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«Anche».

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«Non è possibile».

«E poi vedrai».

Ma quelle mie parole dovettero darle uno scrollone forte. Da allora smise coi racconti sul nostro futuro scolastico e ridiventò silenziosa. Poi, con una repentina determinazione, si mise a tormentare tutti i suoi familiari gridando che voleva studiare il latino come l’avremmo studiato io e Gigliola Spagnuolo. Se la prese soprattutto con Rino, che aveva promesso di aiutarla ma non l’aveva fatto. Era inutile spiegarle che ormai non c’era più niente da fare, diventava ancora più irragionevole e più cattiva.

All’inizio dell’estate mi cominciò un sentimento difficile da ordinare in parole. La vedevo nervosa, aggressiva com’era sempre stata, ed ero contenta, la riconoscevo. Ma sentivo anche, dietro i suoi vecchi modi, una pena che mi infastidiva. Soffriva, e il suo dolore non mi piaceva. La preferivo quand’era diversa da me, molto lontana dalle mie ansie. E il disagio che mi dava scoprirla fragile si mutava per vie segrete in un bisogno mio di superiorità.

Appena potevo, cautamente, in specie quando con noi c’era Carmela Peluso, trovavo il modo di ricordarle che avevo preso una pagella migliore della sua.

Appena potevo, cautamente, le segnalavo che io sarei andata alla scuola media e lei no. Smettere di essere seconda, superarla, per la prima volta mi sembrò un successo. Dovette accorgersene e diventò ancora più aspra, ma non con me, con i suoi familiari.

Spesso, mentre aspettavo che venisse giù in cortile, sentivo i suoi strilli che arrivavano dalle finestre. Lanciava insulti nel dialetto peggiore della strada, così grevi che a sentirli mi venivano pensieri d’ordine e di rispetto, non mi pareva giusto che trattasse i grandi a quel modo, anche suo fratello. Certo, il padre, Fernando lo scarparo, quando gli prendevano i cinque minuti diventava cattivo. Ma a tutti i padri venivano le furie. Tanto più che il suo, quando lei non lo provocava, era un uomo gentile, simpatico, gran lavoratore.

Assomigliava di faccia a un attore che si chiamava Randolph Scott, ma senza alcuna finezza. Era più grezzo, niente colori chiari, aveva una barbaccia nera che gli cresceva fin sotto gli occhi e certe mani larghe e corte solcate di sporco a ogni piega e sotto le unghie. Scherzava volentieri. Le volte che andavo a casa di Lila mi prendeva il naso tra indice e medio e fingeva di staccarmelo. Voleva farmi credere che me l’avesse rubato e che ora il naso gli si agitasse prigioniero tra le dita con l’intenzione di scappare e tornarmi in faccia. Questo lo trovavo divertente. Ma se Rino o Lila o gli altri figli lo facevano arrabbiare, a sentirlo dalla strada mi spaventavo anch’io.

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Non so cosa successe, un pomeriggio. Nella stagione calda restavamo all’aperto fino all’ora di cena. Quella volta Lila non si faceva vedere, andai a chiamarla sotto le sue finestre, che erano a pianterreno. Gridavo: «Lì, Lì, Lì», e la mia voce si sommava a quella altissima di Fernando, a quella alta di sua moglie, a quella insistente della mia amica. Sentii con chiarezza che era in atto qualcosa che mi atterriva. Dalle finestre arrivava un napoletano sguaiato e il fracasso di oggetti spaccati. All’apparenza non era niente di diverso da quello che accadeva in casa mia quando mia madre si arrabbiava perché i soldi non bastavano e mio padre si arrabbiava perché lei aveva già speso la parte di stipendio che le aveva dato. In realtà c’era una differenza sostanziale.

Mio padre si conteneva persino quando era furioso, diventava violento in sordina, impedendo alla voce di esplodere anche se gli si gonfiavano ugualmente le vene del collo e gli si infiammavano gli occhi. Fernando invece urlava, rompeva cose, e la rabbia si autoalimentava, non riusciva a fermarsi, anzi i tentativi che faceva la moglie per bloccarlo lo rendevano più furibondo e se pure non ce l’aveva con lei finiva per picchiarla. Insistevo, quindi, nel chiamare Lila anche per tirarla fuori da quella tempesta di grida, di oscenità, di rumori della devastazione. Gridavo: «Lì, Lì, Lì» ma lei – la sentii – non smise di insultare suo padre.

Avevamo dieci anni, a momenti ne avremmo fatti undici. Io stavo diventando sempre più piena, Lila restava piccola di statura, magrissima, era leggera e delicata. All’improvviso le grida cessarono e pochi attimi dopo la mia amica volò dalla finestra, passò sopra la mia testa e atterrò sull’asfalto alle mie spalle.

Restai a bocca aperta. Fernando si affacciò continuando a strillare minacce orribili contro la figlia. L’aveva lanciata come una cosa.

La guardai esterrefatta mentre provava a risollevarsi e mi diceva con una smorfia quasi divertita:

«Non mi sono fatta niente».

Ma sanguinava, si era spezzata un braccio.

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18.

I padri potevano fare quello e altro alle bambine petulanti. Dopo, Fernando diventò più cupo, più lavoratore del solito. Per tutta l’estate capitò spesso che io, Carmela e Lila passassimo davanti alla sua botteguccia, ma mentre Rino ci faceva sempre un cenno allegro di saluto, lo scarparo, finché la figlia ebbe il braccio ingessato, nemmeno la guardò. Si vedeva che era dispiaciuto. Le sue violenze di padre erano poca cosa se confrontate con la violenza diffusa nel rione. Al bar Solara, col caldo, tra perdite al gioco e ubriachezze moleste, si arrivava spesso alla disperazione (parola che in dialetto significava aver perso ogni speranza, ma anche, insieme, essere senza un soldo) e quindi alle mazzate. Silvio Solara, il padrone, grosso, una pancia imponente, occhi blu e la fronte altissima, aveva un bastone scuro dietro il banco con cui non esitava a colpire chi non pagava le consumazioni, chi aveva chiesto prestiti e alla scadenza non voleva restituirli, chi faceva patti di qualche genere ma non li manteneva, e spesso era aiutato dai suoi figli, Marcello e Michele, ragazzi dell’età del fratello di Lila, che però colpivano ancora più duramente del padre. Lì le mazzate si davano, si ricevevano. Poi gli uomini tornavano a casa inaspriti dalle perdite al gioco, dall’alcol, dai debiti, dalle scadenze, dalle botte, e alla prima parola storta picchiavano i familiari, una catena di torti che generava torti.

Nel bel mezzo di quella stagione lunghissima successe un fatto che sconvolse tutti, ma che su Lila ebbe un effetto particolare. Don Achille, il terribile don Achille, fu ammazzato in casa sua nel primo pomeriggio di una giornata d’agosto sorprendentemente piovosa.

Era in cucina, aveva appena aperto la finestra per far entrare l’aria fresca della pioggia. S’era alzato dal letto apposta, interrompendo la controra.

Indossava un pigiama celeste molto usurato, ai piedi aveva solo calzini d’un colore gialliccio annerito ai calcagni. Appena aprì la finestra gli arrivò in faccia uno sbuffo di pioggia e sul lato destro del collo, proprio a mezza strada tra la mandibola e la clavicola, un colpo di coltello.

Il sangue gli schizzò dal collo e colpì una pentola di rame appesa alla

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parete. Il rame era così luccicante che il sangue pareva una macchia di inchiostro da cui – ci raccontava Lila – con andamento incerto, colava una riga nera. L’assassino – ma lei propendeva per un’assassina – era entrato senza scasso, in un’ora in cui i bambini e i ragazzi erano per strada e i grandi, se non si trovavano al lavoro, riposavano. Aveva aperto sicuramente con una chiave falsa. Sicuramente aveva intenzione di colpirlo al cuore mentre dormiva, ma l’aveva trovato sveglio e gli aveva dato quel colpo alla gola.

Don Achille s’era girato, con la lama tutta immersa nel collo, gli occhi sbarrati e il sangue che gli usciva a fiumi e colava sul pigiama. Quindi era caduto in ginocchio e poi faccia a terra.

L’assassinio aveva così impressionato Lila, che quasi ogni giorno, seria, aggiungendo sempre nuovi dettagli, ce ne imponeva il racconto come se fosse stata presente. Sia io che Carmela Peluso, a sentirla, ci spaventavamo, Carmela addirittura non ci dormiva la notte. Nei momenti più terribili, quando la riga nera di sangue colava lungo la pentola di rame, gli occhi di Lila diventavano due fessure feroci. Di sicuro s’immaginava che il colpevole fosse femmina solo perché le veniva più facile immedesimarsi.

In quel periodo andavamo spesso a casa dei Peluso a giocare a dama e a tris, a Lila era venuta quella passione. La madre di Carmela ci faceva entrare in camera da pranzo, dove tutti i mobili erano stati fatti dal marito quando don Achille non gli aveva ancora tolto i suoi arnesi di falegname e la bottega.

Ci mettevamo sedute al tavolo, che era collocato tra due buffè con specchi, e giocavamo. Carmela mi era sempre più antipatica, ma facevo finta di essere sua amica almeno quanto lo ero di Lila, anzi, in qualche circostanza lasciavo credere addirittura di tenere più a lei. In compenso mi era molto simpatica la signora Peluso. Lavorava alla Manifattura del tabacco, ma da qualche mese aveva perso il lavoro e stava sempre in casa. Era comunque nella buona e nella cattiva sorte una persona allegra, grassa, con un gran seno, le guance accese da due vampe rosse, e sebbene i soldi scarseggiassero aveva sempre qualcosa di buono da offrirci. Anche il marito pareva un po’ più tranquillo.

Adesso faceva il cameriere in una pizzeria, e si sforzava di non andare più al bar Solara a perdere a carte il poco che guadagnava.

Una mattina stavamo nella camera da pranzo a giocare a dama, io e Carmela contro Lila. Eravamo sedute al tavolo, noi due da un lato, lei dall’altro. Sia alle spalle di Lila che alle spalle mie e di Carmela c’erano i mobili con gli specchi, identici. Erano di legno scuro e con la cornice a volute. Guardavo noi tre riflesse all’infinito e non riuscivo a concentrarmi sia

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per tutte quelle immagini nostre che non mi piacevano, sia per le grida di Alfredo Peluso, che quel giorno era molto nervoso e se la prendeva con la moglie Giuseppina.

A un certo punto bussarono alla porta e andò ad aprire la signora Peluso.

Esclamazioni, grida. Noi tre ci affacciammo nel corridoio e vedemmo i carabinieri, figure che temevamo molto. I carabinieri afferrarono Alfredo e se lo portarono via. Lui si sbracciava, urlava, chiamava per nome i figli, Pasquale, Carmela, Ciro, Immacolata, si afferrava ai mobili fatti con le sue mani, alle sedie, a Giuseppina, giurava che non aveva ammazzato don Achille, che era innocente. Carmela piangeva disperata, piangevano tutti, mi misi a piangere anch’io. Lila no, Lila fece quello sguardo che aveva fatto anni prima per Melina, ma con qualche differenza: ora, pur restando ferma, pareva essere in movimento insieme ad Alfredo Peluso che lanciava urla roche, aaaah, spaventose.

Fu la cosa più terribile a cui assistemmo nel corso della nostra infanzia, mi impressionò molto. Lila si preoccupò di Carmela, la consolò. Le diceva che, se davvero era stato suo padre, aveva fatto benissimo a uccidere don Achille, ma che a parer suo non era stato lui: di sicuro era innocente e presto sarebbe scappato di prigione. Parlottavano insieme continuamente e se mi accostavo se ne andavano un po’ più in là per evitare che sentissi.

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ADOLESCENZA

Storia delle scarpe

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1.

Il 31 dicembre del 1958 Lila ebbe il suo primo episodio di smarginatura. Il temine non è mio, lo ha sempre utilizzato lei forzando il significato comune della parola. Diceva che in quelle occasioni si dissolvevano all’improvviso i margini delle persone e delle cose. Quando quella notte, in cima al terrazzo dove stavamo festeggiando l’arrivo del 1959, fu investita bruscamente da una sensazione di quel tipo, si spaventò e si tenne la cosa per sé, ancora incapace di nominarla. Solo anni dopo, una sera del novembre 1980 – avevamo entrambe trentasei anni, ormai, eravamo sposate, con figli –, mi raccontò minutamente cosa le era accaduto in quella circostanza, cosa ancora le accadeva, e ricorse per la prima volta a quel vocabolo.

Eravamo all’aperto, in cima a una delle palazzine del rione. Sebbene facesse molto freddo avevamo messo abiti leggeri e scollati per sembrare belle. Guardavamo i maschi, che erano allegri, aggressivi, figure nere travolte dalla festa, dal cibo, dallo spumante. Accendevano le micce dei fuochi d’artificio per festeggiare l’anno nuovo, rito alla cui realizzazione Lila, come poi racconterò, aveva collaborato moltissimo, tanto che ora si sentiva contenta, guardava le strisce di fuoco nel cielo. Ma all’improvviso – mi disse

–, malgrado il freddo aveva cominciato a coprirsi di sudore. Le era sembrato che tutti gridassero troppo e che si muovessero troppo velocemente. Questa sensazione si era accompagnata a una nausea e lei aveva avuto l’impressione che qualcosa di assolutamente materiale, presente intorno a lei e intorno a tutti e a tutto da sempre, ma senza che si riuscisse a percepirlo, stesse spezzando i contorni di persone e cose rivelandosi.

Il cuore le si era messo a battere in modo incontrollato. Aveva cominciato a provare orrore per le urla che uscivano dalle gole di tutti quelli che si muovevano per il terrazzo tra i fumi, tra gli scoppi, come se la loro sonorità obbedisse a leggi nuove e sconosciute. Le era montata la nausea, il dialetto aveva perso ogni consuetudine, le era diventato insopportabile il modo secondo cui le nostre gole umide bagnavano le parole nel liquido della saliva.

Un senso di repulsione aveva investito tutti i corpi in movimento, la loro

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struttura ossea, la frenesia che li scuoteva. Come siamo mal formati, aveva pensato, come siamo insufficienti. Le spalle larghe, le braccia, le gambe, le orecchie, i nasi, gli occhi, le erano sembrati attributi di esseri mostruosi, calati da qualche recesso del cielo nero. E il ribrezzo, chissà perché, si era concentrato soprattutto sul corpo di suo fratello Rino, la persona che pure le era più familiare, la persona che amava di più.

Are sens