"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » Italian Books » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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«Sei brava?».

«Molto».

Ci pensò su e borbottò:

«Io mi sono fatta bocciare apposta. Non voglio andare più a nessuna scuola».

«E che farai?».

«Quello che piace a me».

Ci piantò lì in mezzo al cortile e se ne andò.

Per il resto dell’estate non si fece più vedere. Io diventai molto amica di Carmela Peluso che, sebbene oscillasse fastidiosamente tra troppe risate e troppe lagne, aveva subìto l’influenza di Lila in una forma così potente da diventarne a tratti una specie di surrogato. Carmela parlava imitandone i toni, usava certe sue espressioni ricorrenti, gesticolava in un modo simile e quando camminava cercava di muoversi come lei, anche se fisicamente era più simile a me: graziosa e paffuta, scoppiava di salute. Quella sorta di appropriazione indebita un po’ mi dispiaceva un po’ mi attraeva. Oscillavo tra l’irritazione per un rifacimento che mi sembrava una caricatura e la fascinazione perché, anche se annacquati, i modi d’essere di Lila m’incantavano comunque. Fu con quei modi che Carmela alla fine mi legò a sé. Raccontò di quanto era stata brutta la nuova scuola: tutti le facevano i dispetti e i professori non la potevano vedere. Raccontò di quando andava a Poggioreale con la mamma e i fratelli per far visita a suo padre, e i pianti che si facevano. Raccontò che suo padre era innocente, che a uccidere don Achille era stato un essere nerognolo, un po’ maschio ma soprattutto femmina, che viveva insieme ai topi e usciva dalle saittelle delle fognature anche di giorno e faceva ciò che di terribile doveva fare per poi scapparsene sottoterra. Raccontò all’improvviso, con un sorrisetto fatuo, che era innamorata di Alfonso Carracci. Subito dopo dal sorriso passò alle lacrime: era un amore che la tormentava e la sfiniva, la figlia dell’assassino s’era innamorata del figlio della vittima. Le bastava vederlo mentre attraversava il cortile o lungo lo stradone per sentirsi svenire.

Fu una confidenza, quest’ultima, che mi colpì molto e che consolidò la nostra amicizia. Carmela giurò che non ne aveva mai parlato con nessuno, nemmeno con Lila: se aveva deciso di aprirsi con me era perché non ce la faceva più a tenersi tutto dentro. Mi piacquero i suoi toni drammatici.

Esaminammo tutte le possibili conseguenze di quella passione finché le scuole non riaprirono e io non ebbi più tempo per starla a sentire.

Che storia. Nemmeno Lila, forse, avrebbe saputo costruire un racconto

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così.

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3.

Cominciò un periodo di malessere. Ingrassai, in petto mi spuntarono sotto la pelle due polloni durissimi, fiorirono i peli dalle ascelle e sul pube, diventai triste e insieme nervosa. A scuola feci più fatica degli anni precedenti, gli esercizi di matematica non davano quasi mai il risultato previsto dal libro di testo, le frasi di latino mi parevano senza capo né coda. Appena potevo mi chiudevo nel cesso e mi guardavo allo specchio, nuda. Non sapevo più chi ero. Cominciai a sospettare che sarei cambiata sempre più, fino a che da me sarebbe spuntata davvero mia madre, zoppa, con l’occhio storto, e nessuno mi avrebbe più voluto bene. Piangevo spesso, all’improvviso. Il petto, intanto, da duro che era diventò più grosso e più morbido. Mi sentii in balìa di forze oscure che agivano dal di dentro del mio corpo, ero sempre in ansia.

Una mattina, all’uscita di scuola, Gino, il figlio del farmacista, mi inseguì per strada e mi disse che secondo i suoi compagni i miei seni non erano veri, che mi ci mettevo l’ovatta. Parlava e rideva. Disse anche che lui invece pensava che fossero veri, ci aveva scommesso sopra venti lire. Disse infine che, nel caso avesse vinto, dieci lire se le sarebbe tenute lui e dieci le avrebbe date a me, ma gli dovevo dimostrare che non avevo l’ovatta.

Quella richiesta mi fece molta paura. Poiché non sapevo come comportarmi, ricorsi consapevolmente al tono sfrontato di Lila:

«Dammi le dieci lire».

«Perché, ho ragione io?».

«Sì».

Scappò via, io me ne andai delusa. Ma poco dopo mi raggiunse in compagnia di un tale della sua classe, uno magrissimo di cui non ricordo il nome, con una peluria scura sul labbro. Gino mi disse:

«Dev’essere presente anche lui, se no gli altri non ci credono che ho vinto».

Ricorsi ancora al tono di Lila:

«Prima i soldi».

«E se hai l’ovatta?».

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«Non ce l’ho».

Mi diede dieci lire e salimmo tutt’e tre, in silenzio, fino all’ultimo piano di una palazzina che stava a pochi metri dai giardinetti. Lì, accanto alla porticina di ferro che dava sul terrazzo, disegnata in modo netto da sottili segmenti di luce, sollevai la maglietta e mostrai i seni. I due restarono fermi a guardare come se non credessero a ciò che avevano sotto gli occhi. Poi si girarono e scapparono giù per le scale.

Tirai un sospiro di sollievo e andai al bar Solara a comprarmi un gelato.

Quell’episodio mi è rimasto impresso nella memoria: sperimentai per la prima volta la forza di calamita che il mio corpo esercitava sui maschi, ma soprattutto mi resi conto che Lila agiva non solo su Carmela ma anche su di me come un fantasma esigente. Se in una circostanza come quella avessi dovuto prendere una decisione nel puro disordine delle emozioni, cosa avrei fatto? Sarei scappata via. E se mi fossi trovata in compagnia di Lila? L’avrei tirata per un braccio, le avrei sussurrato: andiamo via, e poi come al solito sarei rimasta, solo perché lei, come al solito, avrebbe deciso di restare.

Invece, in sua assenza, dopo una breve esitazione mi ero messa al posto suo.

O meglio, le avevo fatto posto in me. Se ripensavo al momento in cui Gino aveva avanzato la sua richiesta, sentivo con precisione come avevo ricacciato indietro me stessa, come avevo mimato sguardo e tono e gesto di Cerullo in situazioni di conflitto sfrontato, e ne ero molto contenta. Ma a tratti mi chiedevo un po’ in ansia: faccio come Carmela? Mi pareva di no, mi pareva di essere diversa, ma non sapevo spiegarmi in che senso e mi guastavo la contentezza. Quando passai col gelato davanti alla bottega di Fernando e vidi Lila intenta a ordinare scarpe su una lunga mensola, fui tentata di chiamarla e raccontarle tutto, sentire cosa pensava. Ma lei non mi vide e passai oltre.

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4.

Aveva sempre da fare. Quell’anno Rino la obbligò a reiscriversi a scuola ma di nuovo non ci andò quasi mai e di nuovo si fece bocciare. La madre le chiedeva di aiutarla in casa, il padre le chiedeva di stare nel negozio, e lei di punto in bianco, invece di far resistenza, sembrò addirittura contenta di sgobbare per entrambi. Le rare volte che ci capitò di vederci – la domenica dopo la messa o a passeggio tra i giardinetti e lo stradone – non mostrò mai nessuna curiosità per la mia scuola, attaccava subito a parlare fitto fitto e con ammirazione del lavoro che facevano il padre e il fratello.

Aveva saputo che suo padre da ragazzo s’era voluto emancipare, era sfuggito alla bottega del nonno, pure lui ciabattino, ed era andato a lavorare in un calzaturificio di Casoria dove aveva fatto scarpe per tutti, anche per chi andava alla guerra. Aveva scoperto che Fernando sapeva fabbricare a mano una calzatura dall’inizio alla fine, ma conosceva benissimo anche le macchine ed era capace di usarle tutte, la trinciatrice, l’orlatrice, la smerigliatrice. Mi parlò di cuoio, di tomaie, di pellettieri e pelletterie, del tacco intero e del mezzo tacco, della preparazione del filo, delle piantine e di come si applicava la suola e la si colorava e la si lucidava. Usò tutte quelle parole del mestiere come se fossero magiche e il padre le avesse apprese in un mondo fatato – Casoria, la fabbrica – da cui poi era tornato come un esploratore sazio, così sazio che ora preferiva la botteguccia di famiglia, il banchetto quieto, il martello, il piede di ferro, l’odore buono della colla mescolato a quello delle scarpe usurate. E mi tirò dentro a quel vocabolario con un tale energico entusiasmo, che il padre e Rino, grazie a quell’abilità che avevano di chiudere i piedi della gente dentro scarpe solide, comode, mi sembrarono le persone migliori del rione. Soprattutto, ogni volta me ne tornai a casa con l’impressione che, non trascorrendo le mie giornate nella bottega di un calzolaio, avendo anzi per padre un banalissimo usciere, fossi esclusa da un privilegio raro.

In classe cominciai a sentirmi inutilmente presente. Per mesi e mesi mi sembrò che dai libri di testo fosse fuggita via ogni promessa, ogni energia.

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