«Prenditi il tempo che vuoi ma poi telefonami e dimmi se hai trovato anche solo uno spillo che le appartiene».
Mi ha chiamato il giorno dopo, era agitatissimo.
«Non c’è niente».
«Niente niente?».
«No. S’è tagliata via da tutte le foto in cui stavamo insieme, anche quelle di quando ero piccolo».
«Hai guardato bene?».
«Dappertutto».
«Anche nello scantinato?».
«T’ho detto dappertutto. È sparita persino la scatola con i documenti: che so, vecchi certificati di nascita, contratti telefonici, ricevute di bollette. Che significa? Qualcuno ha rubato tutto? Cosa cercano? Che vogliono da mia madre e da me?».
L’ho rassicurato, gli ho detto di stare tranquillo. Soprattutto da lui, era improbabile che qualcuno volesse qualcosa.
«Posso venire a stare un po’ a casa tua?».
«No».
«Per favore, non riesco a dormire».
«Arrangiati, Rino, non so che farci».
Ho riattaccato e quando lui ha ritelefonato non ho risposto. Mi sono seduta alla scrivania.
Lila come al solito vuole esagerare, ho pensato.
Stava dilatando a dismisura il concetto di traccia. Voleva non solo sparire lei, adesso, a sessantasei anni, ma anche cancellare tutta la vita che si era lasciata alle spalle.
Mi sono sentita molto arrabbiata.
Vediamo chi la spunta questa volta, mi sono detta. Ho acceso il computer e ho cominciato a scrivere ogni dettaglio della nostra storia, tutto ciò che mi è rimasto in mente.
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INFANZIA
Storia di don Achille
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1.
La volta che Lila e io decidemmo di salire per le scale buie che portavano, gradino dietro gradino, rampa dietro rampa, fino alla porta dell’appartamento di don Achille, cominciò la nostra amicizia.
Mi ricordo la luce violacea del cortile, gli odori di una serata tiepida di primavera. Le mamme stavano preparando la cena, era ora di rientrare, ma noi ci attardavamo sottoponendoci per sfida, senza mai rivolgerci la parola, a prove di coraggio. Da qualche tempo, dentro e fuori scuola, non facevamo che quello. Lila infilava la mano e tutto il braccio nella bocca nera di un tombino, e io lo facevo subito dopo a mia volta, col batticuore, sperando che gli scarafaggi non mi corressero su per la pelle e i topi non mi mordessero.
Lila s’arrampicava fino alla finestra a pianterreno della signora Spagnuolo, s’appendeva alla sbarra di ferro dove passava il filo per stendere i panni, si dondolava, quindi si lasciava andare giù sul marciapiede, e io lo facevo subito dopo a mia volta, pur temendo di cadere e farmi male. Lila s’infilava sotto pelle la rugginosa spilla francese che aveva trovato per strada non so quando ma che conservava in tasca come il regalo di una fata; e io osservavo la punta di metallo che le scavava un tunnel biancastro nel palmo, e poi, quando lei l’estraeva e me la tendeva, facevo lo stesso.
A un certo punto mi lanciò uno sguardo dei suoi, fermo, con gli occhi stretti, e si diresse verso la palazzina dove abitava don Achille. Mi gelai di paura. Don Achille era l’orco delle favole, avevo il divieto assoluto di avvicinarlo, parlargli, guardarlo, spiarlo, bisognava fare come se non esistessero né lui né la sua famiglia. C’erano nei suoi confronti, in casa mia ma non solo, un timore e un odio che non sapevo da dove nascessero. Mio padre ne parlava in un modo che me l’ero immaginato grosso, pieno di bolle violacee, furioso malgrado il “don”, che a me suggeriva un’autorità calma.
Era un essere fatto di non so quale materiale, ferro, vetro, ortica, ma vivo, vivo col respiro caldissimo che gli usciva dal naso e dalla bocca. Credevo che se solo l’avessi visto da lontano mi avrebbe cacciato negli occhi qualcosa di acuminato e bruciante. Se poi avessi fatto la pazzia di avvicinarmi alla porta
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di casa sua mi avrebbe uccisa.
Aspettai un po’ per vedere se Lila ci ripensava e tornava indietro. Sapevo cosa voleva fare, avevo inutilmente sperato che se ne dimenticasse, e invece no. I lampioni non si erano ancora accesi e nemmeno le luci delle scale. Dalle case arrivavano voci nervose. Per seguirla dovevo lasciare l’azzurrognolo del cortile ed entrare nel nero del portone. Quando finalmente mi decisi, all’inizio non vidi niente, sentii solo un odore di roba vecchia e DDT. Poi mi abituai allo scuro e scoprii Lila seduta sul primo gradino della prima rampa.
Si alzò e cominciammo a salire.
Avanzammo tenendoci dal lato della parete, lei due gradini avanti, io due gradini indietro e combattuta tra accorciare la distanza o lasciare che aumentasse. M’è rimasta l’impressione della spalla che strisciava contro il muro scrostato e l’idea che gli scalini fossero molto alti, più di quelli della palazzina dove abitavo. Tremavo. Ogni rumore di passi, ogni voce era don Achille che ci arrivava alle spalle o ci veniva incontro con un lungo coltello, di quelli per aprire il petto alle galline. Si sentiva un odore d’aglio fritto.
Maria, la moglie di don Achille, mi avrebbe messo nella padella con l’olio bollente, i figli mi avrebbero mangiato, lui mi avrebbe succhiato la testa come faceva mio padre con le triglie.
Ci fermammo spesso, e tutte le volte sperai che Lila decidesse di tornare indietro. Ero molto sudata, lei non so. Ogni tanto guardava in alto, ma non capivo cosa, si vedeva solo il grigiore dei finestroni a ogni rampa. Le luci si accesero all’improvviso, ma tenui, polverose, lasciando ampie zone d’ombra piene di pericoli. Aspettammo per capire se era stato don Achille a girare l’interruttore ma non sentimmo niente, né passi né una porta che si apriva o si chiudeva. Poi Lila proseguì, e io dietro.
Lei riteneva di fare una cosa giusta e necessaria, io mi ero dimenticata ogni buona ragione e di sicuro ero lì solo perché c’era lei. Salivamo lentamente verso il più grande dei nostri terrori di allora, andavamo a esporci alla paura e a interrogarla.
Alla quarta rampa Lila si comportò in modo inatteso. Si fermò ad aspettarmi e quando la raggiunsi mi diede la mano. Questo gesto cambiò tutto tra noi per sempre.
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