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Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________

Ben puoi veder che la mala condotta è la cagion che 'l mondo ha fatto reo, e non natura che 'n voi sia corrotta.

Soleva Roma, che 'l buon mondo feo, due soli aver, che l'una e l'altra strada facean vedere, e del mondo e di Deo.

L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada col pasturale, e l'un con l'altro insieme per viva forza mal convien che vada; però che, giunti, l'un l'altro non teme: se non mi credi, pon mente a la spiga, ch'ogn' erba si conosce per lo seme.

In sul paese ch'Adice e Po riga,

solea valore e cortesia trovarsi, prima che Federigo avesse briga;

or può sicuramente indi passarsi

per qualunque lasciasse, per vergogna, di ragionar coi buoni o d'appressarsi.

Ben v'èn tre vecchi ancora in cui rampogna l'antica età la nova, e par lor tardo che Dio a miglior vita li ripogna: Currado da Palazzo e 'l buon Gherardo e Guido da Castel, che mei si noma, francescamente, il semplice Lombardo.

Dì oggimai che la Chiesa di Roma, per confondere in sé due reggimenti, cade nel fango, e sé brutta e la soma».

«O Marco mio», diss' io, «bene argomenti; e or discerno perché dal retaggio li figli di Levì furono essenti.

Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio di' ch'è rimaso de la gente spenta, in rimprovèro del secol selvaggio?».

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Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________

«O tuo parlar m'inganna, o el mi tenta», rispuose a me; «ché, parlandomi tosco, par che del buon Gherardo nulla senta.

Per altro sopranome io nol conosco, s'io nol togliessi da sua figlia Gaia.

Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.

Vedi l'albor che per lo fummo raia già biancheggiare, e me convien partirmi (l'angelo è ivi) prima ch'io li paia».

Così tornò, e più non volle udirmi.

CANTO XVII

[Canto XVII, dove tratta de la qualità del quarto girone, dove si purga la colpa de la accidia, dove si ristora l'amore de lo imperfetto bene; e qui dichiara una questione che indi nasce.]

Ricorditi, lettor, se mai ne l'alpe ti colse nebbia per la qual vedessi non altrimenti che per pelle talpe, come, quando i vapori umidi e spessi a diradar cominciansi, la spera

del sol debilemente entra per essi; e fia la tua imagine leggera

in giugnere a veder com' io rividi lo sole in pria, che già nel corcar era.

Sì, pareggiando i miei co' passi fidi del mio maestro, usci' fuor di tal nube 234

Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________

ai raggi morti già ne' bassi lidi.

O imaginativa che ne rube

talvolta sì di fuor, ch'om non s'accorge perché dintorno suonin mille tube, chi move te, se 'l senso non ti porge?

Moveti lume che nel ciel s'informa, per sé o per voler che giù lo scorge.

De l'empiezza di lei che mutò forma ne l'uccel ch'a cantar più si diletta, ne l'imagine mia apparve l'orma;

e qui fu la mia mente sì ristretta dentro da sé, che di fuor non venìa cosa che fosse allor da lei ricetta.

Poi piovve dentro a l'alta fantasia un crucifisso, dispettoso e fero

ne la sua vista, e cotal si moria; intorno ad esso era il grande Assüero, Estèr sua sposa e 'l giusto Mardoceo, che fu al dire e al far così intero.

E come questa imagine rompeo

sé per sé stessa, a guisa d'una bulla cui manca l'acqua sotto qual si feo, surse in mia visïone una fanciulla piangendo forte, e dicea: «O regina, perché per ira hai voluto esser nulla?

Ancisa t'hai per non perder Lavina; or m'hai perduta! Io son essa che lutto, madre, a la tua pria ch'a l'altrui ruina».

Come si frange il sonno ove di butto nova luce percuote il viso chiuso, che fratto guizza pria che muoia tutto; così l'imaginar mio cadde giuso

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Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________

tosto che lume il volto mi percosse, maggior assai che quel ch'è in nostro uso.

I' mi volgea per veder ov' io fosse, quando una voce disse «Qui si monta», che da ogne altro intento mi rimosse; e fece la mia voglia tanto pronta di riguardar chi era che parlava, che mai non posa, se non si raffronta.

Ma come al sol che nostra vista grava e per soverchio sua figura vela,

così la mia virtù quivi mancava.

«Questo è divino spirito, che ne la via da ir sù ne drizza sanza prego, e col suo lume sé medesmo cela.

Sì fa con noi, come l'uom si fa sego; ché quale aspetta prego e l'uopo vede, malignamente già si mette al nego.

Or accordiamo a tanto invito il piede; procacciam di salir pria che s'abbui, ché poi non si poria, se 'l dì non riede».

Così disse il mio duca, e io con lui volgemmo i nostri passi ad una scala; e tosto ch'io al primo grado fui, senti'mi presso quasi un muover d'ala e ventarmi nel viso e dir: 'Beati pacifici, che son sanz' ira mala!'.

Già eran sovra noi tanto levati

li ultimi raggi che la notte segue, che le stelle apparivan da più lati.

Are sens