«La figlia dello scarparo insieme alla figlia grande di Greco».
Don Achille venne alla luce e, per la prima volta, lo vedemmo bene. Niente
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minerali, niente scintillio di vetri. Il viso era di carne, lungo, e i capelli gli si arruffavano solo sulle orecchie, al centro della testa era tutto lucido. Aveva occhi lucenti, con il bianco venato di torrentelli rossi, la bocca larga e sottile, il mento grosso con una fossa al centro. Mi sembrò brutto ma non quanto mi ero immaginata.
«Beh?».
«Le bambole» disse Lila.
«Che bambole?».
«Le nostre».
«Qua non ci servono le bambole vostre».
«Ve le siete prese giù allo scantinato».
Don Achille si girò e gridò verso l’interno dell’appartamento:
«Pinù, tu ti sei presa la bambola della figlia dello scarparo?».
«Io no».
«Alfò, te la sei presa tu?».
Risate.
Lila disse ferma, non so da dove le veniva tutto quel coraggio:
«Ve le siete prese voi, vi abbiamo visto».
Ci fu un momento di silenzio.
«Voi io?» chiese don Achille.
«Sì, e le avete messe nella vostra borsa nera».
L’uomo, nell’udire quelle ultime parole, corrugò la fronte infastidito.
Non potevo crederci che eravamo lì, davanti a don Achille, e Lila gli parlasse a quel modo e lui la fissasse perplesso, e nel fondo si intravedessero Alfonso e Stefano e Pinuccia e donna Maria che apparecchiava la tavola per la cena. Non potevo crederci che era una persona comune, un po’ basso, un po’ calvo, un po’ sproporzionato, ma comune. Perciò aspettavo che da un momento all’altro si trasformasse.
Don Achille ripeté, come per capire bene il senso delle parole:
«Io mi sono preso le vostre bambole e le ho messe nella borsa nera?».
Sentii che non era arrabbiato ma all’improvviso sofferente, come se stesse avendo la conferma di una cosa che già sapeva. Disse qualcosa in dialetto che non capii, Maria gridò:
«Achì, è pronto».
«Vengo».
Don Achille portò un mano grossa e larga alla tasca di dietro dei calzoni.
Noi ci stringemmo forte la mano, aspettandoci che tirasse fuori un coltello.
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Invece estrasse il portafoglio, lo aprì, guardò dentro e tese a Lila dei soldi, non mi ricordo quanto.
«Compratevele, le bambole» disse.
Lila arraffò i soldi e mi trascinò giù per la rampa. Lui borbottò affacciandosi alla ringhiera:
«E ricordatevi che ve le ho regalate io».
Dissi in italiano, attenta a non cadere per le scale: «Buonasera e buon appetito».
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15.
Gigliola Spagnuolo e io, subito dopo Pasqua, cominciammo ad andare a casa della maestra per prepararci all’esame di ammissione. La maestra abitava proprio di lato alla parrocchia della Sacra Famiglia, le sue finestre affacciavano sui giardinetti e di lì si vedevano, oltre la campagna fitta, i tralicci della ferrovia. Gigliola passava sotto le mie finestre e mi chiamava. Io ero già pronta, uscivo di corsa. Mi piacevano quelle lezioni private, due a settimana, mi pare. La maestra, a fine lezione, ci offriva dolcetti secchi a forma di cuore e una gassosa.
Lila non venne mai, i suoi genitori non avevano accettato di pagare la maestra. Ma lei, visto che ormai eravamo molto amiche, continuò a dirmi che avrebbe fatto l’esame e sarebbe venuta in prima media nella mia stessa classe.
«E i libri?».