2.
Era stata colpa sua. In un tempo non troppo distante – dieci giorni, un mese, chi lo sa, ignoravamo tutto del tempo, allora – mi aveva preso la bambola a tradimento e l’aveva buttata in fondo a uno scantinato. Ora stavamo salendo verso la paura, allora ci eravamo sentite obbligate a scendere, e di corsa, verso l’ignoto. In alto, in basso, ci pareva sempre di andare incontro a qualcosa di terribile che, pur esistendo da prima di noi, era noi e sempre noi che aspettava. Quando si è al mondo da poco è difficile capire quali sono i disastri all’origine del nostro sentimento del disastro, forse non se ne sente nemmeno la necessità. I grandi, in attesa di domani, si muovono in un presente dietro al quale c’è ieri o l’altro ieri o al massimo la settimana scorsa: al resto non vogliono pensare. I piccoli non sanno il significato di ieri, dell’altro ieri, e nemmeno di domani, tutto è questo, ora: la strada è questa, il portone è questo, le scale sono queste, questa è mamma, questo è papà, questo è il giorno, questa la notte. Io ero piccola e a conti fatti la mia bambola sapeva più di me. Le parlavo, mi parlava. Aveva una faccia di celluloide con capelli di celluloide e occhi di celluloide. Indossava un vestitino blu che le aveva cucito mia madre in un raro momento felice, ed era bellissima. La bambola di Lila, invece, aveva un corpo di pezza gialliccia pieno di segatura, mi pareva brutta e lercia. Le due si spiavano, si soppesavano, erano pronte a scappare tra le nostre braccia se scoppiava un temporale, se c’erano i tuoni, se qualcuno più grande e più forte e coi denti aguzzi le voleva ghermire.
Giocavamo nel cortile, ma come se non giocassimo insieme. Lila era seduta per terra, da un lato della finestrella di uno scantinato, io dall’altro. Ci piaceva, quel posto, innanzitutto perché potevamo disporre, sul cemento tra le sbarre dell’apertura, contro il reticolo, sia le cose di Tina, la mia bambola, sia quelle di Nu, la bambola di Lila. Ci mettevamo sassi, tappi di gassosa, fiorellini, chiodi, schegge di vetro. Ciò che Lila diceva a Nu io lo captavo e lo dicevo a voce bassa a Tina, ma modificandolo un po’. Se lei prendeva un tappo e lo metteva in testa alla sua bambola come se fosse un cappello, io dicevo alla mia, in dialetto: Tina, mettiti la corona di regina se no prendi
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freddo. Se Nu giocava a campana in braccio a Lila, io poco dopo facevo fare lo stesso a Tina. Ma non succedeva ancora che concordassimo un gioco e cominciasse una collaborazione. Persino quel posto lo sceglievamo senza accordo. Lila andava lì, e io girellavo, fingevo di andare da un’altra parte.
Poi, come se niente fosse, mi disponevo anch’io accanto allo sfiatatoio, ma dal lato opposto.
La cosa che ci attraeva di più era l’aria fredda dello scantinato, un soffio che ci rinfrescava in primavera e d’estate. Poi ci piacevano le sbarre con le ragnatele, il buio, e il reticolo fitto che, rossastro di ruggine, si arricciolava sia dal lato mio che da quello di Lila, creando due spiragli paralleli attraverso i quali potevamo far cadere nell’oscurità sassi e ascoltarne il rumore quando toccavano terra. Tutto era bello e pauroso, allora. Attraverso quelle aperture il buio poteva prenderci all’improvviso le bambole, a volte al sicuro tra le nostre braccia, più spesso messe di proposito accanto al reticolo ritorto e quindi esposte al respiro freddo dello scantinato, ai rumori minacciosi che ne venivano, ai fruscii, agli scricchiolii, al raspare.
Nu e Tina non erano felici. I terrori che assaporavamo noi ogni giorno erano i loro. Non ci fidavamo della luce sulle pietre, sulle palazzine, sulla campagna, sulle persone fuori e dentro le case. Ne intuivamo gli angoli neri, i sentimenti compressi ma sempre vicini a esplodere. E attribuivamo a quelle bocche scure, alle caverne che oltre di loro si aprivano sotto le palazzine del rione, tutto ciò che ci spaventava alla luce del giorno. Don Achille, per esempio, era non solo nella sua casa all’ultimo piano ma anche lì sotto, ragno tra i ragni, topo tra i topi, una forma che assumeva tutte le forme. Lo immaginavo a bocca aperta per via di lunghe zanne d’animale, corpo di pietra invetriata ed erbe velenose, sempre pronto ad accogliere in un’enorme borsa nera tutto ciò che lasciavamo cadere dagli angoli divelti del reticolo. Quella borsa era un tratto fondamentale di don Achille, ce l’aveva sempre, anche in casa sua, e ci metteva dentro materia viva e morta.
Lila sapeva che avevo quella paura, la mia bambola ne parlava ad alta voce. Per questo, proprio nel giorno in cui senza nemmeno contrattare, solo con gli sguardi e i gesti, ci scambiammo per la prima volta le nostre bambole, lei, appena ebbe Tina, la spinse oltre la rete e la lasciò cadere nell’oscurità.
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3.
Lila comparve nella mia vita in prima elementare e mi impressionò subito perché era molto cattiva. Eravamo tutte un po’ cattive, in quella classe, ma solo quando la maestra Oliviero non poteva vederci. Lei invece era cattiva sempre. Una volta ridusse a pezzetti la carta assorbente, prima infilò i frammenti a uno a uno nel buco dell’inchiostro, poi cominciò a pescarli col pennino e a lanciarceli addosso. Io fui colpita due volte nei capelli e una volta sul colletto bianco. La maestra strillò come sapeva fare lei, con una voce ad ago, lunga e puntuta, che ci terrorizzava, e le ordinò di andare subito in castigo dietro la lavagna. Lila non obbedì e non parve nemmeno spaventarsi, anzi continuò a lanciare in giro pezzi di carta bagnati nell’inchiostro. La maestra Oliviero, allora, una donna pesante che ci sembrava molto vecchia anche se doveva essere appena sopra i quaranta, venne giù dalla cattedra minacciandola, inciampò non si sa bene su cosa, non riuscì a tenersi in equilibrio e andò a sbattere con la faccia contro lo spigolo di un banco. Restò sul pavimento che pareva morta.
Cosa successe subito dopo non me lo ricordo, ricordo solo il corpo immobile della maestra, un fagotto scuro, e Lila che la fissava col viso serio.
Ho in mente tanti incidenti di questo tipo. Vivevamo in un mondo in cui bambini e adulti si ferivano spesso, dalle ferite usciva il sangue, veniva la suppurazione e a volte morivano. Una delle figlie della signora Assunta, la fruttivendola, si era ferita con un chiodo ed era morta di tetano. Il figlio più piccolo della signora Spagnuolo era morto di crup alla gola. Un mio cugino, all’età di vent’anni, una mattina andò a spalare macerie e la sera era morto schiacciato, col sangue che gli usciva dalle orecchie e dalla bocca. Il padre di mia madre era rimasto ucciso perché stava costruendo un palazzo ed era caduto giù. Il padre del signor Peluso non aveva un braccio, gliel’aveva tagliato il tornio a tradimento. La sorella di Giuseppina, la moglie del signor Peluso, era morta di tubercolosi a ventidue anni. Il figlio grande di don Achille – non l’avevo mai visto, eppure mi pareva di ricordarmelo – era andato in guerra ed era morto due volte, prima annegato nell’oceano Pacifico,
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poi mangiato dai pescecani. Tutta la famiglia Melchiorre era morta abbracciata, urlando di paura, sotto un bombardamento. La vecchia signorina Clorinda era morta respirando il gas invece dell’aria. Giannino, che stava in quarta quando noi eravamo in prima, un giorno era morto perché aveva trovato una bomba e l’aveva toccata. Luigina, con cui avevamo giocato in cortile o forse no, era solo un nome, l’aveva uccisa il tifo petecchiale. Il nostro mondo era così, pieno di parole che ammazzavano: il crup, il tetano, il tifo petecchiale, il gas, la guerra, il tornio, le macerie, il lavoro, il bombardamento, la bomba, la tubercolosi, la suppurazione. Faccio risalire le tante paure che mi hanno accompagnata per tutta la vita a quei vocaboli e a quegli anni.
Si poteva morire anche di cose che parevano normali. Si poteva morire, per esempio, se sudavi e poi bevevi l’acqua fredda del rubinetto senza esserti prima bagnata i polsi: succedeva che ti coprivi di puntini rossi, ti veniva la tosse e non potevi respirare più. Si poteva morire se mangiavi le ciliegie nere senza sputare il nocciolo. Si poteva morire se masticavi la gomma americana e per distrazione la ingoiavi. Si poteva morire soprattutto se prendevi una botta alla tempia. La tempia era un posto fragilissimo, ci stavamo tutte molto attente. Bastava una sassata, e le sassate erano la norma. All’uscita di scuola una banda di maschi della campagna, capeggiata da uno che si chiamava Enzo o Enzuccio, uno dei figli di Assunta la fruttivendola, cominciò a tirarci le pietre. Si sentivano offesi dal fatto che eravamo più brave di loro. Quando arrivavano i sassi scappavamo tutte, ma Lila no, seguitava a camminare con passo regolare e a volte addirittura si fermava. Era molto brava a studiare la traiettoria dei sassi e a scansarli con un movimento calmo, oggi direi elegante. Aveva un fratello maschio più grande e forse aveva imparato da lui, non so, anch’io avevo fratelli ma più piccoli di me e da loro non avevo imparato niente. Tuttavia, quando mi rendevo conto che era rimasta indietro, pur avendo molta paura mi fermavo ad aspettarla.
C’era già allora qualcosa che mi impediva di abbandonarla. Non la conoscevo bene, non ci eravamo mai rivolte la parola pur essendo continuamente in gara tra noi, in classe e fuori. Ma sentivo confusamente che se fossi scappata insieme alle altre avrei lasciato a lei qualcosa di mio che non mi avrebbe restituito più.
All’inizio restavo nascosta dietro un angolo e mi sporgevo per vedere se Lila arrivava. Poi, visto che non si muoveva, mi costringevo a raggiungerla, le passavo le pietre, le tiravo anch’io. Ma lo facevo senza convinzione, ho
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fatto molte cose nella mia vita ma mai convinta, mi sono sempre sentita un po’ scollata dalle mie stesse azioni. Lila invece aveva, da piccola – ora non so dire di preciso se già a sei o a sette anni, o quando andammo insieme su per le scale che portavano a casa di don Achille e ne avevamo otto, quasi nove –, la caratteristica della determinazione assoluta. Che impugnasse l’asta tricolore della penna o una pietra o il corrimano delle scale buie, comunicava l’idea che ciò che ne doveva seguire – conficcare con un lancio preciso il pennino nel legno del banco, dispensare pallottole intrise di inchiostro, colpire i maschi della campagna, salire fino alla porta di don Achille –
l’avrebbe fatto senza esitazione.
La banda veniva dal terrapieno della ferrovia, faceva provvista di sassi tra i binari. Enzo, il capo, era un bambino molto pericoloso, almeno tre anni più di noi, ripetente, coi capelli cortissimi biondi e gli occhi chiari. Lanciava con precisione pietre piccole dai bordi taglienti, e Lila aspettava i suoi tiri per mostrargli come li scansava, farlo arrabbiare ancora di più e rispondere subito con tiri altrettanto pericolosi. Una volta lo colpimmo alla caviglia destra, e dico lo colpimmo perché ero stata io a passare a Lila una pietra piatta coi bordi tutti scheggiati. La pietra strisciò sulla pelle di Enzo come un rasoio, lasciandogli una macchia rossa da cui subito uscì sangue. Il bambino si guardò la gamba ferita, ce l’ho davanti agli occhi: tra pollice e indice aveva il sasso che stava per tirare, il braccio era già sollevato per il lancio, eppure si bloccò stupefatto. Anche i maschi sotto il suo comando guardarono increduli il sangue. Lila invece non mostrò la minima soddisfazione per il buon esito del tiro e si chinò a raccogliere un’altra pietra. Io l’afferrai per un braccio, fu il nostro primo contatto, un contatto brusco e spaventato. Sentivo che la banda sarebbe diventata più feroce e volevo che ci ritirassimo. Ma non ci fu tempo. Enzo, malgrado la caviglia sanguinante, si riprese dallo stupore e lanciò la pietra che aveva in mano. Tenevo ancora stretta Lila quando la sassata la prese in fronte e me la strappò via. Un attimo dopo era distesa sul marciapiede con la testa rotta.
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4.
Sangue. In genere usciva dalle ferite solo dopo che ci si era scambiati maledizioni orribili e oscenità disgustose. Si seguiva sempre quella trafila.
Mio padre, che pure mi pareva un uomo buono, lanciava di continuo insulti e minacce se qualcuno, come diceva, non era degno di stare sulla faccia della terra. Ce l’aveva in particolare con don Achille. Aveva sempre qualcosa da rinfacciargli e a volte mi mettevo le mani sulle orecchie per non restare troppo impressionata dalle sue brutte parole. Quando ne parlava con mia madre lo chiamava “tuo cugino”, ma mia madre rinnegava subito quel legame di sangue (c’era una parentela molto alla lontana) e rincarava la dose degli insulti. Mi spaventavano le loro rabbie, e mi spaventava soprattutto che don Achille potesse avere orecchie così ricettive da percepire anche gli insulti detti da grande distanza. Temevo che venisse ad ammazzarli.
Il nemico giurato di don Achille, comunque, non era mio padre ma il signor Peluso, un falegname bravissimo sempre senza soldi in quanto si giocava tutto quello che guadagnava nel retrobottega del bar Solara. Peluso era padre di una nostra compagna di scuola, Carmela, di Pasquale, che era grande, e di altri due figli, bambini più miserabili di noi, con i quali in qualche caso io e Lila giocavamo e che a scuola e fuori cercavano sempre di rubarci le nostre cose, la penna, la gomma, la cotognata, tanto che tornavano a casa pieni di lividi per le botte che gli davamo.
Le volte che lo vedevamo, il signor Peluso ci pareva l’immagine della disperazione. Da un lato perdeva tutto al gioco e dall’altro si prendeva a schiaffi in pubblico perché non sapeva più come sfamare la famiglia. Per ragioni oscure attribuiva a don Achille la propria rovina. Gli addebitava il fatto che a tradimento s’era preso, come se il suo corpo tenebroso fosse fatto di calamita, tutti gli arnesi per il lavoro di falegname, cosa che aveva reso inutile la bottega. Gli rimproverava che s’era preso anche quella e l’aveva trasformata in salumeria. Per anni ho immaginato la pinza, la sega, la tenaglia, il martello, la morsa e mille e mille chiodi che venivano risucchiati in forma di sciame metallico dentro la materia che componeva don Achille.
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Per anni ho visto uscire dal suo corpo, grezzo e pesante di materie eterogenee, salami, provoloni, mortadelle, sugna e prosciutto, sempre in forma di sciame.
Fatti avvenuti in tempi bui. Don Achille doveva essersi manifestato in tutta la sua mostruosa natura prima che noi nascessimo. Prima. Lila usava spesso quella formula, a scuola e fuori. Ma pareva che non le importasse tanto ciò che era accaduto prima di noi – eventi in genere oscuri, su cui i grandi o tacevano o si pronunciavano con molta reticenza – quanto che ci fosse stato davvero un prima. Era questo che all’epoca la lasciava perplessa e anzi a volte la innervosiva. Quando diventammo amiche me ne parlò così tanto di quella cosa assurda – prima di noi – che finì per trasmettere il nervoso anche a me. Era il tempo lungo, lunghissimo, in cui non c’eravamo state; il tempo in cui don Achille s’era mostrato a tutti per ciò che era: un essere malvagio di incerta fisionomia animalminerale, che – pareva – levava il sangue agli altri mentre a lui non ne usciva mai, forse non era nemmeno possibile graffiarlo.
Eravamo in seconda elementare, forse, e non ci parlavamo ancora, quando si sparse la voce che proprio di fronte alla chiesa della Sacra Famiglia, all’uscita dalla messa, il signor Peluso aveva cominciato a strillare di rabbia contro don Achille, e don Achille aveva lasciato il figlio grande Stefano, Pinuccia, Alfonso che era nostro coetaneo, la moglie, e mostrandosi per un attimo nella sua forma più raccapricciante, s’era gettato addosso a Peluso, lo aveva sollevato, lo aveva lanciato contro un albero dei giardinetti e l’aveva abbandonato lì, tramortito, col sangue che gli usciva da cento ferite in testa e dappertutto, senza che il poveretto potesse anche solo dire: aiutatemi.
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5.
Non ho nostalgia della nostra infanzia, è piena di violenza. Ci succedeva di tutto, in casa e fuori, ogni giorno, ma non ricordo di aver mai pensato che la vita che c’era capitata fosse particolarmente brutta. La vita era così e basta, crescevamo con l’obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi. Certo, a me sarebbero piaciuti i modi gentili che predicavano la maestra e il parroco, ma sentivo che quei modi non erano adatti al nostro rione, anche se eri femmina. Le donne combattevano tra loro più degli uomini, si prendevano per i capelli, si facevano male. Far male era una malattia. Da bambina mi sono immaginata animali piccolissimi, quasi invisibili, che venivano di notte nel rione, uscivano dagli stagni, dalle carrozze in disuso dei treni oltre il terrapieno, dalle erbe puzzolenti dette fetienti, dalle rane, dalle salamandre, dalle mosche, dalle pietre, dalla polvere, ed entravano nell’acqua e nel cibo e nell’aria, rendendo le nostre mamme, le nonne, rabbiose come cagne assetate. Erano contaminate più degli uomini, perché i maschi diventavano furiosi di continuo ma alla fine si calmavano, mentre le femmine, che erano all’apparenza silenziose, accomodanti, quando si arrabbiavano andavano fino in fondo alle loro furie senza fermarsi più.
Lila fu molto segnata da quello che successe a Melina Cappuccio, una parente di sua madre. E anch’io. Melina abitava nella stessa palazzina dei miei genitori, noi al secondo piano, lei al terzo. Aveva poco più di trent’anni e sei figli, ma ci sembrava una vecchia. Il marito era della sua stessa età, scaricava cassette al mercato ortofrutticolo. Me lo ricordo basso e largo, ma bello, con una faccia fiera. Una notte uscì di casa come al solito e morì forse ammazzato, forse di stanchezza. Ci fu un funerale amarissimo a cui partecipò tutto il rione, anche i miei genitori, anche i genitori di Lila. Poi passò un po’
di tempo e chissà cosa successe a Melina. Di fuori restò la stessa, una donna secca con un grande naso, i capelli già grigi, la voce acuta che la sera chiamava i figli dalla finestra a uno a uno, per nome, con sillabe allungate da una disperazione rabbiosa: Aaa-daaa, Miii-chè. In principio fu molto aiutata
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