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Come li augei che vernan lungo 'l Nilo, alcuna volta in aere fanno schiera, poi volan più a fretta e vanno in filo, così tutta la gente che lì era,

volgendo 'l viso, raffrettò suo passo, e per magrezza e per voler leggera.

E come l'uom che di trottare è lasso, lascia andar li compagni, e sì passeggia fin che si sfoghi l'affollar del casso, sì lasciò trapassar la santa greggia Forese, e dietro meco sen veniva, dicendo: «Quando fia ch'io ti riveggia?».

«Non so», rispuos' io lui, «quant' io mi viva; ma già non fïa il tornar mio tantosto, ch'io non sia col voler prima a la riva; però che 'l loco u' fui a viver posto, di giorno in giorno più di ben si spolpa, e a trista ruina par disposto».

«Or va», diss' el; «che quei che più n'ha colpa, vegg' ïo a coda d'una bestia tratto inver' la valle ove mai non si scolpa.

La bestia ad ogne passo va più ratto, crescendo sempre, fin ch'ella il percuote, e lascia il corpo vilmente disfatto.

Non hanno molto a volger quelle ruote», e drizzò li occhi al ciel, «che ti fia chiaro ciò che 'l mio dir più dichiarar non puote.

Tu ti rimani omai; ché 'l tempo è caro in questo regno, sì ch'io perdo troppo venendo teco sì a paro a paro».

Qual esce alcuna volta di gualoppo lo cavalier di schiera che cavalchi, 270

Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________

e va per farsi onor del primo intoppo, tal si partì da noi con maggior valchi; e io rimasi in via con esso i due che fuor del mondo sì gran marescalchi.

E quando innanzi a noi intrato fue, che li occhi miei si fero a lui seguaci, come la mente a le parole sue,

parvermi i rami gravidi e vivaci

d'un altro pomo, e non molto lontani per esser pur allora vòlto in laci.

Vidi gente sott' esso alzar le mani e gridar non so che verso le fronde, quasi bramosi fantolini e vani

che pregano, e 'l pregato non risponde, ma, per fare esser ben la voglia acuta, tien alto lor disio e nol nasconde.

Poi si partì sì come ricreduta;

e noi venimmo al grande arbore adesso, che tanti prieghi e lagrime rifiuta.

«Trapassate oltre sanza farvi presso: legno è più sù che fu morso da Eva, e questa pianta si levò da esso».

Sì tra le frasche non so chi diceva; per che Virgilio e Stazio e io, ristretti, oltre andavam dal lato che si leva.

«Ricordivi», dicea, «d'i maladetti nei nuvoli formati, che, satolli, Tesëo combatter co' doppi petti;

e de li Ebrei ch'al ber si mostrar molli, per che no i volle Gedeon compagni, quando inver' Madïan discese i colli».

Sì accostati a l'un d'i due vivagni 271

Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________

passammo, udendo colpe de la gola seguite già da miseri guadagni.

Poi, rallargati per la strada sola, ben mille passi e più ci portar oltre, contemplando ciascun sanza parola.

«Che andate pensando sì voi sol tre?».

sùbita voce disse; ond' io mi scossi come fan bestie spaventate e poltre.

Drizzai la testa per veder chi fossi; e già mai non si videro in fornace vetri o metalli sì lucenti e rossi, com' io vidi un che dicea: «S'a voi piace montare in sù, qui si convien dar volta; quinci si va chi vuole andar per pace».

L'aspetto suo m'avea la vista tolta; per ch'io mi volsi dietro a' miei dottori, com' om che va secondo ch'elli ascolta.

E quale, annunziatrice de li albori, l'aura di maggio movesi e olezza, tutta impregnata da l'erba e da' fiori; tal mi senti' un vento dar per mezza la fronte, e ben senti' mover la piuma, che fé sentir d'ambrosïa l'orezza.

E senti' dir: «Beati cui alluma

tanto di grazia, che l'amor del gusto nel petto lor troppo disir non fuma, esurïendo sempre quanto è giusto!».

CANTO XXV

272

Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________

[Canto XXV, lo quale tratta de l'essenzia del settimo girone, dove si punisce la colpa e peccato contro a natura ed ermafrodito sotto il vizio de la lussuria; e prima tratta alquanto del precedente purgamento de' ghiotti, dove Stazio poeta fae una distinzione sopra la natura umana.]

Ora era onde 'l salir non volea storpio; ché 'l sole avëa il cerchio di merigge lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio: per che, come fa l'uom che non s'affigge ma vassi a la via sua, che che li appaia, se di bisogno stimolo il trafigge, così intrammo noi per la callaia, uno innanzi altro prendendo la scala che per artezza i salitor dispaia.

E quale il cicognin che leva l'ala per voglia di volare, e non s'attenta d'abbandonar lo nido, e giù la cala; tal era io con voglia accesa e spenta di dimandar, venendo infino a l'atto che fa colui ch'a dicer s'argomenta.

Non lasciò, per l'andar che fosse ratto, lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca l'arco del dir, che 'nfino al ferro hai tratto».

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