"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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perché i fratelli Solara si credono di essere i padroni del rione?».

«Perché sono prepotenti».

«No, perché hanno i soldi».

«Tu dici?».

«Certo. Hai visto che Pinuccia Carracci non l’hanno mai disturbata?».

«Sì».

«E lo sai invece perché si sono comportati come si sono comportati con Ada?».

«No».

«Perché Ada non ha padre, suo fratello Antonio non conta niente, e lei aiuta Melina a pulire le scale delle palazzine».

Di conseguenza, o facevamo i soldi anche noi, più dei Solara, o, per difenderci dai due fratelli bisognava passare a fargli molto male. Mi mostrò un trincetto taglientissimo che aveva preso nella bottega di suo padre.

«A me non mi toccano perché sono brutta e non ho il marchese» disse,

«ma a te può essere di sì. Se succede, dimmelo».

La guardai confusa. Non sapevamo niente, a quasi tredici anni, di istituzioni, leggi, giustizia. Ripetevamo, e casomai facevamo con convinzione, quello che avevamo sentito e visto intorno a noi fin dalla prima infanzia. La giustizia non si realizzava a mazzate? Peluso non aveva ucciso don Achille? Tornai a casa. Mi resi conto che con quelle ultime frasi aveva ammesso di tenere molto a me e mi sentii felice.

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9.

Superai l’esame di licenza media con tutti otto, nove in italiano e nove in latino. Risultai la migliore della scuola: migliore di Alfonso, che ebbe la media dell’otto, e di gran lunga migliore di Gino. Per giorni e giorni mi gustai quel primato assoluto. Fui molto lodata da mio padre, che da quel momento cominciò a vantarsi con tutti di questa sua figlia primogenita che aveva avuto nove in italiano e nove, nientemeno, in latino. Mia madre, a sorpresa, mentre era in cucina in piedi accanto al lavandino a mondare verdura, mi disse senza girarsi: «Ti puoi mettere il mio braccialetto d’argento, la domenica, ma non lo perdere».

Meno successo ebbi nel cortile. Lì contavano solo gli amori e i fidanzati.

Quando dissi a Carmela Peluso che ero la migliore della scuola lei attaccò subito a parlarmi di come la guardava Alfonso quando passava. Gigliola Spagnuolo si amareggiò molto perché era stata rimandata in latino e matematica e cercò di recuperare prestigio raccontando che Gino le andava dietro ma lei non gli dava confidenza perché era innamorata di Marcello Solara e forse anche Marcello l’amava. Anche Lila non mostrò particolare contentezza. Quando le elencai i voti materia dietro materia, disse ridendo, col tono suo di cattiva:

«Dieci non te l’hanno messo?».

Ci restai male. Dieci si metteva solo in condotta, i professori non l’avevano dato a nessuno nelle materie importanti. Ma bastò quella frase perché un pensiero latente mi diventasse di colpo palese: se lei fosse venuta a scuola con me, nella mia stessa classe, se gliel’avessero permesso, adesso avrebbe avuto tutti dieci, e questo lo sapevo da sempre, e lo sapeva anche lei, e ora me lo faceva pesare.

Andai a casa covando il dolore di essere la prima senza essere veramente la prima. Per di più i miei genitori cominciarono a parlare tra loro di dove potevano collocarmi, ora che avevo nientemeno la licenza media. Mia madre voleva chiedere alla cartolaia di prendermi come aiutante: secondo lei, così brava com’ero, ero adatta a vendere penne, matite, quaderni e libri di scuola.

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Mio padre fantasticava di trafficare in futuro con le sue conoscenze al comune in modo da sistemarmi in un ruolo di prestigio. Sentii una tristezza dentro che, pur non definendosi, crebbe, crebbe, crebbe fino al punto che non mi andava di uscire nemmeno la domenica.

Non ero più contenta di me, tutto mi parve appannato. Mi guardavo allo specchio e non vedevo quello che mi sarebbe piaciuto vedere. I capelli da biondi erano diventati castani. Avevo un naso largo, schiacciato. Tutto il mio corpo continuava a dilatarsi ma senza crescere in altezza. E anche la pelle mi si stava guastando: sulla fronte, sul mento, intorno alle mascelle, si moltiplicavano arcipelaghi di gonfiori rossastri che poi diventavano violacei, infine mettevano punte giallicce. Cominciai per mia scelta ad aiutare mia madre a pulire la casa, a cucinare, a star dietro al disordine che si lasciavano alle spalle i miei fratelli, a occuparmi di Elisa, la piccola. Nei ritagli di tempo non uscivo, mi mettevo in un angolo e leggevo i romanzi che prendevo alla biblioteca: Grazia Deledda, Pirandello, Cěchov, Gogol’, Tolstoj, Dostoevskij. A volte sentivo forte il bisogno di andare a cercare Lila alla bottega e parlarle di personaggi che mi erano molto piaciuti, di frasi che avevo imparato a memoria, ma poi lasciavo perdere: avrebbe detto qualcosa di cattivo; avrebbe attaccato a parlare dei progetti che faceva insieme a Rino, scarpe, calzaturificio, soldi, e io piano piano avrei sentito inutili i romanzi che leggevo e squallida la mia vita, il futuro, ciò che sarei diventata: una commessa grassa e brufolosa nella cartoleria di fronte alla parrocchia, un’impiegata comunale zitella, presto o tardi strabica e claudicante.

Una domenica, spinta da un invito arrivato per posta a mio nome, col quale il maestro Ferraro mi convocava in mattinata in biblioteca, decisi finalmente di reagire. Cercai di farmi bella come mi era sembrato di essere fin da piccola, come volevo credere ancora di essere, e uscii. Passai tempo a spremermi i brufoli col risultato di infiammarmi ancora più la faccia, misi il braccialetto d’argento di mia madre, mi sciolsi i capelli. Ma continuai a non piacermi. Depressa, nel caldo che in quella stagione si poggiava sul rione fin dal mattino come una mano gonfia di febbre, feci la strada fino alla biblioteca.

Capii subito, dalla piccola folla di genitori e ragazzini delle elementari e delle medie che stava affluendo attraverso l’ingresso principale, che qualcosa non funzionava come al solito. Entrai. C’erano file di sedie tutte già occupate, festoni colorati, il parroco, Ferraro, persino il direttore della scuola elementare e la Oliviero. Il maestro, scoprii, s’era inventato di premiare con

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un libro a testa i lettori che dai suoi registri risultavano i più assidui. Poiché la cerimonia stava per cominciare e il prestito era momentaneamente sospeso, mi sedetti nel fondo della saletta. Cercai Lila, ma vidi soltanto Gigliola Spagnuolo insieme a Gino e ad Alfonso. Mi agitai sulla sedia, a disagio.

Dopo un po’ presero posto accanto a me Carmela Peluso e suo fratello Pasquale. Ciao, ciao. Mi coprii meglio le guance irritate con i capelli.

La piccola cerimonia cominciò. I premiati furono: prima Raffaella Cerullo, secondo Fernando Cerullo, terza Nunzia Cerullo, quarto Rino Cerullo, quinta Elena Greco, cioè io.

A me venne da ridere e anche a Pasquale. Ci guardammo, soffocammo le risate, mentre Carmela sussurrava insistente: «Perché ridete?». Non le rispondemmo: ci guardammo di nuovo e ridemmo con la mano contro la bocca. Così, con la risata che mi sentivo ancora negli occhi, con un inatteso senso di benessere, dopo che il maestro ebbe chiesto a più riprese e inutilmente se qualcuno della famiglia Cerullo era in sala, fui chiamata io, quinta in classifica, a ritirare il mio premio. Ferraro mi consegnò con molte lodi Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome. Ringraziai e chiesi in un soffio:

«Posso ritirare anche i premi della famiglia Cerullo, così glieli porto?».

Il maestro mi diede i libri-premio di tutti i Cerullo. Mentre uscivamo, mentre Carmela raggiungeva astiosa Gigliola che chiacchierava tutta felice con Alfonso e Gino, Pasquale mi disse in dialetto cose che mi fecero sempre più ridere su Rino che si consumava la vista sui libri, su Fernando lo scarparo che non dormiva la notte per leggere, sulla signora Nunzia che leggeva in piedi, accanto ai fornelli, mentre cucinava la pasta con le patate, in una mano un romanzo e in un’altra il mestolo. Era stato alle elementari nella stessa classe di Rino, nello stesso banco – mi disse, lacrime agli occhi per il divertimento – e tutt’e due insieme, lui e il suo amico, anche aiutandosi a vicenda, dopo sei o sette anni di scuola comprese le ripetenze, riuscivano a leggere al massimo: Sali e Tabacchi, Salumeria, Poste e Telegrafi. Quindi mi chiese qual era il premio del suo ex compagno di scuola.

« Bruges la morta».

«Ci stanno i fantasmi?».

«Non lo so».

«Posso venire con te quando glielo consegni? Anzi, glielo posso dare io, con le mie mani?».

Scoppiammo a ridere di nuovo.

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«Sì».

«Gli hanno dato il premio, a Rinuccio. Cose da pazzi. È Lina che si legge tutto, madonna mia com’è brava quella ragazza».

Mi consolarono molto le attenzioni di Pasquale Peluso, mi piacque che mi facesse ridere. Forse non sono così brutta, pensai, forse sono io che non so vedermi.

In quel momento mi sentii chiamare, era la maestra Oliviero.

La raggiunsi, mi guardò col suo sguardo sempre valutativo e mi disse, quasi a confermarmi la legittimità di un giudizio più generoso sul mio aspetto: «Come sei bella, come ti sei fatta grande».

«Non è vero, maestra».

«È vero, sei una stella, in salute, bella grassa. E anche brava. Ho saputo che sei stata la migliore della scuola».

«Sì».

«Adesso che farai?».

«Andrò a lavorare».

Si adombrò.

Are sens