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«E tu hai studiato?».

«No».

«Allora perché deve studiare tua sorella che è femmina?».

La cosa finiva quasi sempre con uno schiaffo in faccia a Rino, che in un modo o in un altro, anche senza volerlo, aveva mancato di rispetto al padre. Il ragazzo, senza piangere, chiedeva scusa con voce cattiva.

Lila taceva durante quelle discussioni. Non me l’ha mai detto, ma a me è rimasta l’impressione che mentre io odiavo mia madre, e la odiavo davvero, profondamente, lei malgrado tutto non ce l’avesse affatto con suo padre.

Diceva che era pieno di gentilezze, diceva che quando lui doveva fare i conti se li faceva fare da lei, diceva che l’aveva sentito dire agli amici che sua figlia

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era la persona più intelligente del rione, diceva che quand’era il suo onomastico le portava lui stesso la cioccolata calda a letto e quattro biscotti.

Ma c’era poco da fare, non rientrava nel suo modo di vedere che lei continuasse a studiare. E non rientrava nemmeno nelle sue possibilità economiche: la famiglia era numerosa, si vivacchiava tutti sulla botteguccia, anche due sorelle nubili di Fernando, anche i genitori di Nunzia. Perciò su quella cosa dello studio era come parlare al muro, e sua madre tutto sommato era della stessa opinione. Solo il fratello la pensava in modo diverso e si batteva coraggiosamente contro il padre. E Lila, per ragioni che non capivo, si mostrava convinta che Rino avrebbe vinto. Avrebbe ottenuto il suo salario e l’avrebbe mandata a scuola con i soldi suoi.

«Se bisogna pagare una tassa, me la paga lui» mi spiegava.

Era sicura che il fratello le avrebbe dato i soldi anche per i libri di scuola e persino per le penne, il portapenne, i pastelli, il mappamondo, il grembiule e il fiocco. Lo adorava. Mi disse che, dopo aver studiato, voleva guadagnare molti soldi al solo scopo di rendere suo fratello la persona più ricca del rione.

La ricchezza, in quell’ultimo anno delle elementari, diventò un nostro chiodo fisso. Ne parlavamo come nei romanzi si parla della ricerca di un tesoro. Dicevamo: quando diventeremo ricche faremo questo, faremo quello.

A sentirci, pareva che la ricchezza fosse nascosta in qualche posto del rione, dentro forzieri che una volta aperti mandavano bagliori, e aspettasse solo che noi la trovassimo. Poi, non so perché, le cose cambiarono e cominciammo ad associare lo studio ai soldi. Pensammo che studiare molto ci avrebbe fatto scrivere libri e che i libri ci avrebbero rese ricche. La ricchezza era sempre un luccicore di monete d’oro chiuse dentro innumerevoli casse, ma per arrivarci bastava studiare e scrivere un libro.

«Ne scriviamo uno insieme» disse Lila una volta e la cosa mi riempì di gioia.

Forse l’idea prese piede quando lei scoprì che l’autrice di Piccole donne aveva fatto così tanti soldi che aveva dato un po’ delle sue ricchezze alla famiglia. Ma non ci giurerei. Ne ragionammo, dissi che potevamo cominciare subito dopo l’esame di ammissione. Acconsentì, però non seppe resistere.

Mentre io avevo molto da studiare anche per via delle lezioni pomeridiane con Spagnuolo e la maestra, lei era più libera, si mise al lavoro e scrisse un romanzo senza di me.

Ci rimasi male quando me lo portò perché lo leggessi, ma non dissi niente, anzi trattenni la delusione e le feci molte feste. Erano una decina di fogli a

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quadretti, ripiegati e fermati con uno spillo da sarta. C’era una copertina disegnata coi pastelli, mi ricordo il titolo. Si chiamava La fata blu, e com’era appassionante, quante parole difficili c’erano. Le dissi di farlo leggere alla maestra. Non volle. La pregai, mi offrii di darglielo io. Poco convinta, fece cenno di sì.

Una volta che stavo a casa della Oliviero per la lezione, approfittai di quando Gigliola stava nel bagno per tirar fuori La fata blu. Dissi che era un romanzo bellissimo scritto da Lila e che Lila voleva farglielo leggere. Ma la maestra, che negli ultimi cinque anni era stata sempre entusiasta di tutto ciò che faceva Lila a parte le cattiverie, replicò freddamente:

«Di’ a Cerullo che farebbe bene a studiare per la licenza, invece di perdere tempo». E pur tenendosi il romanzo di Lila, lo lasciò sul tavolo senza dargli nemmeno uno sguardo.

Quell’atteggiamento mi disorientò. Cosa era successo? S’era arrabbiata con la madre di Lila? Aveva esteso l’arrabbiatura a Lila stessa? Era dispiaciuta per i soldi che i genitori della mia amica non avevano voluto darle? Non capii. Qualche giorno dopo cautamente le chiesi se aveva letto La fata blu. Mi rispose con un tono insolito, oscuramente, come se solo io e lei ci potessimo veramente capire.

«Lo sai cos’è la plebe, Greco?».

«Sì: la plebe, i tribuni della plebe, i Gracchi».

«La plebe è una cosa assai brutta».

«Sì».

«E se uno vuole restare plebe, lui, i suoi figli, i figli dei suoi figli, non si merita niente. Lascia perdere Cerullo e pensa a te».

La maestra Oliviero non disse mai niente sulla Fata blu. Lila mi chiese notizie un paio di volte, poi lasciò perdere. Disse cupa:

«Appena ho tempo ne scrivo un altro, quello non era buono».

«Era bellissimo».

«Faceva schifo».

Ma diventò meno vivace, specialmente in classe, probabilmente perché si accorse che la Oliviero non la lodava più, anzi certe volte si mostrava infastidita dai suoi eccessi di bravura. Quando ci fu la gara di fine anno risultò comunque la migliore, ma senza la sfrontatezza di una volta. A conclusione della giornata, il direttore sottopose a chi era rimasto in gara – in effetti a Lila, a Gigliola e a me – un problema difficilissimo che aveva inventato lui in persona. Gigliola e io ci affaticammo senza risultato. Lila

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ridusse come al solito i suoi occhi a due fessure, ci si applicò. Fu l’ultima a capitolare. Disse con un tono timido, inusuale per lei, che il problema non si poteva risolvere perché c’era qualcosa di sbagliato nel testo, ma non sapeva cosa. Apriti cielo, la Oliviero le fece una grandissima lavata di testa. Vedevo Lila esile, alla lavagna, col gesso in mano, molto pallida, e investita da raffiche di frasi cattive. Ne sentivo la sofferenza, non riuscivo a sopportare il tremolio del suo labbro inferiore e fui quasi per scoppiare in lacrime.

«Quando non si sa risolvere un problema» concluse la Oliviero gelida,

«non si dice: il problema è sbagliato, si dice: io non sono capace di risolverlo».

Il direttore restò in silenzio. Per quel che ricordo, la giornata finì lì.

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16.

Poco prima dell’esame di licenza elementare Lila mi spinse a fare un’altra delle tante cose che da sola non avrei mai avuto il coraggio di fare.

Decidemmo di non andare a scuola e passammo i confini del rione.

Non era mai successo. Da quando avevo memoria non mi ero mai allontanata dalle palazzine bianche a quattro piani, dal cortile, dalla parrocchia, dai giardinetti, né avevo mai sentito la spinta a farlo. Passavano treni di continuo oltre la campagna, passavano auto e camion su e giù per lo stradone, eppure non riesco a ricordare nemmeno un’occasione in cui chiedo a me stessa, a mio padre, alla maestra: dove vanno le auto, i camion, i treni, in quale città, in quale mondo?

Anche Lila non s’era mai mostrata particolarmente interessata, però quella volta organizzò ogni cosa. Mi disse di raccontare a mia madre che dopo la scuola saremmo andate tutte a casa della maestra per una festa di fine anno scolastico, e sebbene io cercassi di ricordarle che le maestre non avevano mai invitato tutte noi bambine a casa loro per far festa, lei disse che proprio per questo dovevamo dire così. L’avvenimento sarebbe sembrato tanto eccezionale che nessuno dei nostri genitori avrebbe avuto la faccia tosta di andare a chiedere a scuola se era vero o no. Mi fidai come al solito, e andò proprio come aveva detto lei. A casa mia ci credettero tutti, non solo mio padre e i miei fratelli, ma anche mia madre.

La notte precedente non riuscii a dormire. Cosa c’era oltre il rione, oltre il suo perimetro stranoto? Alle nostre spalle si levavano una collinetta fittamente alberata e qualche rara costruzione a ridosso di binari luccicanti.

Davanti a noi, oltre lo stradone, s’allungava una via tutta buche che costeggiava gli stagni. A destra, uscendo dal cancello, si distendeva il filo di una campagna senza alberi sotto un cielo enorme. A sinistra c’era un tunnel a tre bocche, ma se ci si arrampicava su fino ai binari della ferrovia, nelle belle giornate si vedeva, al di là di certe case basse e muri di tufo e una fitta vegetazione, una montagna celeste con una vetta più bassa e una un po’ più alta, che si chiamava Vesuvio ed era un vulcano.

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Ma niente di ciò che avevamo sotto gli occhi tutti i giorni, o che si poteva vedere inerpicandosi su per la collina, ci impressionava. Abituate dai libri di scuola a parlare con molta competenza di ciò che non avevamo mai visto, era l’invisibile che ci eccitava. Lila diceva che, proprio nella direzione del Vesuvio, c’era il mare. Rino, che c’era andato, le aveva raccontato che era acqua azzurra, sbrilluccicante, uno spettacolo bellissimo. La domenica, specialmente d’estate, ma spesso anche d’inverno, lui correva con gli amici a farci il bagno, e le aveva promesso di portarcela. Non era il solo, naturalmente, ad aver visto il mare, l’avevano visto anche altri che conoscevamo. Una volta ce ne avevano parlato Nino Sarratore e sua sorella Marisa, con il tono di chi trovava normale che ci si andasse ogni tanto a mangiare i taralli e i frutti di mare. Anche Gigliola Spagnuolo c’era stata. Lei, Nino, Marisa avevano, per loro fortuna, genitori che portavano i figli a fare passeggiate molto lontano, non solo quattro passi ai giardinetti davanti alla parrocchia. I nostri non erano così, mancava il tempo, mancavano i soldi, mancava la voglia. Era vero che mi pareva di avere del mare una vaga memoria azzurrina, mia madre sosteneva di avermici portata da piccola, quando doveva fare le sabbiature alla gamba offesa. Ma a mia madre credevo poco e con Lila, che non ne sapeva niente, ammettevo di non saperne niente nemmeno io. Così lei progettò di fare come Rino, mettersi in cammino e andarci da sola. Mi convinse ad accompagnarla. Domani.

Mi alzai presto, feci tutto come se dovessi andare a scuola, la zuppa di pane nel latte caldo, la cartella, il grembiule. Aspettai come al solito Lila davanti al cancello, solo che, invece di prendere a destra, attraversammo lo stradone e andammo a sinistra, verso il tunnel.

Era mattina presto e faceva già caldo. C’era un odore forte di terra ed erba che si asciugavano al sole. Salimmo tra arbusti alti, per sentieri incerti che andavano verso i binari. Arrivate a un pilone dell’elettricità ci togliemmo i grembiuli e li mettemmo nelle cartelle, che nascondemmo tra i cespugli.

Quindi filammo per la campagna, la conoscevamo benissimo e volammo eccitatissime per una china che ci portò a ridosso del tunnel. La bocca di destra era nerissima, non ci eravamo mai infilate dentro quell’oscurità. Ci prendemmo per mano e andammo. Era un passaggio lungo, il cerchio luminoso dell’uscita pareva lontano. Una volta abituate alla penombra vedemmo, stordite dal rimbombo dei passi, le righe d’acqua argentata che scivolavano lungo le pareti, le grandi pozzanghere. Procedemmo tesissime.

Are sens