"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » Italian Books » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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Lei si girò di scatto, si avvicinò piano voltandomi la schiena, allungò una mano con cautela, la staccò dal trabiccolo. Poi si girò. S’era messa la faccia dagli occhi di vetro sopra la sua e ora aveva un viso enorme, orbite tonde senza pupille, niente bocca, solo quella bazza nera che le ciondolava sul petto.

Sono attimi che mi sono rimasti bene impressi nella memoria. Non ne sono certa, ma mi dovette uscire dal petto un vero urlo di terrore, perché lei si affrettò a dire con una voce rimbombante che era solo una maschera, una maschera antigas: suo padre la chiamava così, ne aveva una identica nel ripostiglio di casa. Seguitai a tremare e mugolare di paura, cosa che

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evidentemente la convinse a strapparsela dal viso e a gettarla in un angolo, con un gran fracasso e molta polvere che si addensò tra le lingue di luce dei finestrini.

Mi calmai. Lila si guardò intorno, individuò l’apertura da dove avevamo fatto cadere Tina e Nu. Ci accostammo alla parete ruvida, grumosa, guardammo nell’ombra. Le bambole non c’erano. Lila ripeteva in dialetto: non ci stanno, non ci stanno, non ci stanno, e frugava per terra con le mani, cosa che io non avevo il coraggio di fare.

Passarono minuti lunghissimi. Una sola volta mi sembrò di vedere Tina e con un tuffo al cuore mi chinai a prenderla, ma era solo un vecchio foglio di giornale appallottolato. Non ci stanno, ripeté Lila e si allontanò verso l’uscita.

Allora mi sentii persa, incapace di restare lì da sola seguitando a cercare, incapace di andar via con lei se non avessi trovato la bambola.

In cima ai gradini disse:

«Se l’è pigliate don Achille, se l’è messe nella borsa nera».

E io in quello stesso momento lo sentii, don Achille: strisciava, si strusciava, tra le forme indistinte delle cose. Allora abbandonai Tina al suo destino, scappai per non perdere Lila che già si torceva agile, sgusciando oltre la porta sgangherata.

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11.

Credevo a tutto quello che lei mi diceva. M’è rimasta in mente la massa informe di don Achille che corre per cunicoli sotterranei a braccia pendule, trattenendo con le dita larghe da un lato la testa di Nu, dall’altro quella di Tina. Soffrii molto. Mi ammalai di febbri di crescenza, guarii, mi ammalai di nuovo. Fui presa da una sorta di disfunzione tattile, certe volte avevo l’impressione che, mentre ogni essere animato intorno accelerava i ritmi della sua vita, le superfici solide mi diventassero molli sotto le dita o si gonfiassero lasciando spazi vuoti tra la loro massa interna e la sfoglia di superficie. Mi sembrò che lo stesso mio corpo, a tastarlo, risultasse tumefatto e questo mi intristiva. Ero certa di avere guance a palloncino, mani riempite di segatura, lobi delle orecchie che parevano sorbe mature, piedi a forma di pagnotta.

Quando ritornai per le strade e a scuola, sentii che anche lo spazio era cambiato. Pareva incatenato tra due poli scuri, da un lato la bolla d’aria sotterranea che premeva alle radici delle case, la torva caverna dentro cui erano cadute le bambole; dall’altro il globo in alto, al quarto piano della palazzina dove abitava don Achille che ce le aveva rubate. Le due palle erano come avvitate alle estremità di una sbarra di ferro, che nella mia immaginazione attraversava obliquamente gli appartamenti, le strade, la campagna, il tunnel, i binari, e li compattava. Mi sentivo stretta dentro quella morsa insieme alla massa di cose e di persone d’ogni giorno, e avevo un sapore brutto in bocca, provavo un senso permanente di nausea che mi sfiniva, come se il tutto, così compresso, sempre più stretto, mi macinasse riducendomi a una crema ripugnante.

Fu un malessere resistente, forse durò anni, fin oltre la prima adolescenza.

Ma proprio quando era appena incominciato, insperatamente ebbi la mia prima dichiarazione d’amore.

Io e Lila non avevamo ancora provato a salire su da don Achille, il lutto per la perdita di Tina era ancora insopportabile. Ero andata svogliatamente a comprare il pane. Mi ci aveva mandato mia madre e stavo tornando a casa con il resto ben stretto in pugno per non perderlo e la palata ancora calda

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contro il petto, quando mi accorsi che dietro di me arrancava Nino Sarratore con il suo fratellino per mano. La madre, Lidia, nei giorni d’estate lo faceva uscire di casa sempre in compagnia di Pino, che all’epoca non aveva più di cinque anni, con l’obbligo di non lasciarlo mai. In prossimità di un angolo di strada, poco dopo la salumeria dei Carracci, Nino fece per superarmi, ma invece di passare oltre mi tagliò la strada, mi spinse contro il muro, appoggiò la mano libera alla parete come una sbarra che mi doveva impedire di scappare, e con l’altra si tirò accanto il fratello, testimone silenzioso della sua impresa. Disse tutto affannato qualcosa che non capii. Era pallido, prima sorrideva, poi diventava serio, poi tornava a sorridere. Alla fine scandì nell’italiano della scuola:

«Quando ci facciamo grandi ti voglio sposare».

Poi mi chiese se nel frattempo mi volevo fidanzare con lui. Era un po’ più alto di me, magrissimo, il collo lungo, le orecchie un po’ scostate dalla testa.

Aveva capelli ribelli, occhi intensi con ciglia lunghe. Era commovente lo sforzo che stava facendo per contenere la sua timidezza. Sebbene volessi sposarlo anch’io mi venne di rispondergli:

«No, non posso».

Lui restò a bocca aperta, Pino gli diede uno strattone. Scappai via.

Da quel momento cominciai a svicolare tutte le volte che lo vedevo.

Eppure mi sembrava bellissimo. Quante volte ero rimasta nei paraggi di sua sorella Marisa solo per avvicinarlo e fare insieme a loro la strada per tornare a casa. Ma evidentemente mi fece la dichiarazione in un momento sbagliato.

Non poteva sapere come mi sentivo sbandata, quanta angoscia mi dava la sparizione di Tina, come mi logorava lo sforzo di star dietro a Lila, fino a che punto mi toglieva il fiato lo spazio compresso del cortile, delle palazzine, del rione. Dopo molti lunghi sguardi spauriti che mi lanciava da lontano, anche lui cominciò a evitarmi. Per un po’ dovette temere che dicessi alle altre bambine, e innanzitutto a sua sorella, della proposta che mi aveva fatto. Si sapeva che Gigliola Spagnuolo, la figlia del pasticciere, si era comportata così quando Enzo le aveva chiesto di fidanzarsi. Ed Enzo lo aveva saputo e s’era arrabbiato, le aveva gridato sotto scuola che era una bugiarda, l’aveva anche minacciata di ammazzarla con un coltello. Fui tentata di raccontare ogni cosa anch’io, ma poi lasciai perdere, non lo dissi a nessuno, nemmeno a Lila quando diventammo amiche. Piano piano io stessa me ne dimenticai.

La cosa mi tornò in mente quando, qualche tempo dopo, l’intera famiglia Sarratore si trasferì. Una mattina comparvero nel cortile la carretta e il

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cavallo che appartenevano al marito di Assunta, Nicola: con quella stessa carretta e quello stesso cavallo vecchio vendeva insieme alla moglie la frutta e la verdura girando per le vie del rione. Nicola aveva una bella faccia larga e gli stessi occhi azzurri, gli stessi capelli biondi di suo figlio Enzo. Si occupava, oltre che di vendere frutta e verdura, anche di traslochi. E infatti lui, Donato Sarratore, Nino stesso e anche Lidia cominciarono a portar giù di tutto, carabattole d’ogni genere, materassi, mobili, e sistemarono ogni cosa sulla carretta.

Le donne, appena sentirono il rumore delle ruote nel cortile, si affacciarono alle finestre, anche mia madre, anch’io. C’era una gran curiosità. Pareva che Donato avesse avuto una casa nuova direttamente dalle Ferrovie dello stato, nei dintorni di una piazza che si chiamava piazza Nazionale. Oppure – disse mia madre – la moglie l’ha obbligato a traslocare per sfuggire alle persecuzioni di Melina, che le vuole togliere il marito. Probabile. Mia madre vedeva sempre il male dove con mio grande fastidio si scopriva presto o tardi che il male c’era davvero, e il suo occhio strabico pareva fatto apposta per individuare i movimenti segreti del rione. Come avrebbe reagito Melina? Era vero, come avevo sentito sussurrare, che aveva fatto un bambino con Sarratore e poi l’aveva ucciso? Ed era possibile che si sarebbe messa a urlare bruttissime cose, tra cui anche quella? Tutte, grandi e piccole, eravamo affacciate alla finestra, forse per salutare con la mano la famigliola che se ne andava, forse per assistere allo spettacolo della rabbia di quella donna brutta, secca e vedova. Vidi che anche Lila e sua madre Nunzia si sporgevano per vedere.

Cercai lo sguardo di Nino, ma lui sembrava avere altro da fare. Mi prese allora, come al solito senza un motivo preciso, uno sfinimento che rendeva debole ogni cosa intorno. Pensai che forse mi aveva fatto la dichiarazione perché sapeva già che se ne sarebbe andato e prima voleva dirmi ciò che sentiva per me. Lo guardai mentre s’affannava a trasportare cassette zeppe di cose e sentii la colpa, il dolore di avergli detto no. Ora se ne fuggiva come un uccellino.

Alla fine la processione di mobili e masserizie cessò. Nicola e Donato cominciarono a passarsi corde per fissare tutto sulla carretta. Lidia Sarratore comparve vestita come per andare a una festa, s’era messa anche un cappellino estivo, di paglia blu. Spingeva la carrozzella col figlio maschio piccolo e di lato aveva le due femmine, Marisa che aveva la mia età, otto-nove anni, e Clelia di sei. Si sentì all’improvviso un rumore di cose rotte al

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secondo piano. Quasi nello stesso momento Melina cominciò a gridare.

Erano grida di tale strazio che, vidi, Lila si mise le mani sulle orecchie.

Risuonò anche la voce addoloratissima di Ada, la seconda figlia di Melina, che gridava: mammà, no, mammà. Dopo un attimo d’incertezza mi tappai le orecchie anch’io. Ma intanto cominciarono a volare oggetti dalla finestra e fu tale la curiosità che mi liberai i timpani, come se avessi bisogno di suoni nitidi per capire. Melina però non gridava parole ma solo aaah, aaah, come se fosse ferita. Non la si vedeva, di lei non compariva nemmeno un braccio o una mano che lanciava le cose. Pentole di rame, bicchieri, bottiglie, piatti parevano volare dalla finestra per volontà propria e in strada Lidia Sarratore filava a testa china, la schiena curva sulla carrozzella, le figlie dietro, e Donato s’arrampicava sulla carretta tra le sue proprietà, e don Nicola tratteneva il cavallo per il morso e intanto le cose urtavano sull’asfalto, rimbalzavano, si spezzavano schizzando schegge tra le zampe nervose della bestia.

Cercai Lila con lo sguardo. Vidi adesso un’altra faccia, una faccia di smarrimento. Si dovette accorgere che la guardavo e sparì subito dalla finestra. La carretta intanto si mosse. Rasente il muro, senza un saluto per nessuno, sgusciarono verso il cancello anche Lidia e i quattro figli più piccoli, mentre Nino pareva senza voglia di andarsene, come ipnotizzato dallo spreco di oggetti fragili contro l’asfalto.

Per ultimo vidi volare dalla finestra una sorta di macchia nera. Era una ferro da stiro, ferro puro: il manico di ferro, la base di ferro. Quando ancora avevo Tina e giocavo in casa, usavo quello di mia madre, identico, con la forma a prua, fingendo che fosse una barca nella tempesta. L’oggetto venne giù in picchiata e fece un buco per terra con un tonfo secco, a pochi centimetri da Nino. Per poco – pochissimo – non lo uccise.

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