"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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Così vestite, ci attardammo sul sagrato a far subito peccato parlando d’amore. Carmela non ci poteva credere che io rifiutassi il figlio del farmacista e lo disse a Lila. Lei, stupendomi, invece di filar via con l’aria di chi dice: chi se ne frega, s’interessò alla cosa. Ne parlammo tutte e tre.

«Perché gli dici di no?» mi chiese Lila in dialetto.

Risposi all’improvviso in italiano, per farle impressione, per farle capire che, anche se passavo il tempo a ragionare di fidanzati, non ero da trattare come Carmela:

«Perché non sono sicura dei miei sentimenti».

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Era una frase che avevo imparato leggendo Sogno e Lila mi sembrò colpita. Cominciammo, come se fosse una delle gare delle elementari, una conversazione nella lingua dei fumetti e dei libri, cosa che ridusse Carmela a pura e semplice ascoltatrice. Quei momenti mi accesero il cuore e la testa: io e lei con tutte quelle parole ben architettate. Alla scuola media non succedeva niente del genere, né coi compagni né coi professori; fu bellissimo. Di passaggio in passaggio Lila mi convinse che in amore un po’ di sicurezza si ottiene solo sottoponendo a prove durissime il proprio pretendente. E quindi, tornando di colpo al dialetto, mi consigliò sì di fidanzarmi con Gino, ma a patto che per tutta l’estate lui accettasse di comprare il gelato a me, a lei e a Carmela.

«Se non accetta vuol dire che non è vero amore».

Feci come mi aveva detto e Gino sparì. Non era vero amore, dunque, e tuttavia non ne soffrii. Lo scambio con Lila mi aveva dato un piacere così intenso che progettai di dedicarmi a lei integralmente, specie d’estate, quando avrei avuto più tempo libero. Intanto volevo che quella conversazione diventasse il modello di tutti i nostri prossimi incontri. Mi ero sentita di nuovo brava, come se qualcosa mi avesse urtato la testa facendo insorgere immagini e parole.

Però quell’episodio non ebbe il seguito che mi aspettavo. Invece di riconsolidare e rendere esclusivo il rapporto tra me e Lila, richiamò intorno a lei molte altre ragazzine. La conversazione, il consiglio che lei mi aveva dato, il suo effetto, avevano colpito così tanto Carmela Peluso che finì col raccontarli a chiunque. Il risultato fu che la figlia dello scarparo, che non aveva seno e nemmeno le mestruazioni e nemmeno un corteggiatore, diventò nel giro di pochi giorni la più accreditata dispensatrice di consigli sulle faccende di cuore. E lei, di nuovo sorprendendomi, accettò quel ruolo. Se non era impegnata a casa o nella bottega, la vedevo parlottare ora con quella, ora con quell’altra. Le passavo accanto, la salutavo, ma era così concentrata che non mi sentiva. Coglievo sempre frasi che mi parevano bellissime e ne soffrivo.

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6.

Furono giorni desolanti, al culmine dei quali mi arrivò addosso un’umiliazione che avrei dovuto prevedere e che invece avevo fatto finta di non mettere in conto: Alfonso Carracci fu promosso con la media dell’otto, Gigliola Spagnuolo fu promossa con la media del sette e io ebbi tutti sei e quattro in latino. Fui rimandata a settembre in quell’unica materia.

Questa volta fu mio padre stesso a dire che era inutile che continuassi. I libri scolastici erano già costati molto. Il vocabolario di latino, il Campanini e Carboni, anche se comprato usato era stato una grossa spesa. Non c’erano soldi per mandarmi a ripetizione durante l’estate. Ma soprattutto era ormai evidente che non ero brava: il figlio piccolo di don Achille ce l’aveva fatta e io no, la figlia di Spagnuolo il pasticciere ce l’aveva fatta e io no: bisognava rassegnarsi.

Piansi notte e giorno, mi imbruttii di proposito per punirmi. Ero la primogenita, dopo di me c’erano due maschi e un’altra femmina, la piccola Elisa: Peppe e Gianni, i due maschi, venivano a turno a consolarmi, ora portandomi un po’ di frutta, ora chiedendomi di giocare con loro. Ma io mi sentivo ugualmente sola, con un brutto destino, e non riuscivo ad acquietarmi. Poi un pomeriggio mi sentii arrivare alle spalle mia madre.

Disse in dialetto, col suo solito tono scabro: «Le lezioni non te le possiamo pagare, ma puoi provare a studiare da sola e vedere se superi l’esame». La guardai incerta. Era sempre la stessa: i capelli scialbi, l’occhio ballerino, il naso grosso, il corpo pesante. Aggiunse: «Non sta scritto da nessuna parte che non ce la puoi fare».

Disse questo e basta, o almeno è ciò che ricordo. Dal giorno dopo cominciai a studiare, imponendomi di non andare mai in cortile o ai giardinetti.

Ma una mattina mi sentii chiamare dalla strada. Era Lila, che da quando avevamo finito le elementari aveva perso del tutto quell’abitudine.

«Lenù» chiamava.

Mi affacciai.

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«Ti devo dire una cosa».

«Cosa?».

«Vieni giù».

Andai giù malvolentieri, mi seccava confessarle che ero stata rimandata.

Vagammo un po’ per il cortile, sotto il sole. Chiesi svogliatamente cosa c’era di nuovo in fatto di fidanzamenti. Mi ricordo che le domandai esplicitamente se c’erano stati sviluppi tra Carmela e Alfonso.

«Quali sviluppi?».

«Lei gli vuole bene».

Strinse gli occhi. Quando faceva così, seria, senza un sorriso, come se lasciare alle pupille solo una fessura le permettesse di vedere in modo più concentrato, mi ricordava gli uccelli rapaci che avevo visto nei film al cinema parrocchiale. Ma in quell’occasione mi sembrò che avesse individuato qualcosa che la faceva arrabbiare e insieme la spaventava.

«T’ha detto niente di suo padre?» mi domandò.

«Che è innocente».

«E chi sarebbe l’assassino?».

«Uno mezzo maschio e mezzo femmina che sta nascosto nelle fogne ed esce dalle saittelle come i topi».

«Allora è vero» disse, all’improvviso quasi in pena, e aggiunse che Carmela prendeva per buono tutto quello che lei diceva, che nel cortile facevano tutte così. «Non ci voglio parlare più, non voglio parlare con nessuno» borbottò imbronciata e sentii che non lo diceva con disprezzo, che l’influenza esercitata su di noi non la inorgogliva, tanto che per un po’ non capii: io al posto suo mi sarei molto insuperbita, in lei invece non c’era nessuna superbia, ma una specie di insofferenza mista alla paura della responsabilità.

«È bello» mormorai, «parlare con gli altri».

«Sì, ma solo se quando parli c’è uno che risponde».

Mi sentii in petto uno sbuffo di gioia. Che richiesta c’era in quella bella frase? Mi stava dicendo che voleva parlare soltanto con me perché non prendevo per buono tutto quello che le usciva di bocca ma le rispondevo? Mi stava dicendo che soltanto io sapevo star dietro alle cose che le passavano per la testa?

Sì. E me lo stava dicendo con un tono che non le conoscevo, fievole, sebbene come al solito brusco. Le ho suggerito, mi raccontò, che in un romanzo o in un film la figlia dell’assassino si innamorerebbe del figlio della

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vittima. Era una possibilità: per diventare un fatto vero, sarebbe dovuto nascere un amore vero. Ma Carmela non l’aveva capito e già il giorno dopo era andata dicendo a tutti che si era innamorata di Alfonso; una bugia per farsi bella con le altre, che però chissà quali conseguenze avrebbe potuto avere. Ne ragionammo. Avevamo dodici anni, ma camminammo a lungo per le vie bollenti del rione, tra la polvere e le mosche che si lasciavano alle spalle i vecchi camion di passaggio, come due vecchiette che fanno il punto delle loro vite piene di delusioni e si tengono strette l’una all’altra. Nessuno ci capiva, solo noi due – pensavo – ci capivamo. Noi, insieme, soltanto noi, sapevamo come la cappa che gravava sul rione da sempre, cioè fin da quando avevamo memoria, cedeva almeno un poco se Peluso, l’ex falegname, non aveva affondato il coltello nel collo di don Achille, se a farlo era stato l’abitante delle fogne, se la figlia dell’assassino sposava il figlio della vittima.

C’era qualcosa di insostenibile nelle cose, nelle persone, nelle palazzine, nelle strade, che solo reinventando tutto come in un gioco diventava accettabile. L’essenziale, però, era saper giocare e io e lei, io e lei soltanto, sapevamo farlo.

Mi chiese a un certo punto, senza un nesso evidente ma come se tutti quei discorsi non potessero che arrivare a quella domanda: «Siamo ancora amiche?».

«Sì».

«Allora me lo fai un piacere?».

Avrei fatto per lei qualsiasi cosa, in quella mattina di riavvicinamento: fuggire di casa, lasciare il rione, dormire nei cascinali, nutrirci di radici, discendere nelle fogne attraverso le saittelle, non tornare più indietro, nemmeno se faceva freddo, nemmeno se pioveva. Ma ciò che mi chiese mi sembrò niente e lì per lì mi deluse. Voleva semplicemente che ci vedessimo una volta al giorno, ai giardinetti, anche solo per un’ora, prima di cena, e che portassi i libri di latino.

«Non ti darò fastidio» disse.

Sapeva già che ero stata rimandata e voleva studiare insieme con me.

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7.

In quegli anni della scuola media molte cose ci cambiarono sotto gli occhi, ma giorno per giorno, tanto che non ci sembrarono veri cambiamenti.

Il bar Solara si ampliò, diventò una fornitissima pasticceria – il cui pasticciere provetto era il padre di Gigliola Spagnuolo – che la domenica si affollava di uomini giovani e anziani che compravano paste per le loro famiglie. I due figli di Silvio Solara, Marcello che era intorno ai vent’anni e Michele appena più piccolo, si comprarono un Millecento bianco e blu e la domenica si pavoneggiavano andando avanti e indietro per le vie del rione.

Are sens