del latte lor dolcissimo più pingue, per aiutarmi, al millesmo del vero non si verria, cantando il santo riso e quanto il santo aspetto facea mero; e così, figurando il paradiso,
convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin riciso.
Ma chi pensasse il ponderoso tema e l'omero mortal che se ne carca, nol biasmerebbe se sott' esso trema: non è pareggio da picciola barca
quel che fendendo va l'ardita prora, né da nocchier ch'a sé medesmo parca.
«Perché la faccia mia sì t'innamora, che tu non ti rivolgi al bel giardino che sotto i raggi di Cristo s'infiora?
Quivi è la rosa in che 'l verbo divino 424
Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________
carne si fece; quivi son li gigli al cui odor si prese il buon cammino».
Così Beatrice; e io, che a' suoi consigli tutto era pronto, ancora mi rendei a la battaglia de' debili cigli.
Come a raggio di sol, che puro mei per fratta nube, già prato di fiori vider, coverti d'ombra, li occhi miei; vid' io così più turbe di splendori, folgorate di sù da raggi ardenti, sanza veder principio di folgóri.
O benigna vertù che sì li 'mprenti, sù t'essaltasti, per largirmi loco a li occhi lì che non t'eran possenti.
Il nome del bel fior ch'io sempre invoco e mane e sera, tutto mi ristrinse l'animo ad avvisar lo maggior foco; e come ambo le luci mi dipinse
il quale e il quanto de la viva stella che là sù vince come qua giù vinse, per entro il cielo scese una facella, formata in cerchio a guisa di corona, e cinsela e girossi intorno ad ella.
Qualunque melodia più dolce suona qua giù e più a sé l'anima tira,
parrebbe nube che squarciata tona, comparata al sonar di quella lira onde si coronava il bel zaffiro
del quale il ciel più chiaro s'inzaffira.
«Io sono amore angelico, che giro l'alta letizia che spira del ventre che fu albergo del nostro disiro; 425
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e girerommi, donna del ciel, mentre che seguirai tuo figlio, e farai dia più la spera supprema perché lì entre».
Così la circulata melodia
si sigillava, e tutti li altri lumi facean sonare il nome di Maria.
Lo real manto di tutti i volumi
del mondo, che più ferve e più s'avviva ne l'alito di Dio e nei costumi,
avea sopra di noi l'interna riva
tanto distante, che la sua parvenza, là dov' io era, ancor non appariva: però non ebber li occhi miei potenza di seguitar la coronata fiamma
che si levò appresso sua semenza.
E come fantolin che 'nver' la mamma tende le braccia, poi che 'l latte prese, per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma; ciascun di quei candori in sù si stese con la sua cima, sì che l'alto affetto ch'elli avieno a Maria mi fu palese.
Indi rimaser lì nel mio cospetto,
'Regina celi' cantando sì dolce,
che mai da me non si partì 'l diletto.
Oh quanta è l'ubertà che si soffolce in quelle arche ricchissime che fuoro a seminar qua giù buone bobolce!
Quivi si vive e gode del tesoro
che s'acquistò piangendo ne lo essilio di Babillòn, ove si lasciò l'oro.
Quivi trïunfa, sotto l'alto Filio di Dio e di Maria, di sua vittoria, e con l'antico e col novo concilio, 426
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colui che tien le chiavi di tal gloria.
CANTO XXIV
[Canto XXIV, dove si tratta de la nona e ultima parte di questa ultima cantica; ne la quale san Pietro Appostolo a priego di Beatrice essamina l'auttore sopra la fede cattolica.]
«O sodalizio eletto a la gran cena del benedetto Agnello, il qual vi ciba sì, che la vostra voglia è sempre piena, se per grazia di Dio questi preliba di quel che cade de la vostra mensa, prima che morte tempo li prescriba, ponete mente a l'affezione immensa e roratelo alquanto: voi bevete