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Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________
E io, che son giaciuto a questa doglia cinquecent' anni e più, pur mo sentii libera volontà di miglior soglia: però sentisti il tremoto e li pii spiriti per lo monte render lode
a quel Segnor, che tosto sù li 'nvii».
Così ne disse; e però ch'el si gode tanto del ber quant' è grande la sete, non saprei dir quant' el mi fece prode.
E 'l savio duca: «Omai veggio la rete che qui vi 'mpiglia e come si scalappia, perché ci trema e di che congaudete.
Ora chi fosti, piacciati ch'io sappia, e perché tanti secoli giaciuto
qui se', ne le parole tue mi cappia».
«Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto del sommo rege, vendicò le fóra
ond' uscì 'l sangue per Giuda venduto, col nome che più dura e più onora era io di là», rispuose quello spirto,
«famoso assai, ma non con fede ancora.
Tanto fu dolce mio vocale spirto, che, tolosano, a sé mi trasse Roma, dove mertai le tempie ornar di mirto.
Stazio la gente ancor di là mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille; ma caddi in via con la seconda soma.
Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati più di mille;
de l'Eneïda dico, la qual mamma
fummi, e fummi nutrice, poetando: 256
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sanz' essa non fermai peso di dramma.
E per esser vivuto di là quando
visse Virgilio, assentirei un sole più che non deggio al mio uscir di bando».
Volser Virgilio a me queste parole con viso che, tacendo, disse 'Taci'; ma non può tutto la virtù che vuole; ché riso e pianto son tanto seguaci a la passion di che ciascun si spicca, che men seguon voler ne' più veraci.
Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca; per che l'ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove 'l sembiante più si ficca; e «Se tanto labore in bene assommi», disse, «perché la tua faccia testeso un lampeggiar di riso dimostrommi?».
Or son io d'una parte e d'altra preso: l'una mi fa tacer, l'altra scongiura ch'io dica; ond' io sospiro, e sono inteso dal mio maestro, e «Non aver paura», mi dice, «di parlar; ma parla e digli quel ch'e' dimanda con cotanta cura».
Ond' io: «Forse che tu ti maravigli, antico spirto, del rider ch'io fei; ma più d'ammirazion vo' che ti pigli.
Questi che guida in alto li occhi miei, è quel Virgilio dal qual tu togliesti forte a cantar de li uomini e d'i dèi.
Se cagion altra al mio rider credesti, lasciala per non vera, ed esser credi quelle parole che di lui dicesti».
Già s'inchinava ad abbracciar li piedi 257
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al mio dottor, ma el li disse: «Frate, non far, ché tu se' ombra e ombra vedi».
Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate comprender de l'amor ch'a te mi scalda, quand' io dismento nostra vanitate, trattando l'ombre come cosa salda».
CANTO XXII
[Canto XXII, dove tratta de la qualità del sesto girone, dove si punisce e purga la colpa e vizio de la gola; e qui narra Stazio sua purgazione e sua conversione a la cristiana fede.]
Già era l'angel dietro a noi rimaso, l'angel che n'avea vòlti al sesto giro, avendomi dal viso un colpo raso;
e quei c'hanno a giustizia lor disiro detto n'avea beati, e le sue voci con 'sitiunt', sanz' altro, ciò forniro.
E io più lieve che per l'altre foci m'andava, sì che sanz' alcun labore seguiva in sù li spiriti veloci;
quando Virgilio incominciò: «Amore, acceso di virtù, sempre altro accese, pur che la fiamma sua paresse fore; onde da l'ora che tra noi discese nel limbo de lo 'nferno Giovenale, che la tua affezion mi fé palese, mia benvoglienza inverso te fu quale più strinse mai di non vista persona, 258
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sì ch'or mi parran corte queste scale.
Ma dimmi, e come amico mi perdona se troppa sicurtà m'allarga il freno, e come amico omai meco ragiona:
come poté trovar dentro al tuo seno loco avarizia, tra cotanto senno