Le era sembrato di vederlo per la prima volta come realmente era: una forma animale tozza, tarchiata, la più urlante, la più feroce, la più avida, la più meschina. Il tumulto del cuore l’aveva sopraffatta, si era sentita soffocare.
Troppo fumo, troppo malodore, troppo lampeggiare di fuochi nel gelo. Lila aveva cercato di calmarsi, si era detta: devo afferrare la scia che mi sta attraversando, devo gettarla via da me. Ma a quel punto aveva sentito, tra le urla di giubilo, una specie di ultima detonazione e accanto le era passato qualcosa come un soffio d’ala. Qualcuno stava sparando non più razzi e trictrac, ma colpi di pistola. Suo fratello Rino gridava insopportabili oscenità in direzione dei lampi giallastri.
Nell’occasione in cui mi fece quel racconto, Lila disse anche che la cosa che chiamava smarginatura, pur essendole arrivata addosso in modo chiaro solo in quella occasione, non le era del tutto nuova. Per esempio, aveva già avuto spesso la sensazione di trasferirsi per poche frazioni di secondo in una persona o una cosa o un numero o una sillaba, violandone i contorni. E il giorno che suo padre l’aveva buttata dalla finestra si era sentita assolutamente certa, proprio mentre volava verso l’asfalto, che piccoli animali rossastri, molto amichevoli, stessero dissolvendo la composizione della strada trasformandola in una materia liscia e morbida. Ma quella notte di Capodanno le era accaduto per la prima volta di avvertire entità sconosciute che spezzavano il profilo del mondo e ne mostravano la natura spaventosa.
Questo l’aveva sconvolta.
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2.
Quando a Lila fu tolto il gesso e le riapparve un braccino bianchiccio ma perfettamente funzionante, suo padre Fernando arrivò a una mediazione con se stesso e senza pronunciarsi direttamente, ma per bocca di Rino e della moglie Nunzia, le concesse di frequentare una scuola non so bene per imparare che cosa, stenodattilografia o computisteria o economia domestica, o tutt’e tre le discipline.
Lei ci andò di malavoglia. Nunzia fu convocata dai professori perché la figlia era spesso assente ingiustificata, disturbava la lezione, se interrogata si rifiutava di rispondere, se doveva fare le esercitazioni le faceva in cinque minuti e poi dava fastidio alle compagne. A un certo punto si prese un’influenza bruttissima, lei che non si ammalava mai, e sembrò accoglierla con una sorta di abbandono, tanto che il virus le tolse presto ogni energia.
Passavano i giorni e non riusciva a ristabilirsi. Appena provava a tornare in circolazione, più bianca del solito, le veniva di nuovo la febbre. Un giorno la vidi per strada e mi sembrò uno spirito, lo spirito di una bambina che aveva mangiato bacche velenose come l’avevo visto disegnato in un libro della maestra Oliviero. Dopo si sparse la voce che sarebbe morta presto, cosa che mi diede un’ansia insopportabile. Invece si riprese, quasi suo malgrado. Ma a scuola, con la scusa che non era in forze, ci andò sempre meno e alla fine dell’anno fu bocciata.
Anch’io non mi trovai bene in prima media. In principio ebbi grandi aspettative, e anche se non me lo dicevo con chiarezza ero contenta di esserci arrivata insieme a Gigliola Spagnuolo anziché insieme a Lila. Da qualche parte, molto segreta, di me pregustavo una scuola a cui lei non avrebbe mai avuto accesso, nella quale in sua assenza sarei risultata la migliore, e della quale all’occasione avrei potuto parlarle vantandomi. Ma cominciai subito ad arrancare, in parecchi si rivelarono più bravi di me. Finii insieme a Gigliola in una specie di palude, eravamo animaletti spaventati dalla nostra stessa mediocrità, e lottammo tutto l’anno per non trovarci tra gli ultimi. Ci restai malissimo. Cominciò a spuntare in sordina l’idea che senza Lila non avrei
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mai più provato il piacere di appartenere al gruppo ristrettissimo dei migliori.
Ogni tanto, all’entrata, incontravo Alfonso, il figlio piccolo di don Achille, ma facevamo come se non ci conoscessimo. Io non sapevo cosa dirgli, pensavo che Alfredo Peluso avesse fatto bene ad ammazzargli il padre e non mi venivano parole di conforto. Non riuscivo nemmeno a commuovermi per la sua condizione di orfano, era come se dello spavento che mi aveva fatto don Achille per anni lui portasse un po’ la colpa. Aveva una fascia nera cucita sulla giacchetta, non rideva mai, se ne stava sempre per i fatti suoi. Era in una classe diversa dalla mia e correva voce che fosse bravissimo. A fine anno si seppe che era stato promosso con la media dell’otto, e la cosa mi depresse molto. Gigliola fu rimandata in latino e matematica, io me la cavai con tutti sei.
All’uscita dei quadri la professoressa convocò mia madre, le disse in mia presenza che mi ero salvata in latino solo grazie alla sua generosità, ma che senza lezioni private l’anno seguente di sicuro non ce l’avrei fatta. Provai una doppia umiliazione: mi vergognai perché non ero stata in grado di essere brava come alle elementari, e mi vergognai per la differenza tra la figura armoniosa, dignitosamente abbigliata della professoressa, tra il suo italiano che assomigliava un poco a quello dell’ Iliade, e la figura storta di mia madre, le scarpe vecchie, i capelli senza luce, il dialetto piegato a un italiano sgrammaticato.
Anche mia madre dovette sentire il peso di quell’umiliazione. Tornò a casa torva, disse a mio padre che i professori non erano contenti di me, che lei aveva bisogno di aiuto in casa e che dovevo smettere di studiare. Discussero molto, litigarono e alla fine mio padre decise che, poiché ero stata comunque promossa mentre Gigliola era stata rimandata in ben due materie, mi meritavo di continuare.
Trascorsi un’estate torpida, nel cortile, agli stagni, in genere in compagnia di Gigliola che mi parlava spesso del giovane studente universitario che veniva a casa sua a farle ripetizione e che, secondo lei, l’amava. Io la stavo a sentire ma mi annoiavo. Ogni tanto vedevo Lila a spasso con Carmela Peluso, anche lei aveva fatto una scuola di non so cosa e anche lei era stata bocciata.
Sentivo che Lila non voleva essere più mia amica e quell’idea mi dava una stanchezza come se avessi sonno. A volte, sperando che mia madre non mi vedesse, mi andavo a sdraiare sul letto e dormicchiavo.
Un pomeriggio mi addormentai davvero e al risveglio mi sentii bagnata.
Andai nel cesso a vedere cosa avevo e scoprii che le mutande erano sporche
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di sangue. Atterrita da non so bene cosa, forse da un possibile rimprovero di mia madre per essermi fatta male tra le gambe, me le lavai ben bene, le strizzai e me le rimisi addosso bagnate. Quindi uscii nel calore del cortile. Mi batteva il cuore per la paura.
Incontrai Lila e Carmela, andai a passeggio con loro fino alla parrocchia.
Sentii che mi stavo bagnando di nuovo, ma cercai di acquietarmi pensando che fosse l’umido delle mutandine. Quando la paura diventò insopportabile sussurrai a Lila:
«Ti devo dire una cosa».
«Cosa?».
«La voglio dire solo a te».
Le presi un braccio cercando di tirarla via da Carmela, ma Carmela ci seguì. Era tale la preoccupazione che alla fine mi confessai a entrambe, ma rivolgendomi solo a Lila.
«Cosa può essere?» chiesi.
Carmela sapeva tutto. A lei il sangue veniva già da un anno, ogni mese.
«È normale» disse. «Le femmine ce l’hanno per natura: si sanguina per qualche giorno, ti fa male la pancia e la schiena, ma poi passa».
«Sicuro?».
«Sicuro».
Il silenzio di Lila mi sospinse verso Carmela. La naturalezza con cui mi aveva detto quel poco che sapeva mi rassicurò e me la rese simpatica. Passai tutto il pomeriggio a parlare con lei, fino all’ora di cena. Per quella ferita non si moriva, appurai. Anzi «significa che sei grande e che puoi fare i bambini, se un maschio ti mette nella pancia il suo coso».
Lila ci stette a sentire senza dire niente o quasi. Le chiedemmo se lei aveva il sangue come noi e la vedemmo esitare, poi malvolentieri ci rispose di no.
Di colpo mi sembrò piccola, più piccola di come l’avevo sempre vista. Era sei o sette centimetri più bassa, tutta pelle e ossa, pallidissima malgrado le giornate all’aperto. Ed era stata bocciata. E non sapeva nemmeno cos’era il sangue. E nessun maschio le aveva mai fatto la dichiarazione.
«Verrà pure a te» le dicemmo entrambe con un tono finto di consolazione.
«Che me ne fotte» disse, «io non ce l’ho perché non lo voglio avere, mi fa ribrezzo. E mi fa ribrezzo pure chi ce l’ha».
Fece per andarsene ma poi si fermò e mi chiese:
«Com’è il latino?».
«Bello».