All’uscita di scuola, stordita dall’infelicità, passavo davanti alla bottega di Fernando solo per vedere Lila al posto suo di lavoro, seduta a un tavolino, nel fondo, con il suo busto magrissimo senza ombra di seno, il collo sottile, il viso emaciato. Non so cosa facesse di preciso, ma era lì, attiva, oltre la porta a vetri, incastonata tra la testa china del padre e la testa china del fratello, niente libri, niente lezioni, niente compiti a casa. A volte mi fermavo a guardare in vetrina le scatole di cromatina, le vecchie scarpe risuolate di fresco, quelle nuove messe in una forma che ne dilatava il cuoio e le allargava rendendole più comode, come se fossi una cliente e avessi interesse alla merce. Mi allontanavo solo, e malvolentieri, quando lei mi vedeva e mi salutava, e io rispondevo al saluto, e lei tornava a concentrarsi sul lavoro. Ma spesso era Rino ad accorgersi per primo di me e mi faceva smorfie buffe per farmi ridere. Imbarazzata, correvo via senza aspettare lo sguardo di Lila.
Una domenica mi sorpresi a parlare appassionatamente di scarpe con Carmela Peluso. Lei comprava Sogno e divorava fotoromanzi. All’inizio mi pareva tempo perso, poi avevo cominciato a buttarci uno sguardo anch’io, e ora leggevamo insieme, ai giardinetti, e commentavamo le storie e le battute dei singoli personaggi, scritte in lettere bianche su fondo nero. Carmela, più di me, tendeva a passare senza soluzione di continuità dai commenti ai racconti d’amore finti ai commenti al racconto del suo amore vero, quello per Alfonso. Io, per non essere da meno, una volta le dissi del figlio del farmacista, Gino, sostenni che mi amava. Non ci credette. Il figlio del farmacista ai suoi occhi era una specie di principe inarrivabile, erede futuro della farmacia, un signore che non avrebbe mai sposato la figlia di un usciere, e allora fui lì lì per dirle di quando mi aveva chiesto di fargli vedere il petto e io l’avevo fatto e ci avevo guadagnato dieci lire. Ma tenevamo ben spiegato sulle ginocchia Sogno e lo sguardo mi cadde sulle bellissime scarpe col tacco di una delle attrici. Mi sembrò un argomento di grande effetto, più della storia delle mammelle, e non riuscii a resistere, cominciai a lodarle e a lodare chi le aveva fatte così belle e ad almanaccare che se avessimo portato scarpe così, né Gino né Alfonso ci avrebbero resistito. Più parlavo, però, più mi accorgevo con imbarazzo che cercavo di far mia la nuova passione di Lila.
Carmela mi ascoltò distrattamente, poi disse che doveva andare. Di calzature e calzolai le importava poco o niente. A differenza di me, lei, pur imitando i modi di Lila, si teneva ben stretta alle sole cose che l’avvincevano: i fotoromanzi, l’amore.
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5.
Tutto quel periodo ebbe questo andamento. Dovetti ammettere presto che ciò che facevo io, da sola, non riusciva a farmi battere il cuore, solo ciò che Lila sfiorava diventava importante. Ma se lei si allontanava, se la sua voce si allontanava dalle cose, le cose si macchiavano, si impolveravano. La scuola media, il latino, i professori, i libri, la lingua dei libri mi sembrarono definitivamente meno suggestivi della finitura di una scarpa, e questo mi depresse.
Ma una domenica tutto cambiò di nuovo. Eravamo andate, Carmela, Lila e io, al catechismo, dovevamo prepararci alla prima comunione. All’uscita Lila disse che aveva da fare e se ne andò. Ma vidi che non si dirigeva verso casa: con mia grande sorpresa entrò nell’edificio delle scuole elementari.
Mi incamminai con Carmela, ma poiché mi annoiavo a un certo punto la salutai, feci il giro del palazzo e tornai indietro. Di domenica le scuole erano chiuse, come mai Lila era entrata nell’edificio? Mi avventurai tra mille titubanze oltre il portone, nell’atrio. Non ero mai più entrata nella mia vecchia scuola e provai una forte emozione, ne riconobbi l’odore, che si trascinò dietro una sensazione d’agio, un senso di me che non avevo più.
Infilai l’unica porta aperta al pianterreno. C’era una sala ampia, illuminata dai neon, le pareti erano coperte di scaffali carichi di vecchi libri. Contai una decina di adulti, numerosi bambini e ragazzini. Prendevano volumi, li sfogliavano, li rimettevano a posto, ne sceglievano uno. Poi si mettevano in fila davanti a una scrivania oltre la quale era seduto un vecchio nemico della maestra Oliviero, il maestro Ferraro, magro, coi capelli grigi tagliati a spazzola. Ferraro esaminava il testo prescelto, segnava qualcosa nel registro e le persone se ne uscivano con uno o più libri.
Mi guardai intorno: Lila non c’era, forse era già andata via. Cosa faceva, non frequentava più la scuola, si appassionava a scarpe e scarpacce, e tuttavia, senza dirmi niente, veniva in quel posto a prendere libri? Le piaceva quello spazio? Perché non mi invitava ad accompagnarla? Perché mi aveva lasciata con Carmela? Perché mi parlava di come si smerigliavano le suole e
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non di ciò che leggeva?
Mi arrabbiai, scappai via.
Per un po’ il tempo scolastico mi sembrò più insignificante del solito. Poi fui risucchiata dalla folla di compiti e interrogazioni di fine anno, temevo i brutti voti, studiavo sciattamente ma molto. E in più altre preoccupazioni mi incalzavano. Mia madre mi disse che ero indecente con tutto quel petto che m’era venuto e mi portò a comprare un reggipetto. Era più brusca del solito.
Pareva vergognarsi che avessi il seno, che mi fosse venuto il marchese. Le ruvide istruzioni che mi dava erano rapide e insufficienti, appena bofonchiate.
Non facevo in tempo a farle qualche domanda che già mi dava le spalle e si allontanava col suo passo sghembo.
Col reggiseno il petto diventò ancora più visibile. Negli ultimi mesi di scuola fui assillata dai maschi e capii presto perché. Gino e il suo compagno avevano diffuso la voce che mostravo com’ero fatta senza problemi e ogni tanto arrivava qualcuno che mi chiedeva di ripetere lo spettacolo. Svicolavo, mi comprimevo il petto tenendoci sopra le braccia incrociate, mi sentivo misteriosamente colpevole e sola con la mia colpa. I maschi insistevano, anche per strada, anche in cortile. Ridevano, mi prendevano in giro. Provai a respingerli una o due volte con modi alla Lila, ma non mi riuscirono bene, e allora non resistei e scoppiai a piangere. Per paura che mi importunassero mi autoreclusi in casa. Studiavo moltissimo, uscivo ormai solo per andare molto malvolentieri a scuola.
Una mattina di maggio Gino mi rincorse e mi chiese senza spavalderia, anzi stravolto, se ci volevamo fidanzare. Gli dissi di no, per astio, per vendetta, per imbarazzo, fiera tuttavia che il figlio del farmacista mi volesse.
Il giorno dopo me lo domandò di nuovo e non smise mai di domandarmelo, fino a giugno, quando, con un po’ di ritardo dovuto alla vita complicata dei nostri genitori, facemmo la prima comunione, in abito bianco come spose.
Così vestite, ci attardammo sul sagrato a far subito peccato parlando d’amore. Carmela non ci poteva credere che io rifiutassi il figlio del farmacista e lo disse a Lila. Lei, stupendomi, invece di filar via con l’aria di chi dice: chi se ne frega, s’interessò alla cosa. Ne parlammo tutte e tre.
«Perché gli dici di no?» mi chiese Lila in dialetto.
Risposi all’improvviso in italiano, per farle impressione, per farle capire che, anche se passavo il tempo a ragionare di fidanzati, non ero da trattare come Carmela:
«Perché non sono sicura dei miei sentimenti».
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Era una frase che avevo imparato leggendo Sogno e Lila mi sembrò colpita. Cominciammo, come se fosse una delle gare delle elementari, una conversazione nella lingua dei fumetti e dei libri, cosa che ridusse Carmela a pura e semplice ascoltatrice. Quei momenti mi accesero il cuore e la testa: io e lei con tutte quelle parole ben architettate. Alla scuola media non succedeva niente del genere, né coi compagni né coi professori; fu bellissimo. Di passaggio in passaggio Lila mi convinse che in amore un po’ di sicurezza si ottiene solo sottoponendo a prove durissime il proprio pretendente. E quindi, tornando di colpo al dialetto, mi consigliò sì di fidanzarmi con Gino, ma a patto che per tutta l’estate lui accettasse di comprare il gelato a me, a lei e a Carmela.
«Se non accetta vuol dire che non è vero amore».
Feci come mi aveva detto e Gino sparì. Non era vero amore, dunque, e tuttavia non ne soffrii. Lo scambio con Lila mi aveva dato un piacere così intenso che progettai di dedicarmi a lei integralmente, specie d’estate, quando avrei avuto più tempo libero. Intanto volevo che quella conversazione diventasse il modello di tutti i nostri prossimi incontri. Mi ero sentita di nuovo brava, come se qualcosa mi avesse urtato la testa facendo insorgere immagini e parole.
Però quell’episodio non ebbe il seguito che mi aspettavo. Invece di riconsolidare e rendere esclusivo il rapporto tra me e Lila, richiamò intorno a lei molte altre ragazzine. La conversazione, il consiglio che lei mi aveva dato, il suo effetto, avevano colpito così tanto Carmela Peluso che finì col raccontarli a chiunque. Il risultato fu che la figlia dello scarparo, che non aveva seno e nemmeno le mestruazioni e nemmeno un corteggiatore, diventò nel giro di pochi giorni la più accreditata dispensatrice di consigli sulle faccende di cuore. E lei, di nuovo sorprendendomi, accettò quel ruolo. Se non era impegnata a casa o nella bottega, la vedevo parlottare ora con quella, ora con quell’altra. Le passavo accanto, la salutavo, ma era così concentrata che non mi sentiva. Coglievo sempre frasi che mi parevano bellissime e ne soffrivo.
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6.
Furono giorni desolanti, al culmine dei quali mi arrivò addosso un’umiliazione che avrei dovuto prevedere e che invece avevo fatto finta di non mettere in conto: Alfonso Carracci fu promosso con la media dell’otto, Gigliola Spagnuolo fu promossa con la media del sette e io ebbi tutti sei e quattro in latino. Fui rimandata a settembre in quell’unica materia.
Questa volta fu mio padre stesso a dire che era inutile che continuassi. I libri scolastici erano già costati molto. Il vocabolario di latino, il Campanini e Carboni, anche se comprato usato era stato una grossa spesa. Non c’erano soldi per mandarmi a ripetizione durante l’estate. Ma soprattutto era ormai evidente che non ero brava: il figlio piccolo di don Achille ce l’aveva fatta e io no, la figlia di Spagnuolo il pasticciere ce l’aveva fatta e io no: bisognava rassegnarsi.
Piansi notte e giorno, mi imbruttii di proposito per punirmi. Ero la primogenita, dopo di me c’erano due maschi e un’altra femmina, la piccola Elisa: Peppe e Gianni, i due maschi, venivano a turno a consolarmi, ora portandomi un po’ di frutta, ora chiedendomi di giocare con loro. Ma io mi sentivo ugualmente sola, con un brutto destino, e non riuscivo ad acquietarmi. Poi un pomeriggio mi sentii arrivare alle spalle mia madre.
Disse in dialetto, col suo solito tono scabro: «Le lezioni non te le possiamo pagare, ma puoi provare a studiare da sola e vedere se superi l’esame». La guardai incerta. Era sempre la stessa: i capelli scialbi, l’occhio ballerino, il naso grosso, il corpo pesante. Aggiunse: «Non sta scritto da nessuna parte che non ce la puoi fare».
Disse questo e basta, o almeno è ciò che ricordo. Dal giorno dopo cominciai a studiare, imponendomi di non andare mai in cortile o ai giardinetti.
Ma una mattina mi sentii chiamare dalla strada. Era Lila, che da quando avevamo finito le elementari aveva perso del tutto quell’abitudine.
«Lenù» chiamava.
Mi affacciai.
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