«Ma a casa vostra o nel palazzo c’è qualcuno che può averlo fatto?».
Nunzia fece energicamente di no con la testa.
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Allora la maestra si rivolse a Lila e con genuina ammirazione le chiese davanti a tutte noi:
«Chi ti ha insegnato a leggere e a scrivere, Cerullo?».
Cerullo, piccola, scura di capelli e di occhi e di grembiule, col fiocco rosa al collo e sei anni di vita soltanto, rispose:
«Io».
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7.
Secondo Rino, il fratello più grande di Lila, la bambina aveva imparato a leggere intorno ai tre anni guardando le lettere e le figure del suo sillabario.
Gli si metteva seduta accanto in cucina mentre faceva i compiti, e apprendeva più di quanto riuscisse ad apprendere lui.
Rino aveva quasi sei anni più di Lila, era un ragazzo coraggioso che brillava in tutti i giochi del cortile e della strada, soprattutto nel lancio dello strùmmolo. Ma leggere, scrivere, fare i conti, imparare le poesie a memoria, non erano cose per lui. A meno di dieci anni il padre, Fernando, per insegnargli il mestiere di risuolatore di scarpe aveva cominciato a portarselo ogni giorno nel suo bugigattolo di calzolaio in una viuzza oltre lo stradone.
Noi bambine, quando lo incontravamo, gli sentivamo addosso l’odore dei piedi sporchi, della tomaia vecchia, del mastice, e lo prendevamo in giro, lo chiamavamo solapianelle. Forse per questo lui si vantava di essere all’origine della bravura di sua sorella. Ma in realtà non ce l’aveva mai avuto, il sillabario, e non era stato seduto nemmeno un minuto, mai, a fare i compiti.
Impossibile dunque che Lila avesse imparato dalle sue fatiche scolastiche.
Era più probabile che avesse capito precocemente come funzionava l’alfabeto grazie ai fogli di giornale dentro cui i clienti avvolgevano le scarpe vecchie e che certe volte il padre portava a casa per leggere alla famiglia i fatti di cronaca più interessanti.
Comunque, che le cose fossero andate in un modo o nell’altro, il dato di fatto era quello: Lila sapeva leggere e scrivere, e di quella mattina grigia in cui la maestra ce lo rivelò mi è rimasto in mente soprattutto il senso di debolezza che quella notizia mi lasciò addosso. La scuola, fin dal primo giorno, mi era subito sembrata un posto assai più bello di casa mia. Era il luogo del rione in cui mi sentivo più al sicuro, ci andavo molto emozionata.
Stavo attenta alle lezioni, eseguivo con la massima cura tutto quello che mi si diceva di eseguire, imparavo. Ma soprattutto mi piaceva piacere alla maestra, mi piaceva piacere a tutti. A casa ero la preferita di mio padre e anche i miei fratelli mi volevano bene. Il problema era mia madre, con lei le cose non
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andavano mai per il verso giusto. Mi pareva che, già allora che avevo poco più di sei anni, facesse di tutto per farmi capire che nella sua vita ero superflua. Non le ero simpatica e nemmeno lei era simpatica a me. Mi repelleva il suo corpo, cosa che probabilmente intuiva. Era biondastra, pupille azzurre, opulenta. Ma aveva l’occhio destro che non si sapeva mai da che parte guardasse. E anche la gamba destra non le funzionava, la chiamava la gamba offesa. Zoppicava e il suo passo mi inquietava, specie di notte, quando non poteva dormire e si muoveva per il corridoio, andava in cucina, tornava indietro, ricominciava. A volte la sentivo schiacciare con colpi rabbiosi di tacco gli scarafaggi che arrivavano dalla porta d’ingresso, e me la immaginavo con occhi furiosi come quando se la prendeva con me.
Di sicuro non era felice, le fatiche di casa la logoravano e i soldi non bastavano mai. Si arrabbiava spesso con mio padre, usciere al comune, gli urlava che doveva inventarsi qualcosa, che così non si poteva andare avanti.
Litigavano. Ma poiché mio padre non alzava la voce nemmeno quando perdeva la pazienza, io parteggiavo sempre per lui contro di lei, anche se a volte la picchiava e con me sapeva essere minaccioso. Era stato lui e non mia madre a dirmi, il primo giorno di scuola: «Lenuccia, fa’ la brava con la maestra e noi ti facciamo studiare. Ma se non sei brava, se non sei la più brava, papà ha bisogno di aiuto e vai a lavorare». Quelle parole mi avevano spaventato molto, eppure, pur pronunciandole lui, le avevo sentite come se fosse stata mia madre a suggerirgliele, a imporgliele. Avevo promesso a entrambi che avrei fatto la brava. E le cose erano andate subito così bene che la maestra mi diceva spesso:
«Greco, vieniti a sedere vicino a me».
Era un gran privilegio. La Oliviero aveva accanto a sé, sempre, una sedia vuota dove chiamava le più brave, per premio. Io, nei primi tempi, le sedevo accanto in continuazione. Lei mi esortava con molte parole incoraggianti, lodava i miei boccoli biondi e così rafforzava in me la voglia di far bene: tutt’al contrario di mia madre che, quando ero a casa, mi copriva così spesso di rimproveri, a volte di insulti, da farmi desiderare di rincantucciarmi in un angolo buio e sperare che non mi trovasse più. Poi successe che venne in classe la signora Cerullo e la maestra Oliviero ci rivelò che Lila era molto più avanti di noi. Non solo: chiamò più spesso lei che me a sederle accanto. Cosa mi causasse dentro quel declassamento non lo so, trovo difficile, oggi, dire con fedeltà e chiarezza ciò che provai. Lì per lì forse niente, un po’ di gelosia come tutte. Ma di sicuro proprio in quel periodo mi cominciò una
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preoccupazione. Pensai che, sebbene le mie gambe funzionassero bene, corressi di continuo il rischio di diventare zoppa. Mi svegliavo con quell’idea in testa e mi alzavo subito dal letto per vedere se le mie gambe erano ancora in ordine. Perciò forse mi fissai con Lila, che aveva gambette magrissime, scattanti, e le muoveva sempre, scalciava anche quando era seduta accanto alla maestra, tanto che quella si innervosiva e presto la mandava a posto.
Qualcosa mi convinse, allora, che se fossi andata sempre dietro a lei, alla sua andatura, il passo di mia madre, che mi era entrato nel cervello e non se ne usciva più, avrebbe smesso di minacciarmi. Decisi che dovevo regolarmi su quella bambina, non perderla mai di vista, anche se si fosse infastidita e mi avesse scacciata.
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8.
È probabile che questa sia stata la mia maniera di reagire all’invidia, all’odio, e soffocarli. O, forse, travestii a quel modo il senso di subalternità, la fascinazione che subivo. Certo mi addestrai ad accettare di buon grado la superiorità di Lila in tutto, e anche le sue angherie.
Per di più la maestra si comportò in maniera molto accorta. Vero che chiamava spesso Lila a sedersi accanto a lei, ma pareva che lo facesse più per tenerla buona che per premiarla. Continuò, di fatto, a lodare Marisa Sarratore, Carmela Peluso e soprattutto me. Mi lasciò brillare di una luce vivida, mi incoraggiò a diventare sempre più disciplinata, sempre più diligente, sempre più acuta. Quando Lila usciva dalle sue turbolenze e mi superava senza sforzo, la Oliviero lodava prima me con moderazione e poi passava a esaltare la bravura di lei. Sentivo maggiormente il veleno della sconfitta quando a superarmi erano Sarratore o Peluso. Se invece risultavo seconda dopo Lila, facevo un’espressione mite di consenso. In quegli anni credo di aver temuto una sola cosa: non essere più abbinata, nelle gerarchie stabilite dalla Oliviero, a Lila; non sentire più la maestra che diceva con orgoglio: Cerullo e Greco sono le più brave. Se un giorno avesse detto: le migliori sono Cerullo e Sarratore, o Cerullo e Peluso, sarei morta sul colpo. Perciò impiegai tutte le mie energie di bambina non per diventare la prima della classe – mi pareva impossibile riuscirci – ma per non scivolare al terzo, al quarto, all’ultimo posto. Mi dedicai allo studio e a molte altre cose difficili, lontane da me, solo per restare al passo con quella bambina terribile e sfolgorante.
Sfolgorante per me. Per tutti gli altri scolari Lila era solo terribile. Dalla prima alla quinta elementare fu, per colpa del direttore e un po’ anche della maestra Oliviero, la bambina più detestata della scuola e del rione.
Almeno due volte all’anno il direttore obbligava le classi a gareggiare tra loro, in modo da individuare gli alunni più brillanti e di conseguenza i maestri più competenti. Alla Oliviero questa competizione piaceva. In conflitto permanente con i suoi colleghi, con i quali a volte sembrava prossima a venire alle mani, la maestra usava Lila e me come la prova
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lampante di quanto era brava lei, la più brava maestra della scuola elementare del nostro rione. Perciò accadeva spesso che ci portasse nelle classi, anche a prescindere dalle occasioni volute dal direttore, a gareggiare con altri bambini, femmine e maschi. Io, di solito, ero mandata in avanscoperta per sondare il livello di competenza del nemico. In genere vincevo, ma senza esagerare, senza umiliare né maestri né alunni. Ero una bambina con i boccoli biondi, bellina, felice di esibirmi ma non sfrontata, e comunicavo un’impressione di delicatezza che inteneriva. Se quindi risultavo la più brava a dire le poesie, a recitare le tabelline, a fare le divisioni e le moltiplicazioni, a elencare che le Alpi erano marittime, cozie, graie, pennine eccetera, gli altri insegnanti mi facevano comunque una carezza, gli scolari sentivano quanta fatica avevo fatto per mandare a memoria tutta quella roba e perciò non mi odiavano.
Diverso era il caso di Lila. Già in prima elementare era al di là di ogni possibile competizione. La maestra anzi diceva che con un po’ d’impegno sarebbe stata pronta a dare subito l’esame di seconda e a meno di sette anni andare in terza. In seguito il divario crebbe. Lila faceva a mente calcoli complicatissimi, nei suoi dettati non c’era nemmeno un errore, parlava sempre in dialetto come noi tutti ma all’occorrenza sfoderava un italiano da libro, ricorrendo anche a parole come avvezzo, lussureggiante, ben volentieri.
Sicché, quando la maestra mandava in campo lei o a dire modi e tempi dei verbi o a risolvere problemi, saltava per aria ogni possibilità di fare buon viso a cattivo gioco, gli animi si inasprivano. Lila era troppo per chiunque.
In più non offriva spiragli alla benevolenza. Riconoscere la sua bravura significava per noi bambini ammettere che non ce l’avremmo mai fatta e che era inutile gareggiare, per i maestri e le maestre confessarsi di essere stati bambini mediocri. La sua prontezza mentale sapeva di sibilo, di guizzo, di morso letale. E non c’era niente nel suo aspetto che agisse da correttivo. Era arruffata, sporca, alle ginocchia e ai gomiti aveva sempre croste di ferite che non facevano mai in tempo a risanare. Gli occhi grandi e vivissimi sapevano diventare fessure dietro cui, prima di ogni risposta brillante, c’era uno sguardo che pareva non solo poco infantile, ma forse non umano. Ogni suo movimento comunicava che farle del male non serviva perché, comunque si fossero messe le cose, lei avrebbe trovato il modo di fartene di più.
L’odio dunque era tangibile, io me ne accorgevo. Ce l’avevano con lei sia le femmine che i maschi, ma i maschi più scopertamente. Per un motivo suo segreto, infatti, la maestra Oliviero godeva a portarci soprattutto nelle classi
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dove si potevano umiliare non tanto scolare e maestre, quanto scolari e maestri. E il direttore, per motivi suoi altrettanto segreti, favoriva soprattutto gare di quel tipo. In seguito ho pensato che nella scuola si scommettessero soldi, forse anche parecchi, su quei nostri incontri. Ma esageravo: forse era solo un modo per dare sfogo a vecchie ruggini o per consentire al direttore di tenere sotto il tacco i maestri meno bravi o meno obbedienti. Fatto sta che una mattina noi due, che allora eravamo in seconda, fummo portate nientemeno in una quarta, la quarta del maestro Ferraro, dove c’erano sia Enzo Scanno, il malvagio figlio della fruttivendola, che Nino Sarratore, il fratello di Marisa che io amavo.