«Me li presti tu».
Intanto però, coi soldi di don Achille, comprò un romanzo: Piccole donne.
Si decise a farlo perché lo conosceva già e le era piaciuto moltissimo. La Oliviero, in quarta, aveva dato a noi più brave libri da leggere. A lei era toccato Piccole donne con la seguente frase di accompagnamento: «Questo è per le grandi ma per te va bene», e a me il libro Cuore, senza nemmeno una parola che mi spiegasse di cosa si trattava. Lila si era letta sia Piccole donne che Cuore, in pochissimo tempo, e diceva che non c’era confronto, secondo lei Piccole donne era bellissimo. Io non ero riuscita a leggerlo, a stento avevo finito Cuore entro i termini stabiliti dalla maestra per la restituzione. Ero una lettrice lenta, tuttora sono così. Lila, quando aveva dovuto ridare il libro alla Oliviero, si era rammaricata sia di non poter rileggere di continuo Piccole donne, sia di non poterne parlare con me. Perciò una mattina si decise. Mi chiamò dalla strada, andammo agli stagni, nel posto dove avevamo seppellito dentro una scatoletta di metallo i soldi di don Achille, prendemmo il denaro e andammo a chiedere a Iolanda la cartolaia, che esponeva in vetrina chissà da quando una copia di Piccole donne ingiallita dal sole, se bastava. Bastava.
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Appena diventammo proprietarie del libro cominciammo a vederci in cortile per leggerlo o a mente, l’una vicina all’altra, o ad alta voce. Ce lo leggemmo per mesi, così tante volte che il libro diventò sudicio, sbrindellato, perse il dorso, cominciò a cacciare fili, a sgangherare i quinterni. Ma era il nostro libro, lo amammo molto. Ne ero io la custode, lo tenevo a casa tra quelli di scuola, perché Lila non se la sentiva di tenerlo in casa sua. Il padre, negli ultimi tempi, si arrabbiava se solo la pescava a leggere.
Rino invece la proteggeva. Quando ci fu la questione dell’esame di ammissione, tra lui e il padre esplosero litigi di continuo. Rino a quell’epoca aveva all’incirca sedici anni, era un ragazzo molto nervoso e aveva cominciato una sua battaglia per essere pagato per il lavoro che faceva. Il suo ragionamento era: mi alzo alle sei; vengo al negozio e lavoro fino alle otto di sera; voglio un salario. Ma quelle parole scandalizzavano sia il padre che la madre. Rino aveva un letto dove dormire, aveva di che mangiare, perché voleva soldi? Il suo compito era aiutare la famiglia, non impoverirla. Ma il ragazzo insisteva, trovava ingiusto sgobbare quanto il padre e non ricevere un centesimo. A quel punto Fernando Cerullo gli rispondeva con apparente pazienza: «Io ti pago già, Rino, ti pago profumatamente insegnandoti il mestiere completo: tu presto non saprai solo rifare i tacchi o l’orlo o rimettere la mezza piantella; tuo padre tutto quello che sa te lo sta passando e presto arriverai a fare, a regola d’arte, una scarpa intera». Ma quel pagamento a base d’istruzione a Rino non bastava e quindi battibeccavano, specialmente a cena.
Si cominciava parlando di soldi e si finiva a litigare per Lila.
«Se tu mi paghi ci penso io a farla studiare» diceva Rino.
«Studiare? Perché, io ho studiato?».
«No».
«E tu hai studiato?».
«No».
«Allora perché deve studiare tua sorella che è femmina?».
La cosa finiva quasi sempre con uno schiaffo in faccia a Rino, che in un modo o in un altro, anche senza volerlo, aveva mancato di rispetto al padre. Il ragazzo, senza piangere, chiedeva scusa con voce cattiva.
Lila taceva durante quelle discussioni. Non me l’ha mai detto, ma a me è rimasta l’impressione che mentre io odiavo mia madre, e la odiavo davvero, profondamente, lei malgrado tutto non ce l’avesse affatto con suo padre.
Diceva che era pieno di gentilezze, diceva che quando lui doveva fare i conti se li faceva fare da lei, diceva che l’aveva sentito dire agli amici che sua figlia
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era la persona più intelligente del rione, diceva che quand’era il suo onomastico le portava lui stesso la cioccolata calda a letto e quattro biscotti.
Ma c’era poco da fare, non rientrava nel suo modo di vedere che lei continuasse a studiare. E non rientrava nemmeno nelle sue possibilità economiche: la famiglia era numerosa, si vivacchiava tutti sulla botteguccia, anche due sorelle nubili di Fernando, anche i genitori di Nunzia. Perciò su quella cosa dello studio era come parlare al muro, e sua madre tutto sommato era della stessa opinione. Solo il fratello la pensava in modo diverso e si batteva coraggiosamente contro il padre. E Lila, per ragioni che non capivo, si mostrava convinta che Rino avrebbe vinto. Avrebbe ottenuto il suo salario e l’avrebbe mandata a scuola con i soldi suoi.
«Se bisogna pagare una tassa, me la paga lui» mi spiegava.
Era sicura che il fratello le avrebbe dato i soldi anche per i libri di scuola e persino per le penne, il portapenne, i pastelli, il mappamondo, il grembiule e il fiocco. Lo adorava. Mi disse che, dopo aver studiato, voleva guadagnare molti soldi al solo scopo di rendere suo fratello la persona più ricca del rione.
La ricchezza, in quell’ultimo anno delle elementari, diventò un nostro chiodo fisso. Ne parlavamo come nei romanzi si parla della ricerca di un tesoro. Dicevamo: quando diventeremo ricche faremo questo, faremo quello.
A sentirci, pareva che la ricchezza fosse nascosta in qualche posto del rione, dentro forzieri che una volta aperti mandavano bagliori, e aspettasse solo che noi la trovassimo. Poi, non so perché, le cose cambiarono e cominciammo ad associare lo studio ai soldi. Pensammo che studiare molto ci avrebbe fatto scrivere libri e che i libri ci avrebbero rese ricche. La ricchezza era sempre un luccicore di monete d’oro chiuse dentro innumerevoli casse, ma per arrivarci bastava studiare e scrivere un libro.
«Ne scriviamo uno insieme» disse Lila una volta e la cosa mi riempì di gioia.
Forse l’idea prese piede quando lei scoprì che l’autrice di Piccole donne aveva fatto così tanti soldi che aveva dato un po’ delle sue ricchezze alla famiglia. Ma non ci giurerei. Ne ragionammo, dissi che potevamo cominciare subito dopo l’esame di ammissione. Acconsentì, però non seppe resistere.
Mentre io avevo molto da studiare anche per via delle lezioni pomeridiane con Spagnuolo e la maestra, lei era più libera, si mise al lavoro e scrisse un romanzo senza di me.
Ci rimasi male quando me lo portò perché lo leggessi, ma non dissi niente, anzi trattenni la delusione e le feci molte feste. Erano una decina di fogli a
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quadretti, ripiegati e fermati con uno spillo da sarta. C’era una copertina disegnata coi pastelli, mi ricordo il titolo. Si chiamava La fata blu, e com’era appassionante, quante parole difficili c’erano. Le dissi di farlo leggere alla maestra. Non volle. La pregai, mi offrii di darglielo io. Poco convinta, fece cenno di sì.
Una volta che stavo a casa della Oliviero per la lezione, approfittai di quando Gigliola stava nel bagno per tirar fuori La fata blu. Dissi che era un romanzo bellissimo scritto da Lila e che Lila voleva farglielo leggere. Ma la maestra, che negli ultimi cinque anni era stata sempre entusiasta di tutto ciò che faceva Lila a parte le cattiverie, replicò freddamente:
«Di’ a Cerullo che farebbe bene a studiare per la licenza, invece di perdere tempo». E pur tenendosi il romanzo di Lila, lo lasciò sul tavolo senza dargli nemmeno uno sguardo.
Quell’atteggiamento mi disorientò. Cosa era successo? S’era arrabbiata con la madre di Lila? Aveva esteso l’arrabbiatura a Lila stessa? Era dispiaciuta per i soldi che i genitori della mia amica non avevano voluto darle? Non capii. Qualche giorno dopo cautamente le chiesi se aveva letto La fata blu. Mi rispose con un tono insolito, oscuramente, come se solo io e lei ci potessimo veramente capire.
«Lo sai cos’è la plebe, Greco?».
«Sì: la plebe, i tribuni della plebe, i Gracchi».
«La plebe è una cosa assai brutta».
«Sì».
«E se uno vuole restare plebe, lui, i suoi figli, i figli dei suoi figli, non si merita niente. Lascia perdere Cerullo e pensa a te».
La maestra Oliviero non disse mai niente sulla Fata blu. Lila mi chiese notizie un paio di volte, poi lasciò perdere. Disse cupa:
«Appena ho tempo ne scrivo un altro, quello non era buono».
«Era bellissimo».