«Se uno non prova, non cambia niente».
Ciò che doveva cambiare, secondo lei, era sempre la stessa cosa: da povere dovevamo diventare ricche, da niente che avevamo dovevamo arrivare al punto che avevamo tutto. Provai ad accennarle al vecchio progetto di scrivere romanzi come aveva fatto l’autrice di Piccole donne. Ero ferma lì, ci tenevo.
Stavo imparando il latino apposta e sotto sotto ero convinta che lei prendesse tanti libri dalla biblioteca circolante del maestro Ferraro solo perché, anche se non andava più a scuola, anche se ora s’era fissata con le scarpe, voleva comunque scrivere un romanzo insieme con me e guadagnare moltissimo.
Invece fece spallucce al modo suo noncurante, aveva ridimensionato Piccole donne. «Adesso» mi spiegò, «per diventare veramente ricche ci vuole un’attività economica». Sicché pensava di cominciare con un unico paio di scarpe, tanto per dimostrare a suo padre com’erano belle e comode; poi, una volta convinto Fernando, bisognava avviare la produzione: due paia di scarpe oggi, quattro domani, trenta in un mese, quattrocento in un anno, per arrivare, nel giro di poco tempo, a mettere su, lei, il padre, Rino, la madre, gli altri fratelli, un calzaturificio con le macchine e almeno cinquanta operai: il calzaturificio Cerullo.
«Una fabbrica di scarpe?».
«Sì».
Me ne parlò con molta convinzione, come sapeva fare lei, con frasi in italiano che mi dipingevano davanti agli occhi l’insegna della fabbrica: Cerullo; il marchio impresso sulle tomaie: Cerullo; e poi le scarpe Cerullo per intero, tutte splendenti, tutte elegantissime come nei suoi disegni, di quelle che una volta messe ai piedi, disse, sono così belle e comode che la sera vai a dormire senza togliertele.
Ridemmo, ci divertimmo.
Poi Lila si bloccò. Sembrò rendersi conto che stavamo giocando come con le bambole anni prima, con Tina e Nu davanti allo sfiatatoio dello scantinato, e mi disse, per un’urgenza di concretezza, accentuando l’aria di bambina-vecchia che mi pareva stesse diventando il suo tratto caratteristico: «Lo sai
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perché i fratelli Solara si credono di essere i padroni del rione?».
«Perché sono prepotenti».
«No, perché hanno i soldi».
«Tu dici?».
«Certo. Hai visto che Pinuccia Carracci non l’hanno mai disturbata?».
«Sì».
«E lo sai invece perché si sono comportati come si sono comportati con Ada?».
«No».
«Perché Ada non ha padre, suo fratello Antonio non conta niente, e lei aiuta Melina a pulire le scale delle palazzine».
Di conseguenza, o facevamo i soldi anche noi, più dei Solara, o, per difenderci dai due fratelli bisognava passare a fargli molto male. Mi mostrò un trincetto taglientissimo che aveva preso nella bottega di suo padre.
«A me non mi toccano perché sono brutta e non ho il marchese» disse,
«ma a te può essere di sì. Se succede, dimmelo».
La guardai confusa. Non sapevamo niente, a quasi tredici anni, di istituzioni, leggi, giustizia. Ripetevamo, e casomai facevamo con convinzione, quello che avevamo sentito e visto intorno a noi fin dalla prima infanzia. La giustizia non si realizzava a mazzate? Peluso non aveva ucciso don Achille? Tornai a casa. Mi resi conto che con quelle ultime frasi aveva ammesso di tenere molto a me e mi sentii felice.
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9.
Superai l’esame di licenza media con tutti otto, nove in italiano e nove in latino. Risultai la migliore della scuola: migliore di Alfonso, che ebbe la media dell’otto, e di gran lunga migliore di Gino. Per giorni e giorni mi gustai quel primato assoluto. Fui molto lodata da mio padre, che da quel momento cominciò a vantarsi con tutti di questa sua figlia primogenita che aveva avuto nove in italiano e nove, nientemeno, in latino. Mia madre, a sorpresa, mentre era in cucina in piedi accanto al lavandino a mondare verdura, mi disse senza girarsi: «Ti puoi mettere il mio braccialetto d’argento, la domenica, ma non lo perdere».
Meno successo ebbi nel cortile. Lì contavano solo gli amori e i fidanzati.
Quando dissi a Carmela Peluso che ero la migliore della scuola lei attaccò subito a parlarmi di come la guardava Alfonso quando passava. Gigliola Spagnuolo si amareggiò molto perché era stata rimandata in latino e matematica e cercò di recuperare prestigio raccontando che Gino le andava dietro ma lei non gli dava confidenza perché era innamorata di Marcello Solara e forse anche Marcello l’amava. Anche Lila non mostrò particolare contentezza. Quando le elencai i voti materia dietro materia, disse ridendo, col tono suo di cattiva:
«Dieci non te l’hanno messo?».
Ci restai male. Dieci si metteva solo in condotta, i professori non l’avevano dato a nessuno nelle materie importanti. Ma bastò quella frase perché un pensiero latente mi diventasse di colpo palese: se lei fosse venuta a scuola con me, nella mia stessa classe, se gliel’avessero permesso, adesso avrebbe avuto tutti dieci, e questo lo sapevo da sempre, e lo sapeva anche lei, e ora me lo faceva pesare.
Andai a casa covando il dolore di essere la prima senza essere veramente la prima. Per di più i miei genitori cominciarono a parlare tra loro di dove potevano collocarmi, ora che avevo nientemeno la licenza media. Mia madre voleva chiedere alla cartolaia di prendermi come aiutante: secondo lei, così brava com’ero, ero adatta a vendere penne, matite, quaderni e libri di scuola.
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Mio padre fantasticava di trafficare in futuro con le sue conoscenze al comune in modo da sistemarmi in un ruolo di prestigio. Sentii una tristezza dentro che, pur non definendosi, crebbe, crebbe, crebbe fino al punto che non mi andava di uscire nemmeno la domenica.
Non ero più contenta di me, tutto mi parve appannato. Mi guardavo allo specchio e non vedevo quello che mi sarebbe piaciuto vedere. I capelli da biondi erano diventati castani. Avevo un naso largo, schiacciato. Tutto il mio corpo continuava a dilatarsi ma senza crescere in altezza. E anche la pelle mi si stava guastando: sulla fronte, sul mento, intorno alle mascelle, si moltiplicavano arcipelaghi di gonfiori rossastri che poi diventavano violacei, infine mettevano punte giallicce. Cominciai per mia scelta ad aiutare mia madre a pulire la casa, a cucinare, a star dietro al disordine che si lasciavano alle spalle i miei fratelli, a occuparmi di Elisa, la piccola. Nei ritagli di tempo non uscivo, mi mettevo in un angolo e leggevo i romanzi che prendevo alla biblioteca: Grazia Deledda, Pirandello, Cěchov, Gogol’, Tolstoj, Dostoevskij. A volte sentivo forte il bisogno di andare a cercare Lila alla bottega e parlarle di personaggi che mi erano molto piaciuti, di frasi che avevo imparato a memoria, ma poi lasciavo perdere: avrebbe detto qualcosa di cattivo; avrebbe attaccato a parlare dei progetti che faceva insieme a Rino, scarpe, calzaturificio, soldi, e io piano piano avrei sentito inutili i romanzi che leggevo e squallida la mia vita, il futuro, ciò che sarei diventata: una commessa grassa e brufolosa nella cartoleria di fronte alla parrocchia, un’impiegata comunale zitella, presto o tardi strabica e claudicante.
Una domenica, spinta da un invito arrivato per posta a mio nome, col quale il maestro Ferraro mi convocava in mattinata in biblioteca, decisi finalmente di reagire. Cercai di farmi bella come mi era sembrato di essere fin da piccola, come volevo credere ancora di essere, e uscii. Passai tempo a spremermi i brufoli col risultato di infiammarmi ancora più la faccia, misi il braccialetto d’argento di mia madre, mi sciolsi i capelli. Ma continuai a non piacermi. Depressa, nel caldo che in quella stagione si poggiava sul rione fin dal mattino come una mano gonfia di febbre, feci la strada fino alla biblioteca.
Capii subito, dalla piccola folla di genitori e ragazzini delle elementari e delle medie che stava affluendo attraverso l’ingresso principale, che qualcosa non funzionava come al solito. Entrai. C’erano file di sedie tutte già occupate, festoni colorati, il parroco, Ferraro, persino il direttore della scuola elementare e la Oliviero. Il maestro, scoprii, s’era inventato di premiare con
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un libro a testa i lettori che dai suoi registri risultavano i più assidui. Poiché la cerimonia stava per cominciare e il prestito era momentaneamente sospeso, mi sedetti nel fondo della saletta. Cercai Lila, ma vidi soltanto Gigliola Spagnuolo insieme a Gino e ad Alfonso. Mi agitai sulla sedia, a disagio.
Dopo un po’ presero posto accanto a me Carmela Peluso e suo fratello Pasquale. Ciao, ciao. Mi coprii meglio le guance irritate con i capelli.
La piccola cerimonia cominciò. I premiati furono: prima Raffaella Cerullo, secondo Fernando Cerullo, terza Nunzia Cerullo, quarto Rino Cerullo, quinta Elena Greco, cioè io.