"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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che vendeva frutta, il Millecento dei Solara parcheggiato davanti al bar e che ora avrei pagato non so cosa perché fosse cancellato dalla faccia della terra.

Meno male che dell’episodio del braccialetto mia madre non aveva saputo niente. Meno male che nessuno aveva riferito a Rino quello che era successo.

Raccontai a Lila delle strade, dei loro nomi, del fragore, della luce straordinaria. Ma subito mi sentii a disagio. Se il racconto di quella giornata lo avesse fatto lei, mi ci sarei intrufolata con un controcanto indispensabile e, anche se non ero stata presente, mi sarei sentita viva e attiva, avrei fatto domande, sollevato questioni, avrei cercato di dimostrarle che dovevamo rifare quello stesso percorso insieme, necessariamente, perché glielo avrei arricchito, sarei stata una compagnia di gran lunga migliore di suo padre. Lei invece mi ascoltò senza curiosità e lì per lì pensai che facesse così per cattiveria, per togliere forza al mio entusiasmo. Ma dovetti convincermi che non era così, aveva semplicemente un filo di pensiero suo che si nutriva di cose concrete, di un libro come di una fontanella. Con le orecchie di sicuro mi ascoltava, ma con gli occhi, con la mente, era saldamente ancorata alla strada, alle poche piante dei giardinetti, a Gigliola che passeggiava con Alfonso e Carmela, a Pasquale che salutava dall’impalcatura del cantiere, a Melina che parlava ad alta voce di Donato Sarratore mentre Ada cercava di trascinarla a casa, a Stefano, il figlio di don Achille, che s’era appena comprato la Giardinetta e aveva a lato sua mamma e sul sedile posteriore la sorella Pinuccia, a Marcello e Michele Solara che passavano nel loro Millecento e Michele faceva finta di non vederci mentre Marcello non trascurava di mandarci uno sguardo cordiale, soprattutto al lavorio segreto, di nascosto dal padre, a cui si applicava per mandare avanti il progetto delle scarpe. Il mio racconto, per lei, era in quel momento solo un insieme di segnali inutili da spazi inutili. Se ne sarebbe occupata, di quegli spazi, solo se le fosse capitata l’opportunità di andarci. E infatti, dopo tanto mio parlare, disse solo:

«Devo dire a Rino che domenica dobbiamo accettare l’invito di Pasquale Peluso».

Ecco, io le raccontavo il centro di Napoli e lei metteva al centro la casa di Gigliola, in una delle palazzine del rione, dove Pasquale ci voleva portare a ballare. Mi dispiacqui. Agli inviti di Peluso avevamo sempre detto sì e tuttavia non c’eravamo mai andate, io per evitare discussioni con i miei genitori, lei perché Rino era contrario. Ma lo spiavamo spesso, nei giorni di festa, mentre aspettava tutto ripulito gli amici suoi, i grandi e i più piccoli.

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Era un ragazzo generoso, non faceva distinzioni d’età, si tirava dietro chiunque. In genere lui aspettava davanti al benzinaio e intanto arrivavano alla spicciolata Enzo, e Gigliola, e Carmela che ora si faceva chiamare Carmen, e qualche volta Rino stesso se non aveva altro da fare, e Antonio, che aveva il peso di sua madre Melina, e nel caso che Melina fosse calma, anche sua sorella Ada, che i Solara s’erano tirati in macchina e l’avevano portata chissà dove per un’ora buona. Quando la giornata era bella andavano al mare, tornavano rossi di sole in faccia. Oppure, più spesso, si riunivano tutti da Gigliola, i cui genitori erano più accomodanti dei nostri, e lì chi sapeva ballare ballava e chi non sapeva ballare imparava.

Lila cominciò a tirarmi a quelle festicciole, le era preso non so come l’interesse per il ballo. Sia Pasquale che Rino si rivelarono a sorpresa ottimi ballerini e noi imparammo da loro il tango, il valzer, la polka e la mazurka.

Rino, bisogna dire, come maestro s’innervosiva presto, specialmente con la sorella, mentre Pasquale era molto paziente. All’inizio ci fece ballare stando sopra i suoi piedi, in modo che imparassimo bene i passi, poi, appena diventammo più esperte, via a volteggiare per la casa.

Scoprii che mi piaceva moltissimo ballare, avrei ballato sempre. Lila invece aveva quella sua aria di chi vuol capire bene come si fa, e pareva che il suo divertimento consistesse tutto nell’imparare, tant’è vero che spesso se ne stava seduta a guardare, studiandoci, e applaudiva le coppie più affiatate.

Una volta andai a casa sua e mi fece vedere un libretto che aveva preso in biblioteca: c’era scritto tutto sui balli e ogni movimento era spiegato con figurine nere di maschio e femmina che volteggiavano. Era molto allegra in quel periodo, un’esuberanza sorprendente per lei. Di punto in bianco mi afferrò alla vita e facendo l’uomo mi obbligò a ballare il tango suonando la musica con la bocca. S’affacciò Rino che ci vide e scoppiò a ridere. Volle ballare anche lui, prima con me e poi con la sorella, sebbene senza musica.

Mentre ballavamo mi raccontò che a Lila era presa una tale smania perfezionistica che l’obbligava di continuo a fare esercizio, anche se non avevano il grammofono. Ma appena disse quella parola – grammofono, grammofono, grammofono – Lila mi gridò da un angolo della stanza, facendo gli occhi stretti:

«Lo sai che parola è?».

«No».

«Greco».

Io la guardai incerta. Rino intanto mi mollò e passò a ballare con la sorella,

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che lanciò un grido sottile, mi affidò il manuale dei balli e volò per la stanza con lui. Poggiai tra i suoi libri il manuale. Che cosa aveva detto?

Grammofono era italiano, non greco. Ma intanto vidi che sotto Guerra e pace, con tanto di etichetta della biblioteca del maestro Ferraro, spuntava un volume sbrindellato che era intitolato Grammatica greca. Grammatica.

Greca. Sentii che mi prometteva, affannata:

«Dopo ti scrivo grammofono con le lettere greche».

Dissi che avevo da fare e me ne andai.

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15.

S’era messa a studiare il greco prima ancora che io andassi al ginnasio?

L’aveva fatto da sola, mentre io nemmeno ci pensavo, e d’estate, quando era vacanza? Faceva sempre le cose che dovevo fare io, prima e meglio di me?

Mi sfuggiva quando la inseguivo e intanto mi tallonava per scavalcarmi?

Cercai di non vederla per un po’, ero arrabbiata. Andai in biblioteca a prendere a mia volta una grammatica greca, ma ne esisteva una sola e l’aveva in prestito a turno tutta la famiglia Cerullo. Forse devo cancellare Lila da me come un disegno sulla lavagna, pensai, e fu, credo, la prima volta. Mi sentivo fragile, esposta a tutto, non potevo passare il mio tempo a inseguirla o a scoprire che lei mi inseguiva, e nell’un caso e nell’altro sentirmi da meno. Ma non ci riuscii, tornai subito a cercarla. Lasciai che m’insegnasse come si faceva la quadriglia. Lasciai che mi mostrasse come sapeva scrivere tutte le parole italiane con l’alfabeto greco. Volle che imparassi quell’alfabeto anch’io prima di andare a scuola, e mi costrinse a scriverlo e a leggerlo. A me vennero ancora più brufoli. Andavo ai balli da Gigliola con un senso permanente d’insufficienza e di vergogna.

Sperai che passasse, ma insufficienza e vergogna si intensificarono. Una volta Lila si esibì in un valzer con suo fratello. Danzavano così bene, insieme, che lasciammo loro tutto lo spazio. Restai incantata. Erano belli, erano affiatati. Li guardavo e capii definitivamente che in breve tempo avrebbe perso del tutto la sua aria di bambina-vecchia, come si perde un motivo musicale molto noto quando è adattato con troppo estro. Era diventata sinuosa. La fronte alta, gli occhi grandi che si stringevano all’improvviso, il naso piccolo, gli zigomi, le labbra, le orecchie stavano cercando una nuova orchestrazione e parevano vicini a trovarla. Quando si pettinava con la coda, il collo lungo si mostrava con un nitore che inteneriva. Il petto aveva piccoli aggraziati pomi sempre più visibili. La sua schiena faceva una curva profonda, prima di approdare all’arco sempre più teso del sedere. Le caviglie erano ancora troppo magre, caviglie di bambina; ma quanto avrebbero impiegato ad adattarsi alla sua figura ormai di ragazza? Mi accorsi che i

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maschi, nel contemplarla mentre danzava con Rino, stavano vedendo ancora più cose di me. Pasquale innanzitutto, ma anche Antonio, anche Enzo. Le tenevano gli occhi addosso come se noi altre fossimo sparite. Eppure io avevo più seno. Eppure Gigliola era di un biondo abbagliante, di lineamenti regolari, di gambe perfette. Eppure Carmela aveva occhi bellissimi e soprattutto movenze sempre più provocanti. Ma non c’era niente da fare: dal corpo mobile Lila aveva cominciato a emanare qualcosa che i maschi sentivano, un’energia che li stordiva, come il rumore sempre più vicino della bellezza in arrivo. Dovette interrompersi la musica perché tornassero in sé con sorrisi incerti e applausi esagerati.

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16.

Lila era cattiva: questo, in qualche luogo segreto di me, continuavo a pensarlo. Mi aveva dimostrato che non solo sapeva ferire con le parole, ma che avrebbe saputo uccidere senza esitazione, eppure quelle sue potenzialità ora mi sembravano roba da poco. Mi dicevo: sprigionerà qualcosa di ancora più malvagio, e ricorrevo alla parola maleficio, un vocabolo esagerato che mi veniva dalle favole dell’infanzia. Ma se era il mio lato infantile a scatenarmi quei pensieri, un fondo di verità c’era. E infatti, che da Lila stesse promanando un fluido che non era semplicemente seducente ma anche pericoloso, lentamente diventò chiaro non solo a me, che la sorvegliavo da quando eravamo in prima elementare, ma a tutti.

Verso la fine dell’estate cominciarono a moltiplicarsi le pressioni su Rino perché, nelle sortite in gruppo fuori dal rione per una pizza, per una passeggiata, si tirasse dietro anche la sorella. Rino però voleva spazi suoi.

Anche lui mi pareva che stesse cambiando, Lila gli aveva acceso la fantasia e le speranze. Ma, a vederlo, a sentirlo, l’effetto non era dei migliori. Era diventato più smargiasso, non trascurava occasione per alludere a quanto era bravo col suo lavoro e a come sarebbe diventato ricco, ripeteva spesso una frase che gli piaceva: basta poco, un po’ di fortuna, e ai Solara gli piscio in faccia. Per queste vanterie, però, era indispensabile che la sorella non ci fosse. In presenza di lei si confondeva, accennava qualche frase, poi lasciava perdere. Si rendeva conto che Lila lo guardava storto come se lui stesse tradendo un patto segreto di contegno, di distacco, e preferiva perciò non averla intorno, già stavano insieme a sgobbare tutta la giornata nella calzoleria. Svicolava e andava a gonfiarsi come un pavone con gli amici suoi.

Ma a volte doveva cedere.

Una domenica, dopo molte discussioni con i nostri genitori, uscimmo (Rino venne ad assumersi generosamente, con i miei genitori, anche la responsabilità della mia persona) nientemeno di sera. Vedemmo la città illuminata dalle insegne, le strade affollate, il malodore del pesce andato a male per il caldo ma anche i profumi dei ristoranti, delle friggitorie, dei bar-

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pasticceria che erano molto più ricchi di quello dei Solara. Non mi ricordo se Lila avesse già avuto occasione di andare in centro, col fratello o con altri. Di certo se era successo non me ne aveva parlato. Mi ricordo invece che in quella circostanza fu assolutamente muta. Attraversammo piazza Garibaldi, ma lei restava indietro, si attardava a guardare un lustrascarpe, un donnone variopinto, gli uomini foschi, i ragazzi. Fissava le persone con molta attenzione, le guardava diritto in faccia, tanto che alcuni ridevano e altri le facevano il gesto che significa: che vuoi? Ogni tanto la strattonavo, me la tiravo dietro per paura che ci perdessimo Rino, Pasquale, Antonio, Carmela, Ada.

Quella sera andammo in una pizzeria del Rettifilo, mangiammo in allegria.

A me sembrò che Antonio mi facesse un po’ la corte, forzando la sua timidezza, e fui contenta, così si bilanciavano le attenzioni di Pasquale per Lila. Senonché a un certo punto successe che il pizzaiolo, un uomo sui trent’anni, cominciò a far volteggiare la pizza per aria, mentre la impastava, con un virtuosismo eccessivo e scambiando sorrisi con Lila che lo guardava ammirata.

«Finiscila» le disse Rino.

«Non faccio niente» rispose lei e si sforzò di guardare da un’altra parte.

Ma presto le cose si misero male. Pasquale, ridendo, ci disse che quell’uomo, il pizzaiolo – uno che a noi ragazzine pareva anziano, aveva la fede al dito, era sicuramente padre di figli – aveva mandato di nascosto un bacio a Lila soffiandosi sulla punta delle dita. Ci girammo subito a guardarlo: faceva il suo lavoro e basta. Ma Pasquale chiese a Lila, sempre ridendo:

«È vero o mi sono sbagliato?».

Lila, con una risatella nervosa in contrasto col sorriso generoso di Pasquale, rispose:

«Io non ho visto niente».

«Lascia stare, Pascà» disse Rino, fulminando con lo sguardo la sorella.

Are sens