"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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vedere Lila in quello stato, in modo del tutto imprevisto, e ai nostri occhi incomprensibile, si mise a piangere. Passò poco e Rino, il fratello adorato di Lila, arrivò sotto scuola e diede molte mazzate a Enzo, che si difese appena.

Rino era più grande, più grosso e più motivato. Non solo: Enzo non disse niente delle botte ricevute né alla sua banda né a sua madre né a suo padre né ai suoi fratelli né ai cugini, che lavoravano tutti in campagna e vendevano frutta e verdura con la carretta. A quel punto, grazie a lui, finirono le vendette.

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10.

Lila andò per un po’ in giro, fieramente, con la testa fasciata. Poi si tolse la fasciatura e mostrò a chiunque glielo chiedesse la ferita nera, arrossata ai bordi, che sbucava sulla fronte da sotto l’attaccatura dei capelli. Infine si dimenticò di ciò che le era successo e se qualcuno le guardava fisso il segno biancastro che le era rimasto sulla pelle, faceva un gesto aggressivo che significava: cosa guardi, fatti i fatti tuoi. A me non disse mai nulla, nemmeno una parola di ringraziamento per le pietre che le avevo passato, per come le avevo asciugato il sangue col lembo del grembiule. Ma da quel momento cominciò a sottopormi a prove di coraggio che non avevano più a che fare con la scuola.

Ci vedevamo in cortile sempre più spesso. Ci mostravamo le nostre bambole ma senza darlo a vedere, l’una nei dintorni dell’altra, come se fossimo da sole. A un certo punto le facemmo incontrare per prova, per vedere se andavano d’accordo. E così arrivò il giorno che stavamo accanto alla finestra dello scantinato col reticolo scollato e facemmo uno scambio, lei tenne un po’ la mia bambola e io un po’ la sua, e Lila di punto in bianco fece passare Tina attraverso l’apertura nella rete e la lasciò cadere.

Provai un dolore insopportabile. Tenevo alla mia bambola di celluloide come alla cosa più preziosa che avessi. Lo sapevo che Lila era una bambina molto cattiva, ma non mi sarei mai aspettata che mi facesse una cosa così malvagia. Per me la bambola era viva, saperla in fondo allo scantinato, in mezzo alle mille bestie che ci vivevano, mi gettò nella disperazione. Ma in quell’occasione imparai un’arte in cui poi sono diventata molto brava.

Trattenni la disperazione, la trattenni sul bordo degli occhi lucidi, tanto che Lila mi disse in dialetto:

«Non te ne importa?».

Non risposi. Provavo un dolore violentissimo, ma sentivo che più forte ancora sarebbe stato il dolore di litigare con lei. Ero come strozzata da due sofferenze, una già in atto, la perdita della bambola, e una possibile, la perdita di Lila. Non dissi nulla, feci solo un gesto senza dispetto, come se fosse

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naturale, anche se naturale non era e sapevo che stavo rischiando molto. Mi limitai a gettare nello scantinato la sua Nu, la bambola che mi aveva appena dato.

Lila mi guardò incredula.

«Quello che fai tu, faccio io» recitai subito ad alta voce, spaventatissima.

«Adesso me la vai a prendere».

«Se tu vai a prendere la mia».

Andammo insieme. Nell’ingresso della palazzina, a sinistra, c’era la porticina che introduceva agli scantinati, la conoscevamo bene. Scardinata com’era – uno dei battenti si reggeva su un solo ganghero –, la porta era bloccata da un catenaccio che teneva insieme in malo modo le due ante. Ogni bambino era tentato e insieme terrorizzato dalla possibilità di forzare la porticina quel tanto che avrebbe reso possibile passare dall’altro lato. Noi lo facemmo. Ci ricavammo uno spazio sufficiente perché i nostri corpi esili e flessibili sgattaiolassero nello scantinato.

Una volta dentro, prima Lila, poi io, scendemmo per cinque gradini di pietra in un luogo umido, mal rischiarato dalle piccole aperture a livello stradale. Avevo paura, cercai di tener dietro a Lila, che però sembrava arrabbiata e puntava diritto a ritrovare la sua bambola. Avanzai a tentoni.

Sentivo sotto le suole dei sandali oggetti che scricchiolavano, vetro, pietrisco, insetti. Intorno c’erano cose non identificabili, masse scure, puntute o squadrate o tondeggianti. La poca luce che attraversava il buio a volte cadeva su cose riconoscibili: lo scheletro di una sedia, l’asta di un lampadario, cassette della frutta, fondi e fiancate d’armadi, bandelle di ferro. Provai un grande spavento per quella che mi sembrò una faccia floscia dai grandi occhi di vetro che si allungava in un mento a forma di scatola. La vidi appesa su un trabiccolino di legno con un’espressione desolata e gridai, la indicai a Lila.

Lei si girò di scatto, si avvicinò piano voltandomi la schiena, allungò una mano con cautela, la staccò dal trabiccolo. Poi si girò. S’era messa la faccia dagli occhi di vetro sopra la sua e ora aveva un viso enorme, orbite tonde senza pupille, niente bocca, solo quella bazza nera che le ciondolava sul petto.

Sono attimi che mi sono rimasti bene impressi nella memoria. Non ne sono certa, ma mi dovette uscire dal petto un vero urlo di terrore, perché lei si affrettò a dire con una voce rimbombante che era solo una maschera, una maschera antigas: suo padre la chiamava così, ne aveva una identica nel ripostiglio di casa. Seguitai a tremare e mugolare di paura, cosa che

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evidentemente la convinse a strapparsela dal viso e a gettarla in un angolo, con un gran fracasso e molta polvere che si addensò tra le lingue di luce dei finestrini.

Mi calmai. Lila si guardò intorno, individuò l’apertura da dove avevamo fatto cadere Tina e Nu. Ci accostammo alla parete ruvida, grumosa, guardammo nell’ombra. Le bambole non c’erano. Lila ripeteva in dialetto: non ci stanno, non ci stanno, non ci stanno, e frugava per terra con le mani, cosa che io non avevo il coraggio di fare.

Passarono minuti lunghissimi. Una sola volta mi sembrò di vedere Tina e con un tuffo al cuore mi chinai a prenderla, ma era solo un vecchio foglio di giornale appallottolato. Non ci stanno, ripeté Lila e si allontanò verso l’uscita.

Allora mi sentii persa, incapace di restare lì da sola seguitando a cercare, incapace di andar via con lei se non avessi trovato la bambola.

In cima ai gradini disse:

«Se l’è pigliate don Achille, se l’è messe nella borsa nera».

E io in quello stesso momento lo sentii, don Achille: strisciava, si strusciava, tra le forme indistinte delle cose. Allora abbandonai Tina al suo destino, scappai per non perdere Lila che già si torceva agile, sgusciando oltre la porta sgangherata.

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11.

Credevo a tutto quello che lei mi diceva. M’è rimasta in mente la massa informe di don Achille che corre per cunicoli sotterranei a braccia pendule, trattenendo con le dita larghe da un lato la testa di Nu, dall’altro quella di Tina. Soffrii molto. Mi ammalai di febbri di crescenza, guarii, mi ammalai di nuovo. Fui presa da una sorta di disfunzione tattile, certe volte avevo l’impressione che, mentre ogni essere animato intorno accelerava i ritmi della sua vita, le superfici solide mi diventassero molli sotto le dita o si gonfiassero lasciando spazi vuoti tra la loro massa interna e la sfoglia di superficie. Mi sembrò che lo stesso mio corpo, a tastarlo, risultasse tumefatto e questo mi intristiva. Ero certa di avere guance a palloncino, mani riempite di segatura, lobi delle orecchie che parevano sorbe mature, piedi a forma di pagnotta.

Quando ritornai per le strade e a scuola, sentii che anche lo spazio era cambiato. Pareva incatenato tra due poli scuri, da un lato la bolla d’aria sotterranea che premeva alle radici delle case, la torva caverna dentro cui erano cadute le bambole; dall’altro il globo in alto, al quarto piano della palazzina dove abitava don Achille che ce le aveva rubate. Le due palle erano come avvitate alle estremità di una sbarra di ferro, che nella mia immaginazione attraversava obliquamente gli appartamenti, le strade, la campagna, il tunnel, i binari, e li compattava. Mi sentivo stretta dentro quella morsa insieme alla massa di cose e di persone d’ogni giorno, e avevo un sapore brutto in bocca, provavo un senso permanente di nausea che mi sfiniva, come se il tutto, così compresso, sempre più stretto, mi macinasse riducendomi a una crema ripugnante.

Fu un malessere resistente, forse durò anni, fin oltre la prima adolescenza.

Ma proprio quando era appena incominciato, insperatamente ebbi la mia prima dichiarazione d’amore.

Io e Lila non avevamo ancora provato a salire su da don Achille, il lutto per la perdita di Tina era ancora insopportabile. Ero andata svogliatamente a comprare il pane. Mi ci aveva mandato mia madre e stavo tornando a casa con il resto ben stretto in pugno per non perderlo e la palata ancora calda

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contro il petto, quando mi accorsi che dietro di me arrancava Nino Sarratore con il suo fratellino per mano. La madre, Lidia, nei giorni d’estate lo faceva uscire di casa sempre in compagnia di Pino, che all’epoca non aveva più di cinque anni, con l’obbligo di non lasciarlo mai. In prossimità di un angolo di strada, poco dopo la salumeria dei Carracci, Nino fece per superarmi, ma invece di passare oltre mi tagliò la strada, mi spinse contro il muro, appoggiò la mano libera alla parete come una sbarra che mi doveva impedire di scappare, e con l’altra si tirò accanto il fratello, testimone silenzioso della sua impresa. Disse tutto affannato qualcosa che non capii. Era pallido, prima sorrideva, poi diventava serio, poi tornava a sorridere. Alla fine scandì nell’italiano della scuola:

«Quando ci facciamo grandi ti voglio sposare».

Poi mi chiese se nel frattempo mi volevo fidanzare con lui. Era un po’ più alto di me, magrissimo, il collo lungo, le orecchie un po’ scostate dalla testa.

Aveva capelli ribelli, occhi intensi con ciglia lunghe. Era commovente lo sforzo che stava facendo per contenere la sua timidezza. Sebbene volessi sposarlo anch’io mi venne di rispondergli:

«No, non posso».

Lui restò a bocca aperta, Pino gli diede uno strattone. Scappai via.

Da quel momento cominciai a svicolare tutte le volte che lo vedevo.

Eppure mi sembrava bellissimo. Quante volte ero rimasta nei paraggi di sua sorella Marisa solo per avvicinarlo e fare insieme a loro la strada per tornare a casa. Ma evidentemente mi fece la dichiarazione in un momento sbagliato.

Non poteva sapere come mi sentivo sbandata, quanta angoscia mi dava la sparizione di Tina, come mi logorava lo sforzo di star dietro a Lila, fino a che punto mi toglieva il fiato lo spazio compresso del cortile, delle palazzine, del rione. Dopo molti lunghi sguardi spauriti che mi lanciava da lontano, anche lui cominciò a evitarmi. Per un po’ dovette temere che dicessi alle altre bambine, e innanzitutto a sua sorella, della proposta che mi aveva fatto. Si sapeva che Gigliola Spagnuolo, la figlia del pasticciere, si era comportata così quando Enzo le aveva chiesto di fidanzarsi. Ed Enzo lo aveva saputo e s’era arrabbiato, le aveva gridato sotto scuola che era una bugiarda, l’aveva anche minacciata di ammazzarla con un coltello. Fui tentata di raccontare ogni cosa anch’io, ma poi lasciai perdere, non lo dissi a nessuno, nemmeno a Lila quando diventammo amiche. Piano piano io stessa me ne dimenticai.

La cosa mi tornò in mente quando, qualche tempo dopo, l’intera famiglia Sarratore si trasferì. Una mattina comparvero nel cortile la carretta e il

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cavallo che appartenevano al marito di Assunta, Nicola: con quella stessa carretta e quello stesso cavallo vecchio vendeva insieme alla moglie la frutta e la verdura girando per le vie del rione. Nicola aveva una bella faccia larga e gli stessi occhi azzurri, gli stessi capelli biondi di suo figlio Enzo. Si occupava, oltre che di vendere frutta e verdura, anche di traslochi. E infatti lui, Donato Sarratore, Nino stesso e anche Lidia cominciarono a portar giù di tutto, carabattole d’ogni genere, materassi, mobili, e sistemarono ogni cosa sulla carretta.

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