Enzo lo conoscevano tutti. Era ripetente e almeno un paio di volte era stato trascinato in giro per le classi con al collo un cartello su cui il maestro Ferraro, un uomo coi capelli grigi a spazzola, lungo e magrissimo, il viso piccolo e molto segnato, occhi allarmati, aveva scritto asino. Nino invece era così buono, così mite, così silenzioso, che era noto e caro soprattutto a me.
Naturalmente Enzo era meno che zero, scolasticamente parlando, lo tenevamo d’occhio solo perché era manesco. I nostri avversari, nelle cose di intelligenza, erano Nino e – scoprimmo lì per lì – Alfonso Carracci, terzo figlio di don Achille, un bambino molto curato, uno di seconda come noi, che pareva più piccolo dei sette anni che aveva. Si vedeva che il maestro lo aveva chiamato lì in quarta perché faceva più affidamento su di lui che su Nino, di quasi due anni più grande.
Ci fu un po’ di maretta tra la Oliviero e Ferraro per quella convocazione imprevista di Carracci, poi la gara cominciò davanti alle classi riunite in un’aula sola. Ci chiesero i verbi, ci chiesero le tabelline, ci chiesero le quattro operazioni, prima alla lavagna e poi a mente. Di quella particolare circostanza mi sono rimaste in mente tre cose. La prima è che il piccolo Alfonso Carracci mi sgominò subito, era calmo e preciso, ma aveva di buono che non godeva a sopraffarti. La seconda è che Nino Sarratore, a sorpresa, non rispose quasi mai alle domande, restò imbambolato come se non capisse cosa gli chiedevano i due maestri. La terza è che Lila tenne testa al figlio di don Achille svogliatamente, come se non le importasse che potesse batterla. Il quadro si animò solo quando si passò ai calcoli a mente, addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni. Alfonso, malgrado la svogliatezza di Lila che a volte se ne stava zitta come se non avesse sentito la domanda, cominciò a perdere colpi, sbagliava soprattutto le moltiplicazioni e le divisioni. D’altra parte, se il figlio di don Achille cedeva, anche Lila non era
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all’altezza e quindi sembravano più o meno pari. Ma a un certo punto successe un fatto imprevisto. Per ben due volte, quando Lila non rispondeva o Alfonso sbagliava, si sentì piena di disprezzo la voce di Enzo Scanno che, dagli ultimi banchi, diceva il risultato giusto.
Questo stupì la classe, i maestri, il direttore, me e Lila. Com’era possibile che uno come Enzo, svogliato, incapace e delinquente, sapesse fare calcoli complicati a mente meglio di me, di Alfonso Carracci, di Nino Sarratore? Di colpo fu come se Lila si svegliasse. Alfonso finì fuori gioco rapidamente e, col consenso fiero del maestro, che cambiò prontamente campione, cominciò un duello tra Lila ed Enzo.
I due si tennero testa a lungo. A un certo punto il direttore, scavalcando il maestro, chiamò alla cattedra, accanto a Lila, il figlio della fruttivendola.
Enzo lasciò l’ultimo banco con risatelle nervose sue e dei suoi accoliti, ma poi si dispose accanto alla lavagna, di fronte a Lila, cupo, a disagio. Il duello continuò con calcoli a mente sempre più difficili. Il bambino dava il risultato in dialetto, come se stesse per strada e non in un’aula, e il maestro gli correggeva la dizione, ma la cifra era sempre giusta. Di quel momento di gloria Enzo sembrò fierissimo, lui stesso meravigliato di com’era bravo. Poi cominciò a cedere, perché Lila s’era svegliata definitivamente e ora aveva quegli occhi a fessura, molto determinati, rispondeva con precisione. Enzo alla fine perse. Perse ma senza rassegnazione. Cominciò a bestemmiare, a gridare oscenità terribili. Il maestro lo mandò dietro la lavagna, in ginocchio, ma lui non ci volle andare. Fu preso a bacchettate sulle nocche e poi trascinato per le orecchie nell’angolo del castigo. La giornata scolastica finì così.
Ma da allora la banda dei maschi cominciò a lanciarci le pietre.
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9.
Quella mattina del duello tra lei ed Enzo è importante, nella nostra lunga storia. Lì si avviarono molti comportamenti di ardua decifrazione. Per esempio si vide con chiarezza che Lila poteva, volendo, dosare l’uso delle sue capacità. Era ciò che aveva fatto col figlio di don Achille. Non solo non aveva voluto batterlo, aveva anche calibrato silenzi e risposte in modo da non farsi battere. Allora non eravamo ancora amiche e non potevo chiederle perché avesse tenuto quel comportamento. In realtà non c’era bisogno di fare domande, la ragione ero in grado di intuirla. Come me, anche lei aveva il divieto di fare torti non solo a don Achille, ma anche a tutta la sua famiglia.
Era così. Non sapevamo da dove derivasse quel timore-astio-odio-acquiescenza che i nostri genitori manifestavano nei confronti dei Carracci e che ci trasmettevano, ma c’era, era un dato di fatto, come il rione, le sue case bianchicce, l’odore miserabile dei pianerottoli, la polvere delle strade. Con tutta probabilità anche Nino Sarratore era rimasto muto per permettere ad Alfonso di dare il meglio di sé. Aveva balbettato poche cose, bello, ben pettinato, le ciglia lunghissime, sottile e nervoso, e infine aveva taciuto. Per continuare ad amarlo, volli pensare che le cose fossero andate così. Ma sotto sotto nutrivo dei dubbi. La sua era stata una scelta, come quella di Lila? Non ne ero sicura. Io mi ero fatta da parte perché Alfonso era davvero più bravo di me. Lila avrebbe potuto batterlo subito, tuttavia aveva scelto di puntare al pareggio. E lui? C’era stato qualcosa che mi aveva confusa, forse persino addolorata: non una sua incapacità, nemmeno una rinuncia, ma, oggi direi, un cedimento. Quel balbettio, il pallore, il viola che gli aveva all’improvviso mangiato gli occhi: com’era bello, così languido, e tuttavia quanto mi era dispiaciuto il suo languore.
Anche Lila a un certo punto mi era sembrata bellissima. In genere ero io quella bella, lei invece era secca come un’alice salata, mandava un odore di selvatico, aveva un viso lungo, stretto alle tempie, chiuso tra due bande di capelli lisci e nerissimi. Ma quando aveva deciso di spazzar via sia Alfonso che Enzo, si era illuminata come una santa guerriera. Le era salito un rossore
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alle guance che era il segno di una vampa sprigionata da ogni angolo del corpo, tanto che per la prima volta avevo pensato: Lila è più bella di me. Ero dunque seconda in tutto. Mi ero augurata che nessuno se ne accorgesse mai.
Ma la cosa più importante di quella mattinata fu la scoperta che una formula che usavamo spesso per sottrarci alle punizioni custodiva qualcosa di vero, quindi di ingovernabile, quindi di pericoloso. La formula era: non l’ho fatto apposta. Enzo infatti si era inserito non di proposito nella gara in atto e non di proposito aveva sconfitto Alfonso. Lila di proposito aveva sconfitto Enzo ma non di proposito aveva sconfitto anche Alfonso e non di proposito lo aveva umiliato, era stato solo un passaggio necessario. I fatti che ne derivarono ci convinsero che conveniva fare ogni cosa apposta, premeditatamente, in modo da sapere cosa c’era da aspettarsi.
Infatti ciò che accadde in seguito ci investì in modo inatteso. Poiché quasi niente era stato fatto apposta, ci venne addosso una lava di molte cose improvvise, l’una dietro l’altra. Alfonso tornò a casa in lacrime per via della sconfitta. Suo fratello Stefano, di quattordici anni, apprendista salumiere nella salumeria (l’ex bottega del falegname Peluso) di cui era proprietario suo padre, che però non ci metteva mai piede, il giorno dopo venne sotto scuola e disse a Lila bruttissime cose, arrivando a minacciarla. A un certo punto lei gli gridò un insulto molto osceno, lui la spinse contro un muro e cercò di afferrarle la lingua, gridando che gliela voleva pungere con uno spillo. Lila tornò a casa e raccontò tutto a suo fratello Rino, che più lei parlava, più diventava rosso e con gli occhi lucidi. Nel frattempo Enzo, mentre in serata tornava a casa senza la sua banda della campagna, fu bloccato da Stefano e preso a schiaffi, pugni e calci. Rino, al mattino, andò a cercare Stefano e fecero a botte, dandosele di santa ragione in modo più o meno paritario.
Qualche giorno dopo bussò alla porta dei Cerullo la moglie di don Achille, zia Maria, e fece a Nunzia una scenata con urla e insulti. Passò poco tempo e una domenica, dopo la messa, Fernando Cerullo il calzolaio, padre di Lila e di Rino, un uomo piccolo, magrissimo, accostò timidamente don Achille e gli chiese scusa senza mai dire per che cosa si scusava. Io non lo vidi, o almeno non me lo ricordo, ma si disse che le scuse erano state fatte ad alta voce e in modo che tutti sentissero, anche se don Achille era passato oltre come se lo scarparo non parlasse con lui. Poco tempo dopo io e Lila ferimmo alla caviglia Enzo con una pietra ed Enzo lanciò un sasso che colpì Lila alla testa.
Mentre io strillavo di paura e Lila si rialzava con il sangue che le gocciolava da sotto i capelli, Enzo venne giù dal terrapieno, anche lui sanguinante, e nel
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vedere Lila in quello stato, in modo del tutto imprevisto, e ai nostri occhi incomprensibile, si mise a piangere. Passò poco e Rino, il fratello adorato di Lila, arrivò sotto scuola e diede molte mazzate a Enzo, che si difese appena.
Rino era più grande, più grosso e più motivato. Non solo: Enzo non disse niente delle botte ricevute né alla sua banda né a sua madre né a suo padre né ai suoi fratelli né ai cugini, che lavoravano tutti in campagna e vendevano frutta e verdura con la carretta. A quel punto, grazie a lui, finirono le vendette.
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10.
Lila andò per un po’ in giro, fieramente, con la testa fasciata. Poi si tolse la fasciatura e mostrò a chiunque glielo chiedesse la ferita nera, arrossata ai bordi, che sbucava sulla fronte da sotto l’attaccatura dei capelli. Infine si dimenticò di ciò che le era successo e se qualcuno le guardava fisso il segno biancastro che le era rimasto sulla pelle, faceva un gesto aggressivo che significava: cosa guardi, fatti i fatti tuoi. A me non disse mai nulla, nemmeno una parola di ringraziamento per le pietre che le avevo passato, per come le avevo asciugato il sangue col lembo del grembiule. Ma da quel momento cominciò a sottopormi a prove di coraggio che non avevano più a che fare con la scuola.
Ci vedevamo in cortile sempre più spesso. Ci mostravamo le nostre bambole ma senza darlo a vedere, l’una nei dintorni dell’altra, come se fossimo da sole. A un certo punto le facemmo incontrare per prova, per vedere se andavano d’accordo. E così arrivò il giorno che stavamo accanto alla finestra dello scantinato col reticolo scollato e facemmo uno scambio, lei tenne un po’ la mia bambola e io un po’ la sua, e Lila di punto in bianco fece passare Tina attraverso l’apertura nella rete e la lasciò cadere.
Provai un dolore insopportabile. Tenevo alla mia bambola di celluloide come alla cosa più preziosa che avessi. Lo sapevo che Lila era una bambina molto cattiva, ma non mi sarei mai aspettata che mi facesse una cosa così malvagia. Per me la bambola era viva, saperla in fondo allo scantinato, in mezzo alle mille bestie che ci vivevano, mi gettò nella disperazione. Ma in quell’occasione imparai un’arte in cui poi sono diventata molto brava.
Trattenni la disperazione, la trattenni sul bordo degli occhi lucidi, tanto che Lila mi disse in dialetto:
«Non te ne importa?».
Non risposi. Provavo un dolore violentissimo, ma sentivo che più forte ancora sarebbe stato il dolore di litigare con lei. Ero come strozzata da due sofferenze, una già in atto, la perdita della bambola, e una possibile, la perdita di Lila. Non dissi nulla, feci solo un gesto senza dispetto, come se fosse
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naturale, anche se naturale non era e sapevo che stavo rischiando molto. Mi limitai a gettare nello scantinato la sua Nu, la bambola che mi aveva appena dato.
Lila mi guardò incredula.
«Quello che fai tu, faccio io» recitai subito ad alta voce, spaventatissima.
«Adesso me la vai a prendere».
«Se tu vai a prendere la mia».
Andammo insieme. Nell’ingresso della palazzina, a sinistra, c’era la porticina che introduceva agli scantinati, la conoscevamo bene. Scardinata com’era – uno dei battenti si reggeva su un solo ganghero –, la porta era bloccata da un catenaccio che teneva insieme in malo modo le due ante. Ogni bambino era tentato e insieme terrorizzato dalla possibilità di forzare la porticina quel tanto che avrebbe reso possibile passare dall’altro lato. Noi lo facemmo. Ci ricavammo uno spazio sufficiente perché i nostri corpi esili e flessibili sgattaiolassero nello scantinato.
Una volta dentro, prima Lila, poi io, scendemmo per cinque gradini di pietra in un luogo umido, mal rischiarato dalle piccole aperture a livello stradale. Avevo paura, cercai di tener dietro a Lila, che però sembrava arrabbiata e puntava diritto a ritrovare la sua bambola. Avanzai a tentoni.
Sentivo sotto le suole dei sandali oggetti che scricchiolavano, vetro, pietrisco, insetti. Intorno c’erano cose non identificabili, masse scure, puntute o squadrate o tondeggianti. La poca luce che attraversava il buio a volte cadeva su cose riconoscibili: lo scheletro di una sedia, l’asta di un lampadario, cassette della frutta, fondi e fiancate d’armadi, bandelle di ferro. Provai un grande spavento per quella che mi sembrò una faccia floscia dai grandi occhi di vetro che si allungava in un mento a forma di scatola. La vidi appesa su un trabiccolino di legno con un’espressione desolata e gridai, la indicai a Lila.