"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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L’ex falegnameria di Peluso, che una volta nelle mani di don Achille era diventata una salumeria, si riempì di cose buone che occuparono anche un po’ di marciapiede. A passarci davanti si sentiva un odore di spezie, d’olive, di salami, di pane fresco, di cicoli e sugna, che metteva fame. La morte di don Achille aveva lentamente allontanato la sua ombra truce da quel luogo e dall’intera famiglia. La vedova, donna Maria, aveva assunto toni molto cordiali e ora gestiva lei in persona il negozio insieme a Pinuccia, la figlia quindicenne, e a Stefano, che non era più il ragazzino infuriato che aveva cercato di strappare la lingua a Lila, ma s’era fatto compassato, lo sguardo accattivante, il sorriso mite. La clientela era molto aumentata. Mia madre stessa mi mandava lì a fare la spesa, e mio padre non si opponeva, anche perché quando non c’erano soldi Stefano segnava tutto su un libricino e pagavamo a fine mese.

Assunta, che vendeva frutta e verdura per le strade insieme a suo marito Nicola, s’era dovuta ritirare per un brutto mal di schiena, e dopo qualche mese una polmonite aveva quasi ammazzato il suo consorte. Tuttavia quei due infortuni s’erano rivelati un bene. Adesso, ad andare in giro ogni mattina per le vie del rione con la carretta tirata dal cavallo, d’estate e d’inverno, con la pioggia e col sole, era il figlio grande, Enzo, che non aveva quasi più niente del bambino che ci tirava i sassi, era diventato un ragazzo tarchiato, l’aria forte e sana, i capelli biondi arruffati, gli occhi azzurri, una voce spessa con cui vantava la sua merce. Il ragazzo aveva ottimi prodotti e comunicava

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anche solo coi gesti un’onesta, rassicurante disposizione a servire le clienti.

Maneggiava la bilancia con grande perizia. Mi piaceva molto la velocità con cui faceva correre il peso lungo l’asta fino a trovare l’equilibrio giusto e poi via, rumor di ferro che striscia veloce contro ferro, incartava le patate o la frutta e correva a metterle nel paniere della signora Spagnuolo o in quello di Melina, o di mia madre.

In tutto il rione fiorivano iniziative. Alla merceria, dove Carmela Peluso aveva cominciato da poco a lavorare da commessa, di punto in bianco s’era associata una giovane sarta e il negozio s’era ampliato, puntava a trasformarsi in un’ambiziosa sartoria per signore. L’officina dove lavorava il figlio di Melina, Antonio, grazie al figlio del vecchio proprietario, Gentile Gorresio, stava cercando di diventare una fabbrichetta di ciclomotori. Tutto insomma tremolava, si inarcava come per cambiare i connotati, non farsi riconoscere negli odi accumulati, nelle tensioni, nelle brutture, e mostrare invece una faccia nuova. Mentre io e Lila studiavamo latino ai giardinetti, anche il puro e semplice spazio che avevamo intorno, la fontanella, il cespuglio, una buca di lato alla strada, cambiò. C’era un odore costante di pece, scoppiettava la macchina fumante col rullo compressore che avanzava lento sopra la stesa, lavoratori a torso nudo o in canottiera asfaltavano le strade e lo stradone. Si modificarono anche i colori. Il fratello grande di Carmela, Pasquale, fu preso per andare a tagliare le piante a ridosso della ferrovia. Quante ne tagliò, sentimmo il rumore dell’annientamento per giorni: le piante fremevano, emanavano un odore di legno fresco e verdura, fendevano l’aria, urtavano la terra dopo un lungo fruscio che sembrava un sospiro, e lui e altri segavano, spaccavano, estirpavano radici che emanavano un odore di sotterraneo. La macchia verde svanì e al suo posto comparve una spianata giallastra.

Pasquale aveva trovato quel lavoro grazie a un colpo di fortuna. Qualche tempo prima un amico gli aveva detto che era venuta gente al bar Solara in cerca di ragazzi che andassero a tagliare di notte gli alberi di una piazza del centro di Napoli. Lui – anche se Silvio Solara e i suoi figli non gli piacevano, era in quel bar che suo padre s’era rovinato – poiché doveva mantenere la famiglia c’era andato. Era tornato stanchissimo, all’alba, le narici piene dell’odore del legno vivo, delle foglie martoriate e del mare. Poi da cosa nasce cosa, era stato chiamato ancora per lavori di quel genere. E ora stava nel cantiere a ridosso della ferrovia e lo vedevamo a volte arrampicato sulle impalcature degli edifici nuovi che levavano pilastri piano dietro piano, o col cappello fatto di giornale, sotto il sole, a mangiare il pane con la salsiccia e i

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friarielli durante la pausa del pranzo.

Lila si arrabbiava se guardavo Pasquale e mi distraevo. Fu chiaro presto, con mia grande meraviglia, che sapeva già molto latino. Le declinazioni, per esempio, le conosceva tutte, e anche i verbi. Le domandai cautamente come mai e lei, col suo piglio cattivo di ragazzina che non vuole perdere tempo, ammise che già quando ero andata in prima media aveva preso una grammatica in prestito alla biblioteca circolante, quella gestita dal maestro Ferraro, e se l’era studiata per curiosità. La biblioteca per lei era una grande risorsa. Chiacchiera dietro chiacchiera, mi mostrò fieramente tutte le tessere che aveva, quattro: una sua, una intestata a Rino, una a suo padre e una a sua madre. Con ciascuna prendeva un libro in prestito, così da averne quattro tutti insieme. Li divorava e la domenica successiva li riportava e ne prendeva altri quattro.

Non le chiesi mai che libri avesse letto e che libri leggesse, non ci fu tempo, dovevamo studiare. Mi interrogava e s’infuriava se non sapevo. Una volta mi diede uno schiaffo su un braccio, forte, con le sue mani lunghe e magre, e non mi chiese scusa, anzi disse che se sbagliavo ancora mi avrebbe picchiato di nuovo e più forte. Era incantata dal vocabolario di latino, così grosso, tante e tante pagine, pesante, non ne aveva mai visto uno. Vi cercava continuamene parole, non solo quelle presenti negli esercizi, ma anche tutte quelle che le venivano in mente. Assegnava i compiti col tono che aveva appreso dalla nostra maestra Oliviero. M’imponeva di tradurre trenta frasi al giorno, venti dal latino in italiano e dieci dall’italiano in latino. Le traduceva anche lei, molto più velocemente di me. Alla fine dell’estate, quando l’esame era vicino, dopo aver osservato scettica come io cercavo le parole che non conoscevo sul vocabolario, nello stesso ordine secondo cui le trovavo disposte nella frase da tradurre, e mi appuntavo i significati principali, e solo allora mi sforzavo di capire il senso, disse cautamente:

«T’ha detto la professoressa di fare così?».

La professoressa non diceva mai niente, assegnava solo gli esercizi. Ero io che mi regolavo a quel modo.

Tacque per un po’, quindi mi consigliò: «Leggiti prima la frase in latino, poi va’ a vedere dov’è il verbo. A seconda della persona del verbo capisci qual è il soggetto. Una volta che hai il soggetto ti cerchi i complementi: il complemento oggetto se il verbo è transitivo, o se no altri complementi.

Prova così».

Provai. Tradurre all’improvviso mi sembrò facile. A settembre andai

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all’esame, feci lo scritto senza nemmeno un errore e all’orale seppi rispondere a tutte le domande.

«Chi ti ha fatto lezione?» chiese la professoressa, un po’ accigliata.

«Una mia amica».

«Universitaria?».

Non sapevo cosa significasse. Risposi sì.

Lila mi stava aspettando fuori, all’ombra. Quando uscii l’abbracciai, le dissi che ero andata benissimo e le chiesi se volevamo studiare insieme per tutto l’anno seguente. Poiché era stata lei per prima a propormi di vederci solo per lo studio, invitarla a continuare mi sembrò un modo bello per dirle la mia gioia e la mia gratitudine. Si sottrasse con un gesto quasi di fastidio.

Disse che voleva solo capire cos’era il latino che studiavano quelli bravi.

«E allora?».

«L’ho capito, basta».

«Non ti piace?».

«Sì. Mi prenderò qualche libro in biblioteca».

«In latino?».

«Sì».

«Ma c’è ancora molto da studiare».

«Studia tu per me, e se trovo difficoltà mi aiuti. Io adesso ho una cosa da fare con mio fratello».

«Cosa?».

«Poi ti faccio vedere».

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8.

Ricominciarono le scuole e andai subito bene in tutte le materie. Non vedevo l’ora che Lila mi chiedesse di aiutarla in latino o altro e perciò, credo, non studiavo tanto per la scuola, quanto per lei. Diventai la prima della classe, neanche alle elementari ero stata così brava.

In quell’anno mi sembrò di dilatarmi come la pasta per le pizze. Diventai sempre più piena di petto, di cosce, di sedere. Una domenica che stavo andando ai giardinetti, dove avevo appuntamento con Gigliola Spagnuolo, mi si accostarono i fratelli Solara in Millecento. Marcello, il più grande, stava al volante, Michele, il più piccolo, gli sedeva accanto. Erano tutt’e due belli, coi capelli nerissimi e luccicanti, un sorriso bianco. Ma quello dei due che mi piaceva di più era Marcello, assomigliava a Ettore com’era raffigurato nella copia scolastica dell’ Iliade. Mi accompagnarono per tutta la strada, io sul marciapiede e loro a lato, in Millecento.

«Ci sei mai andata in automobile?».

«No».

«Sali, ti facciamo fare un giro».

«Mio padre non vuole».

«E noi non glielo diciamo. Quando ti capita più di salire su una macchina come questa?».

Mai, io pensai. Ma intanto dissi no e continuai a dire no fino ai giardinetti, quando l’auto accelerò e sparì in un lampo oltre le palazzine in costruzione.

Dissi no perché se mio padre fosse venuto a sapere che ero salita su quell’automobile, anche se era un uomo buono e caro, anche se mi voleva assai bene, mi avrebbe uccisa di mazzate subito, mentre in parallelo i miei due fratellini, Peppe e Gianni, sebbene piccoli d’età, si sarebbero sentiti obbligati, adesso e negli anni futuri, a cercare di ammazzare i fratelli Solara.

Non c’erano regole scritte, si sapeva che era così e basta. Anche i Solara lo sapevano, tant’è vero che erano stati gentili, s’erano limitati solo a invitarmi a salire.

Non lo furono, qualche tempo dopo, con Ada, la figlia grande di Melina

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Cappuccio, vale a dire la vedova pazza che aveva dato scandalo quando i Sarratore avevano traslocato. Ada aveva quattordici anni. La domenica, di nascosto dalla madre, si metteva il rossetto e con le sue gambe lunghe e diritte, coi seni più grossi dei miei, sembrava grande e bella. I fratelli Solara le dissero parole volgari, Michele arrivò ad afferrarla per un braccio, ad aprire lo sportello della macchina, a tirarla dentro. La riportarono un’ora dopo nello stesso posto e Ada un po’ era arrabbiata, un po’ rideva.

Ma tra quelli che la videro tirata a forza in macchina ci fu chi lo riferì ad Antonio, il fratello maggiore che faceva il meccanico nell’officina di Gorresio. Antonio era un gran lavoratore, disciplinato, timidissimo, visibilmente ferito sia dalla morte precoce del padre, sia dagli squilibri della madre. Senza dire una sola parola ad amici e parenti andò davanti al bar Solara ad aspettare Marcello e Michele, e quando i due fratelli si fecero vivi li affrontò a pugni e calci senza dire nemmeno una parola di preambolo. Per qualche minuto se la cavò bene, ma poi vennero fuori Solara padre e uno dei baristi. In quattro pestarono Antonio a sangue e nessuno dei passanti, nessuno degli avventori, intervenne per aiutarlo.

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