da Donato Sarratore, che viveva nell’appartamento proprio sopra il suo, al quarto e ultimo piano.
Donato era un frequentatore assiduo della parrocchia della Sacra Famiglia e da buon cristiano si adoperò molto per lei raccogliendo danaro, abiti e scarpe usate, sistemandole Antonio, il figlio più grande, presso l’officina di Gorresio, un suo conoscente. Melina gli fu così grata che la gratitudine si mutò, dentro il suo petto di donna desolata, in amore, in passione. Non si sapeva se Sarratore se ne fosse mai accorto. Era un uomo cordialissimo ma molto serio, casa, chiesa e lavoro, faceva parte del personale viaggiante delle Ferrovie dello stato, aveva uno stipendio fisso con cui manteneva dignitosamente la moglie Lidia e cinque figli, il più grande si chiamava Nino.
Le volte che non era in viaggio sulla tratta Napoli-Paola e ritorno, si dedicava ad aggiustare questo e quello in casa, andava a fare la spesa, portava a passeggio in carrozzina l’ultimo nato. Cose molto anomale nel rione. A nessuno veniva in mente che Donato si prodigasse a quel modo per alleviare le fatiche della moglie. No: tutti i maschi delle palazzine, mio padre in testa, lo consideravano un uomo a cui piaceva fare la femmina, tanto più che scriveva poesie e le leggeva volentieri a chiunque. Non venne mai in mente nemmeno a Melina. La vedova preferì pensare che lui, per gentilezza d’animo, si fosse fatto mettere i piedi in testa dalla moglie, e decise perciò di combattere ferocemente contro Lidia Sarratore per liberarlo e permettergli di congiungersi stabilmente a lei. La guerra che ne seguì all’inizio mi sembrò divertente, se ne parlava in casa mia e fuori con cattive risate. Lidia stendeva le lenzuola fresche di bucato e Melina saliva in piedi sul davanzale e gliele sporcava con una canna che aveva bruciato apposta, alla punta, sul fuoco; Lidia passava sotto le finestre e lei le sputava in testa o le rovesciava addosso secchiate d’acqua sporca; Lidia faceva rumore di giorno camminandole, insieme ai figli indemoniati, sopra la testa, e lei si accaniva per tutta la notte a battere contro il soffitto con la mazza per lavare a terra. Sarratore cercò in tutti i modi di mettere pace, ma era un uomo troppo sensibile, troppo cortese.
Così, di dispetto in dispetto, le due donne cominciarono a prendersi a male parole se solo si incrociavano per strada o per le scale, suoni duri, feroci. Fu da quel momento che cominciarono a farmi paura. Una delle tante scene terribili della mia infanzia ha inizio con le urla di Melina e di Lidia, con gli insulti che si lanciano dalle finestre e poi sulle scale; continua quindi con mia madre che si precipita alla porta di casa, l’apre e si affaccia sul pianerottolo
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seguita da noi bambini; e finisce con l’immagine, per me ancora oggi insopportabile, delle due vicine che rotolano avvinte giù per le scale e la testa di Melina sbatte sul pavimento del pianerottolo, a pochi centimetri dalle mie scarpe, come un melone bianco che ti è scappato di mano.
Mi è difficile dire perché a quei tempi noi bambine fossimo dalla parte di Lidia Sarratore. Forse perché aveva lineamenti regolari e capelli biondi. O
perché Donato era suo e avevamo capito che Melina glielo voleva levare. O
perché i figli di Melina erano cenciosi e sporchi, mentre quelli di Lidia erano lavati, ben pettinati e il primo, Nino, che aveva qualche anno più di noi, era bello, ci piaceva. Lila soltanto propendeva per Melina, ma non ci spiegò mai perché. Disse solo, in una certa circostanza, che se Lidia Sarratore finiva ammazzata ben le stava, e io pensai che la vedesse così un po’ perché era cattiva nell’anima e un po’ perché lei e Melina erano parenti alla lontana.
Un giorno tornavamo da scuola, eravamo quattro o cinque bambine.
Con noi c’era Marisa Sarratore, che di solito ci accompagnava non perché ci fosse simpatica ma perché speravamo che, tramite lei, avremmo potuto entrare in contatto con suo fratello grande, vale a dire Nino. Fu lei che si accorse per prima di Melina. La donna camminava dall’altro lato dello stradone con passo lento, portando in una mano un cartoccio da cui, con l’altra, prendeva e mangiava. Marisa ce la indicò chiamandola la zoccola, ma senza disprezzo, solo perché ripeteva la formula che in casa usava sua madre.
Lila, subito, anche se era più piccola di statura e magrissima, le diede uno schiaffo così forte che la mandò per terra, e lo fece a freddo come era solita fare in tutte le occasioni di violenza, senza gridare prima e senza gridare dopo, senza una parola di preavviso, senza sbarrare gli occhi, gelida e decisa.
Io prima soccorsi Marisa che già piangeva e l’aiutai a rialzarsi, poi mi girai per vedere cosa faceva Lila. Era scesa dal marciapiede e stava andando da Melina attraversando lo stradone, senza badare ai camion che passavano. Le vidi, nell’atteggiamento più che nel viso, qualcosa che mi turbò e che tuttora mi è difficile definire, tanto che per adesso mi accontenterò di dire così: sebbene si muovesse tagliando lo stradone, piccola, nera, nervosa, sebbene lo facesse con la sua solita determinazione, era ferma. Ferma dentro ciò che la
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parente di sua madre stava facendo, ferma per la pena, ferma di sale come le statue di sale. Aderente. Tutt’uno con Melina, che aveva sul palmo lo scuro sapone tenero appena acquistato nello scantinato di don Carlo, e ne prendeva con l’altra mano e se lo mangiava.
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6.
Il giorno che la maestra Oliviero cadde dalla cattedra e andò a sbattere con uno zigomo contro il banco, io, come ho detto, la considerai morta, morta sul lavoro come mio nonno o il marito di Melina, e mi sembrò che di conseguenza sarebbe morta anche Lila per il castigo terribile che avrebbe ricevuto. Invece, per un periodo che non posso definire – breve, lungo –, non accadde nulla. Si limitarono a sparire entrambe, maestra e alunna, dai nostri giorni e dalla memoria.
Ma tutto era molto sorprendente, allora. La maestra Oliviero tornò a scuola viva e cominciò a occuparsi di Lila non per castigarla, come ci sarebbe sembrato naturale, ma per lodarla.
Questa nuova fase cominciò quando fu chiamata a scuola la madre di Lila, la signora Cerullo. Una mattina bussò il bidello e l’annunciò. Subito dopo entrò Nunzia Cerullo, irriconoscibile. Lei, che come la gran parte delle donne del rione viveva arruffata in ciabatte e vecchi abiti consunti, comparve in abito da cerimonia (matrimonio, comunione, cresima, funerale), tutta scura, una borsetta nera luccicante, scarpe con un po’ di tacco che le tormentavano i piedi gonfi, e offrì alla maestra due sacchetti di carta, uno con lo zucchero e uno col caffè.
La maestra accettò di buon grado il dono e disse a lei e a tutta la classe, guardando Lila che invece fissava il banco, frasi il cui senso generale mi disorientò. Eravamo in prima elementare. Stavamo appena imparando l’alfabeto e i numeri da uno a dieci. La più brava in classe ero io, sapevo riconoscere tutte le lettere, sapevo dire uno due tre quattro eccetera, ero di continuo lodata per la calligrafia, vincevo le coccarde tricolori che cuciva la maestra. Tuttavia la Oliviero, a sorpresa, sebbene Lila l’avesse fatta cadere mandandola all’ospedale, disse che la migliore tra noi era lei. Vero che era la più cattiva. Vero che aveva fatto quella cosa terribile di tirare pezzi di carta assorbente sporchi di inchiostro addosso a noi. Vero che se quella bambina non si fosse comportata così indisciplinatamente, lei, la nostra maestra, non sarebbe caduta dalla cattedra ferendosi allo zigomo. Vero che era costretta a
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punirla di continuo con la bacchetta di legno o mandandola in ginocchio sul grano duro dietro la lavagna. Ma c’era un fatto che, in quanto maestra e anche in quanto persona, la riempiva di gioia, un fatto meraviglioso che aveva scoperto qualche giorno prima, casualmente.
Qui si fermò, come se le parole non le bastassero o come se volesse insegnare alla madre di Lila e a noi che quasi sempre, più delle parole, contano i fatti. Prese un pezzo di gesso e scrisse alla lavagna (ora non mi ricordo cosa, non sapevo ancora leggere: quindi la parola la invento) sole. Poi chiese a Lila:
«Cerullo, che c’è scritto qui?».
Nell’aula cadde un silenzio incuriosito. Lila fece un mezzo sorrisetto, quasi una smorfia, e si gettò di lato, tutta addosso alla sua compagna di banco, che diede molti segni di fastidio. Poi lesse con tono imbronciato:
«Sole».
Nunzia Cerullo guardò la maestra, e il suo sguardo era incerto, quasi spaventato. La Oliviero lì per lì sembrò non capire come mai in quegli occhi di madre non c’era il suo stesso entusiasmo. Ma poi dovette intuire che Nunzia non sapeva leggere o che comunque non era sicura che alla lavagna fosse scritto proprio sole, e si accigliò. Quindi un po’ per chiarire la situazione alla Cerullo, un po’ per lodare la nostra compagna, disse a Lila:
«Brava, c’è scritto proprio sole».
Poi le comandò:
«Vieni, Cerullo, vieni alla lavagna».
Lila svogliatamente andò alla lavagna, la maestra le porse il gesso.
«Scrivi» le disse, «gesso».
Lila, molto concentrata, con una grafia tremolante, collocando le lettere una più su, una più giù, scrisse: geso.
La Oliviero aggiunse la seconda “s” e la signora Cerullo, vedendo la correzione, disse desolata alla figlia:
«Hai sbagliato».
Ma la maestra subito la rassicurò:
«No no no: Lila si deve esercitare, questo sì, ma sa già leggere, sa già scrivere. Chi le ha insegnato?».
La signora Cerullo disse a occhi bassi:
«Io no».