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Poi Lila lanciò un grido e rise per come il suono esplodeva violento. Subito

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dopo gridai io e risi a mia volta. Da quel momento non facemmo che gridare, insieme e separatamente: risate e grida, grida e risate, per il piacere di sentirle amplificate. La tensione si allentò, cominciò il viaggio.

Avevamo davanti a noi tante ore in cui nessuno dei nostri familiari ci avrebbe cercato. Quando penso al piacere di essere liberi, penso all’inizio di quella giornata, a quando uscimmo dal tunnel e ci trovammo su una strada tutta dritta a perdita d’occhio, la strada che, secondo ciò che aveva detto Rino a Lila, a farla tutta si arrivava al mare. Mi sentii esposta all’ignoto con gioia.

Niente di paragonabile alla discesa negli scantinati o all’ascesa fino alla casa di don Achille. C’era un sole nebuloso, un forte odore di bruciato.

Camminammo a lungo tra muri crollati invasi dalle erbacce, edifici bassi da cui venivano voci in dialetto, a volte un clangore. Vedemmo un cavallo che calava cautamente giù da un terrapieno e attraversava la strada nitrendo.

Vedemmo una donna giovane, affacciata a un balconcino, che si pettinava col pettine stretto per i pidocchi. Vedemmo molti bambini mocciolosi che smisero di giocare e ci guardarono minacciosamente. Vedemmo anche un uomo grasso in canottiera che sbucò da una casa diroccata, si aprì i calzoni e ci mostrò il suo pene. Ma non ci spaventammo di niente: don Nicola, il padre di Enzo, a volte ci faceva accarezzare il suo cavallo, i bambini erano minacciosi anche nel nostro cortile e c’era il vecchio don Mimì che ci mostrava il suo coso schifoso tutte le volte che tornavamo da scuola. Per almeno tre ore di cammino lo stradone che stavamo percorrendo non ci sembrò diverso dal segmento su cui ci affacciavamo ogni giorno. E non sentii mai la responsabilità della via giusta. Ci tenevamo per mano, avanzavamo fianco a fianco, ma per me, secondo il solito, era come se Lila fosse dieci passi più avanti e sapesse di preciso cosa fare, dove andare. Ero abituata a sentirmi la seconda in tutto e perciò ero sicura che a lei, che da sempre era la prima, fosse tutto chiaro: l’andatura, il computo del tempo a disposizione per andare e tornare, il percorso per arrivare al mare. La sentivo come se avesse tutto ordinato nella testa in modo tale che il mondo intorno non sarebbe riuscito mai a mettere disordine. Mi abbandonai con allegria. Ricordo una luce soffusa che pareva venire non dal cielo ma dalla profondità della terra, la quale però, a vederla in superficie, era povera, laida.

Poi cominciammo a essere stanche, ad aver sete e fame. A quello non avevamo pensato. Lila rallentò, rallentai anch’io. La sorpresi due o tre volte mentre mi guardava come se si fosse pentita di farmi una cattiveria. Cosa stava succedendo? Mi accorsi che si girava spesso indietro e presi a girarmi

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anch’io. La sua mano cominciò a sudare. Da tempo alle spalle non avevamo più il tunnel, che era il confine col rione. La strada già percorsa ci era ormai poco familiare, come quella che continuava ad aprirsi davanti a noi. La gente pareva del tutto indifferente alla nostra sorte. E intanto ci cresceva intorno un paesaggio d’abbandono: bidoni ammaccati, legna bruciacchiata, carcasse d’auto, ruote di carretta coi raggi spezzati, mobili semidistrutti, ferraglia rugginosa. Perché Lila guardava indietro? Perché aveva smesso di parlare?

Cosa c’era che non andava?

Guardai meglio. Il cielo, che all’inizio era molto alto, si era come abbassato. Alle nostre spalle stava diventando tutto nero, c’erano nuvole grosse, pesanti, che poggiavano sopra gli alberi, i pali della luce. Davanti a noi, invece, la luce era ancora abbagliante, ma come incalzata ai lati da un grigiore violaceo che tendeva a soffocarla. Si sentirono tuoni lontani. Ebbi paura, ma ciò che mi spaventò di più fu l’espressione di Lila, per me nuova.

Aveva la bocca aperta, gli occhi spalancati, guardava nervosamente avanti, indietro, di lato, e mi stringeva la mano molto forte. Possibile, mi chiesi, che abbia paura? Cosa le sta succedendo?

Arrivarono i primi goccioloni, colpirono la polvere della strada lasciando piccole macchie marrone.

«Torniamo» disse Lila.

«E il mare?».

«È troppo lontano».

«E casa?».

«Anche».

«Allora andiamo al mare».

«No».

«Perché?».

La vidi agitata come non l’avevo mai vista. C’era qualcosa – qualcosa che aveva sulla punta della lingua ma non si decideva a dirmi – che all’improvviso le imponeva di trascinarmi in fretta a casa. Non capivo: perché non proseguivamo? C’era tempo, il mare non doveva essere distante, e che tornassimo a casa o seguitassimo ad andare avanti, ci saremmo bagnate lo stesso, se fosse venuta la pioggia. Era uno schema di ragionamento che avevo appreso da lei e mi stupivo che non lo applicasse.

Una luce violacea spaccò il cielo nero, tuonò più forte. Lila mi diede uno strattone, mi ritrovai poco convinta a correre nella direzione del rione. Si levò il vento, i goccioloni diventarono più fitti, nel giro di pochi secondi si

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trasformarono in una cascata d’acqua. A nessuna di noi venne in mente di cercarci un riparo. Corremmo accecate dalla pioggia, gli abiti subito zuppi, i piedi nudi dentro sandali consunti che facevano poca presa sul terreno ormai fangoso. Corremmo finché avemmo fiato.

Poi non ce la facemmo più, rallentammo. Lampi, tuoni, una lava d’acqua piovana correva ai bordi dello stradone, camion rumorosissimi passavano veloci sollevando ondate di fanghiglia. Facemmo la strada a passo svelto, il cuore in tumulto, prima sotto grandi rovesci, poi sotto una pioggia sottile, infine sotto un cielo grigio. Eravamo zuppe, i capelli incollati al cranio, le labbra livide, gli occhi spaventati. Riattraversammo il tunnel, andammo su per la campagna. Gli arbusti carichi di pioggia ci sfioravano facendoci rabbrividire. Ritrovammo le cartelle, mettemmo sugli abiti bagnati i grembiuli asciutti, ci avviammo verso casa. Tesa, gli occhi sempre bassi, Lila non mi diede più la mano.

Capimmo presto che niente era andato come avevamo previsto. Il cielo s’era fatto nero sopra il rione in concomitanza con l’uscita da scuola. Mia madre era andata sotto scuola con l’ombrello per accompagnarmi alla festa dalla maestra. Aveva scoperto che non c’ero, che non c’era nessuna festa. Da ore mi stava cercando. Quando vidi da lontano la sua figura penosamente claudicante lasciai subito Lila perché non se la prendesse con lei e le corsi incontro. Non mi fece nemmeno parlare. Mi colpì a schiaffi e anche con l’ombrello, urlando che m’avrebbe ucciso se avessi fatto ancora una cosa del genere.

Lila se la batté, a casa sua nessuno si era accorto di niente.

In serata mia madre riferì tutto a mio padre e lo obbligò a picchiarmi. Lui si innervosì, di fatto non voleva, finirono col litigare. Prima le tirò uno schiaffo, poi, arrabbiato con se stesso, me le diede di santa ragione. Per tutta la notte cercai di capire cosa fosse realmente successo. Dovevamo andare al mare e non ci eravamo andate, le avevo buscate per niente. Si era verificata una misteriosa inversione di atteggiamenti: io, malgrado la pioggia, avrei continuato il cammino, mi sentivo lontana da tutto e da tutti, e la lontananza –

avevo scoperto per la prima volta – mi estingueva dentro ogni legame e ogni preoccupazione; Lila s’era bruscamente pentita del suo stesso piano, aveva rinunciato al mare, era voluta tornare dentro i confini del rione. Non mi ci raccapezzavo.

Il giorno dopo non l’aspettai al cancello, andai sola a scuola. Ci vedemmo ai giardinetti, lei mi scoprì i lividi sulle braccia e mi chiese cos’era successo.

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Feci spallucce, ormai era andata così.

«T’hanno solo picchiata?».

« E cosa mi dovevano fare?».

«Ti mandano ancora a studiare il latino?».

La guardai perplessa.

Era possibile? Mi aveva trascinata con sé augurandosi che i miei genitori per punizione non mi mandassero più alla scuola media? O mi aveva riportata indietro in fretta e furia proprio per evitarmi quella punizione? O – mi chiedo oggi – aveva voluto in momenti diversi tutt’e due le cose?

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17.

Facemmo insieme l’esame di licenza elementare. Quando si rese conto che avrei dato anche quello di ammissione, perse energia. Accadde così una cosa che sorprese tutti: io superai entrambi gli esami con tutti dieci; Lila prese la licenza con tutti nove e otto in aritmetica.

Non mi disse nemmeno una parola di rabbia o di scontento. Cominciò invece a fare comunella con Carmela Peluso, la figlia del falegname-giocatore, come se non le bastassi più. Nel giro di pochi giorni diventammo un trio, nel quale però io, che ero risultata la prima a scuola, tendevo a essere quasi sempre terza. Parlavano e scherzavano di continuo tra loro o, per meglio dire, Lila parlava e scherzava, Carmela ascoltava e si divertiva.

Quando uscivamo a passeggio tra la parrocchia e lo stradone, Lila stava sempre al centro e noi due ai lati. Se mi accorgevo che lei tendeva ad accostarsi di più a Carmela, ne soffrivo e mi veniva voglia di tornarmene a casa.

In quell’ultima fase era come stordita, sembrava vittima di un colpo di sole. Faceva già molto caldo e ci bagnavamo spesso la testa alla fontanella.

Me la ricordo coi capelli e la faccia sgocciolante che voleva parlare di continuo di quando saremmo andate a scuola l’anno seguente. Era diventato il suo argomento preferito e lo affrontava come se fosse uno dei racconti che aveva intenzione di scrivere per diventare ricca. Quando parlava, adesso, di preferenza si rivolgeva a Carmela Peluso, che aveva preso la licenza con tutti sette e nemmeno lei aveva fatto l’esame di ammissione.

Lila era molto abile a raccontare, sembrava tutto vero, la scuola dove saremmo andate, i professori, e mi faceva ridere, mi faceva preoccupare. Una mattina però la interruppi.

«Lila» le dissi, «tu non puoi andare alla scuola media, non hai fatto l’esame di ammissione. Né tu né Peluso ci potete andare».

Si arrabbiò. Disse che ci sarebbe andata ugualmente, esame o non esame.

«Anche Carmela?».

Are sens