«Da due settimane».
«E mi telefoni adesso?».
Il tono gli dev’essere sembrato ostile, anche se non ero né arrabbiata né indignata, c’era solo un filo di sarcasmo. Ha provato a ribattere ma l’ha fatto confusamente, in imbarazzo, un po’ in dialetto, un po’ in italiano. Ha detto che s’era convinto che la madre fosse in giro per Napoli come al solito.
«Pure di notte?».
«Lo sai com’è fatta».
«Lo so, ma due settimane d’assenza ti sembrano normali?».
«Sì. Tu non la vedi da molto, è peggiorata: non ha mai sonno, entra, esce, fa quello che le pare».
Comunque alla fine si era preoccupato. Aveva chiesto a tutti, aveva fatto il giro degli ospedali, si era rivolto persino alla polizia. Niente, sua madre non era da nessuna parte. Che buon figlio: un uomo grosso, sui quarant’anni, mai lavorato in vita sua, solo traffici e sperperi. Mi sono immaginata con quanta cura avesse fatto le ricerche. Nessuna. Era senza cervello, e a cuore aveva soltanto se stesso.
«Non è che sta da te?» mi ha chiesto all’improvviso.
La madre? Qui a Torino? Conosceva bene la situazione e parlava solo per parlare. Lui sì che era un viaggiatore, era venuto a casa mia almeno una decina di volte, senza essere invitato. Sua madre, che invece avrei accolto volentieri, non era mai uscita da Napoli in tutta la sua vita. Gli ho risposto:
«No che non sta da me».
«Sei sicura?».
«Rino, per favore: t’ho detto che non c’è».
«E allora dov’è andata?».
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Ha cominciato a piangere e ho lasciato che mettesse in scena la sua disperazione, singhiozzi che partivano finti e continuavano veri. Quando ha finito gli ho detto:
«Per favore, una volta tanto comportati come vorrebbe lei: non la cercare».
«Ma che dici?».
«Dico quello che ho detto. È inutile. Impara a vivere da solo e non cercare più nemmeno me».
Ho riattaccato.
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2.
La madre di Rino si chiama Raffaella Cerullo, ma tutti l’hanno sempre chiamata Lina. Io no, non ho mai usato né il primo nome né il secondo. Da più di sessant’anni per me è Lila. Se la chiamassi Lina o Raffaella, così, all’improvviso, penserebbe che la nostra amicizia è finita.
Sono almeno tre decenni che mi dice di voler sparire senza lasciare traccia, e solo io so bene cosa vuole dire. Non ha mai avuto in mente una qualche fuga, un cambio di identità, il sogno di rifarsi una vita altrove. E non ha mai pensato al suicidio, disgustata com’è dall’idea che Rino abbia a che fare col suo corpo e sia costretto a occuparsene. Il suo proposito è stato sempre un altro: voleva volatilizzarsi; voleva disperdere ogni sua cellula; di lei non si doveva trovare più niente. E poiché la conosco bene, o almeno credo di conoscerla, do per scontato che abbia trovato il modo di non lasciare in questo mondo nemmeno un capello, da nessuna parte.
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3.
Sono passati i giorni. Ho guardato nella posta elettronica, in quella cartacea, ma senza speranza. Io ho scritto spessissimo a lei, lei non mi ha quasi mai risposto: questa è stata sempre la consuetudine. Preferiva il telefono o le lunghe notti di chiacchiere quando andavo a Napoli.
Ho aperto i miei cassetti, le scatole di metallo dove conservo cose di ogni genere. Poche. Ho buttato via tanta roba, in particolare ciò che la riguardava, e lei lo sa. Ho scoperto che non ho niente di suo, non un’immagine, non un biglietto, non un regalino. Mi sono sorpresa io stessa. Possibile che in tutti questi anni non mi abbia lasciato niente di sé, o, peggio, io non abbia voluto conservare alcunché di lei? Possibile.
Ho telefonato io a Rino, questa volta, l’ho fatto a malincuore. Non rispondeva né sul fisso né sul cellulare. Mi ha chiamato lui in serata, con comodo. Aveva la voce con cui cerca di stimolare un senso di pena.
«Ho visto che hai chiamato. Hai notizie?».
«No. E tu?».
«Nessuna».
M’ha detto cose sconclusionate. Voleva andare in tv, alla trasmissione che si occupa delle persone scomparse, fare un appello, chiedere perdono per tutto a sua mamma, supplicarla di tornare.
Sono stata a sentire pazientemente, poi gli ho chiesto: «Hai guardato nel suo armadio?».
«Per fare che?».
Naturalmente non gli era mai venuta in mente la cosa più ovvia.
«Va’ a guardare».
C’è andato e si è reso conto che non c’era niente, nemmeno uno dei vestiti di sua madre, né estivi né invernali, solo vecchie grucce. L’ho mandato in giro a frugare per casa. Sparite le scarpe. Spariti i pochi libri. Sparite tutte le foto. Spariti i filmini. Sparito il suo computer, anche i vecchi dischetti che si usavano una volta, tutto, ogni cosa della sua esperienza di strega elettronica che aveva cominciato a destreggiarsi coi calcolatori già sul finire degli anni
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Sessanta, all’epoca delle schede perforate. Rino era stupefatto. Gli ho detto: