«Ti devo dire una cosa».
«Cosa?».
«Vieni giù».
Andai giù malvolentieri, mi seccava confessarle che ero stata rimandata.
Vagammo un po’ per il cortile, sotto il sole. Chiesi svogliatamente cosa c’era di nuovo in fatto di fidanzamenti. Mi ricordo che le domandai esplicitamente se c’erano stati sviluppi tra Carmela e Alfonso.
«Quali sviluppi?».
«Lei gli vuole bene».
Strinse gli occhi. Quando faceva così, seria, senza un sorriso, come se lasciare alle pupille solo una fessura le permettesse di vedere in modo più concentrato, mi ricordava gli uccelli rapaci che avevo visto nei film al cinema parrocchiale. Ma in quell’occasione mi sembrò che avesse individuato qualcosa che la faceva arrabbiare e insieme la spaventava.
«T’ha detto niente di suo padre?» mi domandò.
«Che è innocente».
«E chi sarebbe l’assassino?».
«Uno mezzo maschio e mezzo femmina che sta nascosto nelle fogne ed esce dalle saittelle come i topi».
«Allora è vero» disse, all’improvviso quasi in pena, e aggiunse che Carmela prendeva per buono tutto quello che lei diceva, che nel cortile facevano tutte così. «Non ci voglio parlare più, non voglio parlare con nessuno» borbottò imbronciata e sentii che non lo diceva con disprezzo, che l’influenza esercitata su di noi non la inorgogliva, tanto che per un po’ non capii: io al posto suo mi sarei molto insuperbita, in lei invece non c’era nessuna superbia, ma una specie di insofferenza mista alla paura della responsabilità.
«È bello» mormorai, «parlare con gli altri».
«Sì, ma solo se quando parli c’è uno che risponde».
Mi sentii in petto uno sbuffo di gioia. Che richiesta c’era in quella bella frase? Mi stava dicendo che voleva parlare soltanto con me perché non prendevo per buono tutto quello che le usciva di bocca ma le rispondevo? Mi stava dicendo che soltanto io sapevo star dietro alle cose che le passavano per la testa?
Sì. E me lo stava dicendo con un tono che non le conoscevo, fievole, sebbene come al solito brusco. Le ho suggerito, mi raccontò, che in un romanzo o in un film la figlia dell’assassino si innamorerebbe del figlio della
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vittima. Era una possibilità: per diventare un fatto vero, sarebbe dovuto nascere un amore vero. Ma Carmela non l’aveva capito e già il giorno dopo era andata dicendo a tutti che si era innamorata di Alfonso; una bugia per farsi bella con le altre, che però chissà quali conseguenze avrebbe potuto avere. Ne ragionammo. Avevamo dodici anni, ma camminammo a lungo per le vie bollenti del rione, tra la polvere e le mosche che si lasciavano alle spalle i vecchi camion di passaggio, come due vecchiette che fanno il punto delle loro vite piene di delusioni e si tengono strette l’una all’altra. Nessuno ci capiva, solo noi due – pensavo – ci capivamo. Noi, insieme, soltanto noi, sapevamo come la cappa che gravava sul rione da sempre, cioè fin da quando avevamo memoria, cedeva almeno un poco se Peluso, l’ex falegname, non aveva affondato il coltello nel collo di don Achille, se a farlo era stato l’abitante delle fogne, se la figlia dell’assassino sposava il figlio della vittima.
C’era qualcosa di insostenibile nelle cose, nelle persone, nelle palazzine, nelle strade, che solo reinventando tutto come in un gioco diventava accettabile. L’essenziale, però, era saper giocare e io e lei, io e lei soltanto, sapevamo farlo.
Mi chiese a un certo punto, senza un nesso evidente ma come se tutti quei discorsi non potessero che arrivare a quella domanda: «Siamo ancora amiche?».
«Sì».
«Allora me lo fai un piacere?».
Avrei fatto per lei qualsiasi cosa, in quella mattina di riavvicinamento: fuggire di casa, lasciare il rione, dormire nei cascinali, nutrirci di radici, discendere nelle fogne attraverso le saittelle, non tornare più indietro, nemmeno se faceva freddo, nemmeno se pioveva. Ma ciò che mi chiese mi sembrò niente e lì per lì mi deluse. Voleva semplicemente che ci vedessimo una volta al giorno, ai giardinetti, anche solo per un’ora, prima di cena, e che portassi i libri di latino.
«Non ti darò fastidio» disse.
Sapeva già che ero stata rimandata e voleva studiare insieme con me.
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7.
In quegli anni della scuola media molte cose ci cambiarono sotto gli occhi, ma giorno per giorno, tanto che non ci sembrarono veri cambiamenti.
Il bar Solara si ampliò, diventò una fornitissima pasticceria – il cui pasticciere provetto era il padre di Gigliola Spagnuolo – che la domenica si affollava di uomini giovani e anziani che compravano paste per le loro famiglie. I due figli di Silvio Solara, Marcello che era intorno ai vent’anni e Michele appena più piccolo, si comprarono un Millecento bianco e blu e la domenica si pavoneggiavano andando avanti e indietro per le vie del rione.
L’ex falegnameria di Peluso, che una volta nelle mani di don Achille era diventata una salumeria, si riempì di cose buone che occuparono anche un po’ di marciapiede. A passarci davanti si sentiva un odore di spezie, d’olive, di salami, di pane fresco, di cicoli e sugna, che metteva fame. La morte di don Achille aveva lentamente allontanato la sua ombra truce da quel luogo e dall’intera famiglia. La vedova, donna Maria, aveva assunto toni molto cordiali e ora gestiva lei in persona il negozio insieme a Pinuccia, la figlia quindicenne, e a Stefano, che non era più il ragazzino infuriato che aveva cercato di strappare la lingua a Lila, ma s’era fatto compassato, lo sguardo accattivante, il sorriso mite. La clientela era molto aumentata. Mia madre stessa mi mandava lì a fare la spesa, e mio padre non si opponeva, anche perché quando non c’erano soldi Stefano segnava tutto su un libricino e pagavamo a fine mese.
Assunta, che vendeva frutta e verdura per le strade insieme a suo marito Nicola, s’era dovuta ritirare per un brutto mal di schiena, e dopo qualche mese una polmonite aveva quasi ammazzato il suo consorte. Tuttavia quei due infortuni s’erano rivelati un bene. Adesso, ad andare in giro ogni mattina per le vie del rione con la carretta tirata dal cavallo, d’estate e d’inverno, con la pioggia e col sole, era il figlio grande, Enzo, che non aveva quasi più niente del bambino che ci tirava i sassi, era diventato un ragazzo tarchiato, l’aria forte e sana, i capelli biondi arruffati, gli occhi azzurri, una voce spessa con cui vantava la sua merce. Il ragazzo aveva ottimi prodotti e comunicava
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anche solo coi gesti un’onesta, rassicurante disposizione a servire le clienti.
Maneggiava la bilancia con grande perizia. Mi piaceva molto la velocità con cui faceva correre il peso lungo l’asta fino a trovare l’equilibrio giusto e poi via, rumor di ferro che striscia veloce contro ferro, incartava le patate o la frutta e correva a metterle nel paniere della signora Spagnuolo o in quello di Melina, o di mia madre.
In tutto il rione fiorivano iniziative. Alla merceria, dove Carmela Peluso aveva cominciato da poco a lavorare da commessa, di punto in bianco s’era associata una giovane sarta e il negozio s’era ampliato, puntava a trasformarsi in un’ambiziosa sartoria per signore. L’officina dove lavorava il figlio di Melina, Antonio, grazie al figlio del vecchio proprietario, Gentile Gorresio, stava cercando di diventare una fabbrichetta di ciclomotori. Tutto insomma tremolava, si inarcava come per cambiare i connotati, non farsi riconoscere negli odi accumulati, nelle tensioni, nelle brutture, e mostrare invece una faccia nuova. Mentre io e Lila studiavamo latino ai giardinetti, anche il puro e semplice spazio che avevamo intorno, la fontanella, il cespuglio, una buca di lato alla strada, cambiò. C’era un odore costante di pece, scoppiettava la macchina fumante col rullo compressore che avanzava lento sopra la stesa, lavoratori a torso nudo o in canottiera asfaltavano le strade e lo stradone. Si modificarono anche i colori. Il fratello grande di Carmela, Pasquale, fu preso per andare a tagliare le piante a ridosso della ferrovia. Quante ne tagliò, sentimmo il rumore dell’annientamento per giorni: le piante fremevano, emanavano un odore di legno fresco e verdura, fendevano l’aria, urtavano la terra dopo un lungo fruscio che sembrava un sospiro, e lui e altri segavano, spaccavano, estirpavano radici che emanavano un odore di sotterraneo. La macchia verde svanì e al suo posto comparve una spianata giallastra.
Pasquale aveva trovato quel lavoro grazie a un colpo di fortuna. Qualche tempo prima un amico gli aveva detto che era venuta gente al bar Solara in cerca di ragazzi che andassero a tagliare di notte gli alberi di una piazza del centro di Napoli. Lui – anche se Silvio Solara e i suoi figli non gli piacevano, era in quel bar che suo padre s’era rovinato – poiché doveva mantenere la famiglia c’era andato. Era tornato stanchissimo, all’alba, le narici piene dell’odore del legno vivo, delle foglie martoriate e del mare. Poi da cosa nasce cosa, era stato chiamato ancora per lavori di quel genere. E ora stava nel cantiere a ridosso della ferrovia e lo vedevamo a volte arrampicato sulle impalcature degli edifici nuovi che levavano pilastri piano dietro piano, o col cappello fatto di giornale, sotto il sole, a mangiare il pane con la salsiccia e i
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friarielli durante la pausa del pranzo.
Lila si arrabbiava se guardavo Pasquale e mi distraevo. Fu chiaro presto, con mia grande meraviglia, che sapeva già molto latino. Le declinazioni, per esempio, le conosceva tutte, e anche i verbi. Le domandai cautamente come mai e lei, col suo piglio cattivo di ragazzina che non vuole perdere tempo, ammise che già quando ero andata in prima media aveva preso una grammatica in prestito alla biblioteca circolante, quella gestita dal maestro Ferraro, e se l’era studiata per curiosità. La biblioteca per lei era una grande risorsa. Chiacchiera dietro chiacchiera, mi mostrò fieramente tutte le tessere che aveva, quattro: una sua, una intestata a Rino, una a suo padre e una a sua madre. Con ciascuna prendeva un libro in prestito, così da averne quattro tutti insieme. Li divorava e la domenica successiva li riportava e ne prendeva altri quattro.