"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » Italian Books » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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Non le chiesi mai che libri avesse letto e che libri leggesse, non ci fu tempo, dovevamo studiare. Mi interrogava e s’infuriava se non sapevo. Una volta mi diede uno schiaffo su un braccio, forte, con le sue mani lunghe e magre, e non mi chiese scusa, anzi disse che se sbagliavo ancora mi avrebbe picchiato di nuovo e più forte. Era incantata dal vocabolario di latino, così grosso, tante e tante pagine, pesante, non ne aveva mai visto uno. Vi cercava continuamene parole, non solo quelle presenti negli esercizi, ma anche tutte quelle che le venivano in mente. Assegnava i compiti col tono che aveva appreso dalla nostra maestra Oliviero. M’imponeva di tradurre trenta frasi al giorno, venti dal latino in italiano e dieci dall’italiano in latino. Le traduceva anche lei, molto più velocemente di me. Alla fine dell’estate, quando l’esame era vicino, dopo aver osservato scettica come io cercavo le parole che non conoscevo sul vocabolario, nello stesso ordine secondo cui le trovavo disposte nella frase da tradurre, e mi appuntavo i significati principali, e solo allora mi sforzavo di capire il senso, disse cautamente:

«T’ha detto la professoressa di fare così?».

La professoressa non diceva mai niente, assegnava solo gli esercizi. Ero io che mi regolavo a quel modo.

Tacque per un po’, quindi mi consigliò: «Leggiti prima la frase in latino, poi va’ a vedere dov’è il verbo. A seconda della persona del verbo capisci qual è il soggetto. Una volta che hai il soggetto ti cerchi i complementi: il complemento oggetto se il verbo è transitivo, o se no altri complementi.

Prova così».

Provai. Tradurre all’improvviso mi sembrò facile. A settembre andai

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all’esame, feci lo scritto senza nemmeno un errore e all’orale seppi rispondere a tutte le domande.

«Chi ti ha fatto lezione?» chiese la professoressa, un po’ accigliata.

«Una mia amica».

«Universitaria?».

Non sapevo cosa significasse. Risposi sì.

Lila mi stava aspettando fuori, all’ombra. Quando uscii l’abbracciai, le dissi che ero andata benissimo e le chiesi se volevamo studiare insieme per tutto l’anno seguente. Poiché era stata lei per prima a propormi di vederci solo per lo studio, invitarla a continuare mi sembrò un modo bello per dirle la mia gioia e la mia gratitudine. Si sottrasse con un gesto quasi di fastidio.

Disse che voleva solo capire cos’era il latino che studiavano quelli bravi.

«E allora?».

«L’ho capito, basta».

«Non ti piace?».

«Sì. Mi prenderò qualche libro in biblioteca».

«In latino?».

«Sì».

«Ma c’è ancora molto da studiare».

«Studia tu per me, e se trovo difficoltà mi aiuti. Io adesso ho una cosa da fare con mio fratello».

«Cosa?».

«Poi ti faccio vedere».

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8.

Ricominciarono le scuole e andai subito bene in tutte le materie. Non vedevo l’ora che Lila mi chiedesse di aiutarla in latino o altro e perciò, credo, non studiavo tanto per la scuola, quanto per lei. Diventai la prima della classe, neanche alle elementari ero stata così brava.

In quell’anno mi sembrò di dilatarmi come la pasta per le pizze. Diventai sempre più piena di petto, di cosce, di sedere. Una domenica che stavo andando ai giardinetti, dove avevo appuntamento con Gigliola Spagnuolo, mi si accostarono i fratelli Solara in Millecento. Marcello, il più grande, stava al volante, Michele, il più piccolo, gli sedeva accanto. Erano tutt’e due belli, coi capelli nerissimi e luccicanti, un sorriso bianco. Ma quello dei due che mi piaceva di più era Marcello, assomigliava a Ettore com’era raffigurato nella copia scolastica dell’ Iliade. Mi accompagnarono per tutta la strada, io sul marciapiede e loro a lato, in Millecento.

«Ci sei mai andata in automobile?».

«No».

«Sali, ti facciamo fare un giro».

«Mio padre non vuole».

«E noi non glielo diciamo. Quando ti capita più di salire su una macchina come questa?».

Mai, io pensai. Ma intanto dissi no e continuai a dire no fino ai giardinetti, quando l’auto accelerò e sparì in un lampo oltre le palazzine in costruzione.

Dissi no perché se mio padre fosse venuto a sapere che ero salita su quell’automobile, anche se era un uomo buono e caro, anche se mi voleva assai bene, mi avrebbe uccisa di mazzate subito, mentre in parallelo i miei due fratellini, Peppe e Gianni, sebbene piccoli d’età, si sarebbero sentiti obbligati, adesso e negli anni futuri, a cercare di ammazzare i fratelli Solara.

Non c’erano regole scritte, si sapeva che era così e basta. Anche i Solara lo sapevano, tant’è vero che erano stati gentili, s’erano limitati solo a invitarmi a salire.

Non lo furono, qualche tempo dopo, con Ada, la figlia grande di Melina

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Cappuccio, vale a dire la vedova pazza che aveva dato scandalo quando i Sarratore avevano traslocato. Ada aveva quattordici anni. La domenica, di nascosto dalla madre, si metteva il rossetto e con le sue gambe lunghe e diritte, coi seni più grossi dei miei, sembrava grande e bella. I fratelli Solara le dissero parole volgari, Michele arrivò ad afferrarla per un braccio, ad aprire lo sportello della macchina, a tirarla dentro. La riportarono un’ora dopo nello stesso posto e Ada un po’ era arrabbiata, un po’ rideva.

Ma tra quelli che la videro tirata a forza in macchina ci fu chi lo riferì ad Antonio, il fratello maggiore che faceva il meccanico nell’officina di Gorresio. Antonio era un gran lavoratore, disciplinato, timidissimo, visibilmente ferito sia dalla morte precoce del padre, sia dagli squilibri della madre. Senza dire una sola parola ad amici e parenti andò davanti al bar Solara ad aspettare Marcello e Michele, e quando i due fratelli si fecero vivi li affrontò a pugni e calci senza dire nemmeno una parola di preambolo. Per qualche minuto se la cavò bene, ma poi vennero fuori Solara padre e uno dei baristi. In quattro pestarono Antonio a sangue e nessuno dei passanti, nessuno degli avventori, intervenne per aiutarlo.

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