12.
Nessun bambino mai dichiarò a Lila il suo amore e lei non mi ha mai detto se ne soffrì. Gigliola Spagnuolo riceveva di continuo proposte di fidanzamento e anch’io ero molto richiesta. Lila invece non piaceva, innanzitutto perché era uno stecco, sporca e sempre con qualche ferita, ma anche perché aveva la lingua affilata, inventava soprannomi umilianti e pur sfoggiando con la maestra vocaboli della lingua italiana che nessuno conosceva, con noi parlava solo un dialetto sferzante, pieno di male parole, che stroncava sul nascere ogni sentimento d’amore. Solo Enzo fece una cosa che, se non era proprio una richiesta di fidanzamento, era comunque un segnale di ammirazione e di rispetto. Parecchio dopo che le aveva rotto la testa con la pietra e prima, mi pare, di essere respinto da Gigliola Spagnuolo, lui ci rincorse per lo stradone e, sotto i miei occhi increduli, tese a Lila un serto di sorbe.
«Che ci faccio?».
«Te le mangi».
«Acerbe?».
«Le fai maturare».
«Non le voglio».
«Buttale».
Tutto qui. Enzo girò le spalle e corse a lavorare. Io e Lila ci mettemmo a ridere. Parlavamo poco, ma per ogni cosa che ci capitava avevamo una risata.
Le dissi solo, con tono divertito: «A me piacciono, le sorbe».
In realtà mentivo, era un frutto che non amavo. Mi attraeva il colore rossogiallastro di quando erano acerbe, la loro compattezza che risplendeva nelle giornate di sole. Ma quando maturavano sui balconi e diventavano marroni e molli come piccole pere vizze, e la pelle si staccava facilmente mostrando una polpa granulosa non di cattivo sapore, ma disfatta in un modo che mi ricordava le carogne dei topi lungo lo stradone, allora nemmeno le toccavo. Dissi quella frase quasi per prova, sperando che Lila me le tendesse: tieni, prendile tu. Sentii che se mi avesse dato il dono che le aveva fatto Enzo
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sarei stata contenta più che se mi avesse dato una cosa sua. Ma non lo fece, e ricordo ancora l’impressione di tradimento quando se le portò a casa. Lei stessa piantò il chiodo alla finestra. La vidi mentre vi appendeva il serto.
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13.
Enzo non le fece mai più altri regali. Dopo la lite con Gigliola, che aveva detto a tutti della dichiarazione che lui le aveva fatto, lo vedemmo sempre meno. Pur essendosi mostrato bravissimo coi calcoli a mente era troppo svogliato, sicché il maestro non lo propose per l’esame d’ammissione alle medie e lui non se ne rammaricò, anzi ne fu contento. S’iscrisse alla scuola di avviamento al lavoro, ma di fatto già lavorava coi genitori. Si svegliava prestissimo per andare col padre al mercato ortofrutticolo o a girare con la carretta vendendo per il rione i prodotti della campagna, e quindi con la scuola presto chiuse.
A noi invece, quando stavamo per finire la quinta, fu comunicato che eravamo fatte per continuare a studiare. La maestra chiamò a turno i genitori miei, di Gigliola e di Lila per dir loro che assolutamente dovevamo sostenere, oltre che l’esame di licenza elementare, anche l’esame di ammissione alla scuola media. Io le studiai tutte per fare in modo che mio padre non mandasse dalla maestra mia madre, claudicante, con l’occhio ballerino e soprattutto sempre rabbiosa, ma ci venisse lui, che era usciere e sapeva usare modi cortesi. Non ce la feci. Andò lei, parlò con la maestra e tornò a casa molto cupa.
«La maestra vuole soldi. Dice che le deve fare delle lezioni in più perché l’esame è difficile».
«Ma a che serve questo esame?» chiese mio padre.
«A farle studiare il latino».
«E perché?».
«Perché hanno detto che è brava».
«Ma se è brava, perché la maestra le deve fare queste lezioni a pagamento?».
«Per stare meglio lei e peggio noi».
Discussero molto. All’inizio mia madre era contraria e mio padre incerto; poi mio padre diventò cautamente favorevole e mia madre si rassegnò a essere un po’ meno contraria; infine decisero di farmi fare l’esame, ma
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sempre col patto che se io non fossi stata bravissima mi avrebbero tolto subito dalla scuola.
A Lila invece i genitori dissero di no. Nunzia Cerullo fece qualche tentativo poco convinto, ma il padre non volle neanche discutere e anzi diede uno schiaffo a Rino che gli aveva detto che sbagliava. I genitori propendevano addirittura per non andare dalla maestra, che però li fece chiamare dal direttore, e allora Nunzia dovette andare per forza. Di fronte al timido ma netto rifiuto di quella donna spaurita, la Oliviero, arcigna ma calma, sfoderò i temi meravigliosi di Lila, le soluzioni brillanti di problemi ardui e persino i disegni coloratissimi che in classe, quando si applicava, ci incantavano tutte perché, rubacchiando pastelli Giotto, tratteggiava molto realisticamente principesse con pettinature, gioielli, vestiti, scarpe che non s’erano mai visti in nessun libro e nemmeno al cinema parrocchiale. Quando però il rifiuto fu confermato, la Oliviero perse la calma e trascinò dal direttore la madre di Lila come se fosse un’alunna indisciplinata. Ma Nunzia non poteva cedere, non aveva il permesso del marito. Di conseguenza ripeté no fino allo sfinimento suo, della maestra, del direttore.
Il giorno dopo, mentre andavamo a scuola, Lila mi disse col tono suo solito: tanto io l’esame lo faccio lo stesso. Le credetti, proibirle una cosa era inutile, lo sapevamo tutti. Sembrava la più forte di noi bambine, più forte di Enzo, di Alfonso, di Stefano, più forte di suo fratello Rino, più forte dei nostri genitori, più forte di tutti i grandi compresa la maestra e i carabinieri che ti potevano mettere in prigione. Sebbene fragile nell’aspetto, ogni divieto davanti a lei perdeva consistenza. Sapeva come passare il limite senza mai subirne veramente le conseguenze. Alla fine la gente cedeva e addirittura, per quanto a malincuore, era costretta a lodarla.
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14.
Anche andare da don Achille era proibito, ma lei decise di farlo ugualmente e io le andai dietro. Anzi, fu in quell’occasione che mi convinsi che niente potesse fermarla, e che anzi ogni sua disobbedienza avesse sbocchi che per la meraviglia toglievano il fiato.
Volevamo che don Achille ci restituisse le nostre bambole. Perciò andammo su per le scale, a ogni gradino ero sul punto di girare le spalle e tornare in cortile. Sento ancora la mano di Lila che afferra la mia, e mi piace pensare che si decise a farlo non solo perché intuì che non avrei avuto il coraggio di arrivare fino all’ultimo piano, ma anche perché lei stessa con quel gesto cercava la forza d’animo per continuare. Così, l’una accanto all’altra, io dalla parte del muro e lei dalla parte della ringhiera, le mani strette con i palmi sudati, facemmo le ultime rampe. Davanti alla porta di don Achille il cuore mi batteva fortissimo, me lo sentivo nelle orecchie, ma mi consolai pensando che fosse il rumore anche del cuore di Lila. Dall’appartamento arrivavano voci, forse di Alfonso o Stefano o Pinuccia. Lila, dopo una lunghissima sosta muta davanti alla porta, girò la chiavetta del campanello.
Ci fu silenzio, poi un ciabattare. Ci aprì la porta donna Maria, aveva una vestaglia verde stinto. Quando parlò, le vidi in bocca un dente d’oro molto brillante. Credette che cercassimo Alfonso, era un po’ stupita. Lila le disse in dialetto:
«No, vogliamo don Achille».
«Di’ a me».
«Dobbiamo parlare con lui».
La donna gridò:
«Achì».
Altro ciabattare. Comparve dalla penombra una figura tarchiata. Aveva il busto lungo, le gambe corte, le braccia che scendevano fino alle ginocchia e la sigaretta in bocca, si vedeva la brace. Chiese roco: «Chi è?».