"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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Noi ragazzine ci dividemmo, su questo episodio. Gigliola Spagnuolo e Carmela Peluso parteggiarono per i due Solara, ma solo perché erano belli e avevano il Millecento. Io tentennai. In presenza delle mie due amiche propendevo per i Solara e facevamo la gara a chi li adorava di più, visto che effettivamente erano bellissimi e ci era impossibile non immaginarci la figura che avremmo fatto sedute accanto a uno di loro in automobile. Ma sentivo anche che quei due si erano comportati molto male con Ada e che Antonio, anche se non era una bellezza, anche se non era muscoloso come loro che andavano in palestra tutti i giorni a sollevare pesi, aveva avuto coraggio ad affrontarli. Perciò in presenza di Lila, che esprimeva senza mezzi termini quella mia stessa posizione, avanzavo anch’io qualche riserva.

Una volta la discussione diventò così accesa che Lila, forse perché non era sviluppata come noi e non conosceva il piacere-spavento di avere addosso lo sguardo dei Solara, diventò più pallida del solito e disse che, se le fosse successo quello che era successo a Ada, per evitare guai a suo padre e a suo fratello Rino ci avrebbe pensato di persona, a quei due.

«Tanto Marcello e Michele a te nemmeno ti guardano» disse Gigliola Spagnuolo, e pensammo che Lila si sarebbe arrabbiata. Invece rispose seria:

«Meglio così».

Era esile come sempre, ma tesa in ogni fibra. Le guardavo le mani

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meravigliata: in poco tempo le erano diventate come quelle di Rino, di suo padre, con la pelle dei polpastrelli gialliccia e spessa. Anche se nessuno la obbligava – non era quello il suo compito, nella bottega – s’era messa a fare lavoretti, preparava il filo, scuciva, incollava, anche orlava, e ora maneggiava gli strumenti di Fernando quasi come il fratello. Ecco perché di latino, quell’anno, non mi domandò mai niente. A un certo punto, invece, mi raccontò il progetto che aveva in mente, una cosa che non aveva nulla a che fare coi libri: stava cercando di convincere il padre a mettersi a fabbricare scarpe nuove. Ma Fernando non ne voleva sapere. «Fare le scarpe a mano» le diceva, «è un’arte senza futuro: oggi ci stanno le macchine e le macchine costano soldi e i soldi o stanno in banca o dagli usurai, non nelle tasche della famiglia Cerullo». Allora lei insisteva, lo riempiva di lodi sincere: «Come sai fare le scarpe tu, papà, non le sa fare nessuno». E lui rispondeva che, se anche era vero, ormai tutto si faceva nelle fabbriche, in serie, a basso costo, e poiché nelle fabbriche ci aveva lavorato, sapeva bene che schifezze finivano sul mercato; ma c’era poco da fare, la gente le volte che aveva bisogno di scarpe nuove non andava più dal ciabattino del rione, andava nei negozi del Rettifilo, sicché anche a voler fare a regola d’arte il prodotto artigianale, non lo vendevi, buttavi soldi e fatica, ti rovinavi.

Lila non s’era lasciata convincere e come al solito aveva tirato Rino dalla sua parte. Il fratello prima s’era schierato col padre, seccato dal fatto che lei mettesse bocca in cose di fatica, dove non era più questione di libri e l’esperto era lui. Poi s’era piano piano lasciato incantare e ora litigava con Fernando un giorno sì e uno no, ripetendo quello che gli aveva messo in testa lei.

«Facciamo almeno un tentativo».

«No».

«Hai visto l’automobile che hanno i Solara, hai visto come va bene la salumeria dei Carracci?».

«Ho visto che la merciaia che voleva fare la sartoria ci ha rinunciato e ho visto che Gorresio, per la stupidità del figlio, ha fatto il passo più lungo della gamba con la sua officina».

«Ma i Solara si stanno allargando sempre di più».

«Pensa ai fatti tuoi e lascia stare i Solara».

«Vicino alla ferrovia sta nascendo il rione nuovo».

«Chi se ne fotte».

«Papà, la gente guadagna e vuole spendere».

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«La gente spende in cose da mangiare perché bisogna mangiare tutti i giorni. Invece le scarpe primo non si mangiano, e secondo, quando si rompono te le fai aggiustare e ti possono durare venti anni. Il nostro lavoro, oggi come oggi, è aggiustare le scarpe e basta».

Mi piaceva come quel ragazzo, sempre gentile con me ma capace di durezze che facevano un po’ paura anche a suo padre, sostenesse sempre, in ogni circostanza, la sorella. Invidiavo a Lila quel fratello così solido e a volte pensavo che la differenza vera tra me e lei era che io avevo solo fratelli piccoli, quindi nessuno che avesse la forza di incoraggiarmi e sostenermi contro mia madre rendendomi libera di testa, mentre Lila poteva contare su Rino, che era capace di difenderla contro chiunque, qualsiasi cosa le venisse in mente. Ciò detto, io pensavo che Fernando avesse ragione, mi sentivo dalla sua parte. E ragionando con Lila, scoprii che lo pensava anche lei.

Una volta mi stava facendo vedere i disegni delle scarpe che voleva realizzare insieme al fratello, sia per maschi che per femmine. Erano disegni bellissimi, fatti su fogli a quadretti, ricchi di dettagli colorati con precisione, come se avesse avuto l’occasione di esaminare scarpe di quel tipo da vicino in qualche mondo parallelo al nostro e poi le avesse fissate sulla carta. In realtà le aveva inventate lei nel loro insieme e in ogni particolare, come faceva alle elementari quando disegnava principesse, tanto che, pur essendo normalissime scarpe, non assomigliavano a quelle che si vedevano nel rione, e nemmeno a quelle delle attrici dei fotoromanzi.

«Ti piacciono?».

«Sono molto eleganti».

«Rino dice che sono difficili».

«Ma le sa fare?».

«Giura di sì».

«E tuo padre?».

«Lui sicuramente è capace».

«Allora fatele».

«Papà non le vuole fare».

«Perché?».

«Ha detto che finché gioco io bene, ma lui e Rino non possono perdere tempo con me».

«Che significa?».

«Significa che per fare veramente le cose ci vuole tempo e spesa».

Fu sul punto di mostrarmi anche i conti che aveva buttato giù, di nascosto

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da Rino, per capire quanto denaro serviva veramente per realizzarle. Poi si fermò, ripiegò i fogli smanacciati e mi disse che era inutile perdere tempo: suo padre aveva ragione.

«Ma allora?».

«Ci dobbiamo provare lo stesso».

«Fernando s’arrabbierà».

«Se uno non prova, non cambia niente».

Ciò che doveva cambiare, secondo lei, era sempre la stessa cosa: da povere dovevamo diventare ricche, da niente che avevamo dovevamo arrivare al punto che avevamo tutto. Provai ad accennarle al vecchio progetto di scrivere romanzi come aveva fatto l’autrice di Piccole donne. Ero ferma lì, ci tenevo.

Stavo imparando il latino apposta e sotto sotto ero convinta che lei prendesse tanti libri dalla biblioteca circolante del maestro Ferraro solo perché, anche se non andava più a scuola, anche se ora s’era fissata con le scarpe, voleva comunque scrivere un romanzo insieme con me e guadagnare moltissimo.

Invece fece spallucce al modo suo noncurante, aveva ridimensionato Piccole donne. «Adesso» mi spiegò, «per diventare veramente ricche ci vuole un’attività economica». Sicché pensava di cominciare con un unico paio di scarpe, tanto per dimostrare a suo padre com’erano belle e comode; poi, una volta convinto Fernando, bisognava avviare la produzione: due paia di scarpe oggi, quattro domani, trenta in un mese, quattrocento in un anno, per arrivare, nel giro di poco tempo, a mettere su, lei, il padre, Rino, la madre, gli altri fratelli, un calzaturificio con le macchine e almeno cinquanta operai: il calzaturificio Cerullo.

«Una fabbrica di scarpe?».

«Sì».

Me ne parlò con molta convinzione, come sapeva fare lei, con frasi in italiano che mi dipingevano davanti agli occhi l’insegna della fabbrica: Cerullo; il marchio impresso sulle tomaie: Cerullo; e poi le scarpe Cerullo per intero, tutte splendenti, tutte elegantissime come nei suoi disegni, di quelle che una volta messe ai piedi, disse, sono così belle e comode che la sera vai a dormire senza togliertele.

Ridemmo, ci divertimmo.

Poi Lila si bloccò. Sembrò rendersi conto che stavamo giocando come con le bambole anni prima, con Tina e Nu davanti allo sfiatatoio dello scantinato, e mi disse, per un’urgenza di concretezza, accentuando l’aria di bambina-vecchia che mi pareva stesse diventando il suo tratto caratteristico: «Lo sai

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