per digiunar, quando più n'ebbe tema.
Io dicea fra me stesso pensando: 'Ecco la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di becco!'.
Parean l'occhiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge 'omo'
ben avria quivi conosciuta l'emme.
Chi crederebbe che l'odor d'un pomo sì governasse, generando brama,
e quel d'un'acqua, non sappiendo como?
Già era in ammirar che sì li affama, per la cagione ancor non manifesta di lor magrezza e di lor trista squama, ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un'ombra e guardò fiso; poi gridò forte: «Qual grazia m'è questa?».
Mai non l'avrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l'aspetto in sé avea conquiso.
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Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________
Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia, e ravvisai la faccia di Forese.
«Deh, non contendere a l'asciutta scabbia che mi scolora», pregava, «la pelle, né a difetto di carne ch'io abbia; ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle due anime che là ti fanno scorta; non rimaner che tu non mi favelle!».
«La faccia tua, ch'io lagrimai già morta, mi dà di pianger mo non minor doglia», rispuos' io lui, «veggendola sì torta.
Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia; non mi far dir mentr' io mi maraviglio, ché mal può dir chi è pien d'altra voglia».
Ed elli a me: «De l'etterno consiglio cade vertù ne l'acqua e ne la pianta rimasa dietro, ond' io sì m'assottiglio.
Tutta esta gente che piangendo canta per seguitar la gola oltra misura, in fame e 'n sete qui si rifà santa.
Di bere e di mangiar n'accende cura l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo che si distende su per sua verdura.
E non pur una volta, questo spazzo girando, si rinfresca nostra pena: io dico pena, e dovria dir sollazzo, ché quella voglia a li alberi ci mena che menò Cristo lieto a dire 'Elì', quando ne liberò con la sua vena».
E io a lui: «Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita, cinqu' anni non son vòlti infino a qui.
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Se prima fu la possa in te finita di peccar più, che sovvenisse l'ora del buon dolor ch'a Dio ne rimarita, come se' tu qua sù venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto, dove tempo per tempo si ristora».
Ond' elli a me: «Sì tosto m'ha condotto a ber lo dolce assenzo d'i martìri la Nella mia con suo pianger dirotto.
Con suoi prieghi devoti e con sospiri tratto m'ha de la costa ove s'aspetta, e liberato m'ha de li altri giri.
Tanto è a Dio più cara e più diletta la vedovella mia, che molto amai, quanto in bene operare è più soletta; ché la Barbagia di Sardigna assai ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov' io la lasciai.
O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica?
Tempo futuro m'è già nel cospetto, cui non sarà quest' ora molto antica, nel qual sarà in pergamo interdetto a le sfacciate donne fiorentine
l'andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai, quai saracine, cui bisognasse, per farle ir coperte, o spiritali o altre discipline?
Ma se le svergognate fosser certe di quel che 'l ciel veloce loro ammanna, già per urlare avrian le bocche aperte; ché, se l'antiveder qui non m'inganna, prima fien triste che le guance impeli 266
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colui che mo si consola con nanna.
Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!