Era vuota.
– Dove sono i registri? – egli esclamò, con una spaven-tevole espressione. – Qualche ladro mi ha rubato i registri!
Il signor Micawber si picchiò con la riga.
– Sono stato io, quando come al solito m’avete dato la chiave, e l’ho aperta questa mattina.
– Non ve ne date pensiero – disse Traddles. – Sono in mio possesso. Li custodirò gelosamente nella qualità 1347
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che già v’ho detto.
– E voi ricettate la roba rubata? – esclamò Uriah.
– In queste circostanze – rispose Traddles – sì.
Qual non fu il mio stupore quando vidi mia zia, che era stata fino a quel momento perfettamente calma e attenta, balzare su Uriah Heep, e afferrarlo per il bavero con ambe le mani.
– Sapete che voglio? – disse mia zia.
– Una camicia di forza – egli disse.
– No. La roba mia! – rispose mia zia. – Agnese, mia cara Agnese, finché ho creduto che fosse stata perduta da vostro padre, non ho fiatato, non ho detto a nessuno, neanche a Trot, che avevo depositato qui il mio denaro.
Ma ora so che ne risponde questo signorino, e io lo voglio. Trot, vieni a fartelo dare!
Veramente non so se mia zia credeva ch’egli tenesse il denaro nel fazzoletto; ma il fatto sta che ella scoteva e tirava Uriah come se ne fosse convinta. M’affrettai a se-pararli, ed assicurai mia zia, che noi avremmo fatto di tutto per fargli restituire fin l’ultimo centesimo di quanto aveva indebitamente percepito. Questa assicurazione e pochi momenti di riflessione la calmarono; ma ella non parve affatto sconcertata da ciò che aveva fatto (benché non si possa dire lo stesso del suo cappellino) e riprese dignitosamente il suo posto.
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Negli ultimi pochi minuti, la signora Heep si era sgolata a gridare al figlio d’essere «umile»; e s’era ingi-nocchiata in giro innanzi a noi, facendo le promesse più stravaganti. Suo figlio la fece risedere; poi, mettendosi accanto a lei con un’espressione torva, tenendole un braccio, ma non rudemente, mi disse con uno sguardo selvaggio:
– Che volete che faccia?
– Vi dirò io quel che dovete fare – disse Traddles.
– Copperfield non ha dunque la lingua? – mormorò Uriah. – Io farei tutto per voi, se poteste assicurarmi che gliel’hanno tagliata.
– Il mio Uriah sarà umile! – esclamò la madre. –
Non badate a ciò che dice, miei buoni signori!
– Ciò che bisogna fare – disse Traddles – è questo.
Primo, mi consegnerete subito l’atto con cui il signor Wickfield vi faceva la consegna dei suoi beni.
– E se non l’avessi? – egli interruppe.
– Ma voi l’avete, e perciò è inutile affacciar dei dubbi – disse Traddles. – E non posso fare a meno dal confessare che quella fu la prima volta che io resi veramente giustizia al chiaro intelletto e al semplice, paziente, pratico buon senso del mio vecchio compagno di scuola. – Allora – egli proseguì – voi dovete prepararvi a rendere tutto ciò che ha uncinato la vostra rapacia, e a 1349
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restituirlo fino all’ultimo centesimo. Tutti i libri e le carte debbono rimanere in nostro possesso; tutti i conti e tutte le garanzie, tutto insomma.
– Sì? Io non so – disse Uriah: – debbo aver tempo a pensarci.