«Faceva schifo».
Ma diventò meno vivace, specialmente in classe, probabilmente perché si accorse che la Oliviero non la lodava più, anzi certe volte si mostrava infastidita dai suoi eccessi di bravura. Quando ci fu la gara di fine anno risultò comunque la migliore, ma senza la sfrontatezza di una volta. A conclusione della giornata, il direttore sottopose a chi era rimasto in gara – in effetti a Lila, a Gigliola e a me – un problema difficilissimo che aveva inventato lui in persona. Gigliola e io ci affaticammo senza risultato. Lila
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ridusse come al solito i suoi occhi a due fessure, ci si applicò. Fu l’ultima a capitolare. Disse con un tono timido, inusuale per lei, che il problema non si poteva risolvere perché c’era qualcosa di sbagliato nel testo, ma non sapeva cosa. Apriti cielo, la Oliviero le fece una grandissima lavata di testa. Vedevo Lila esile, alla lavagna, col gesso in mano, molto pallida, e investita da raffiche di frasi cattive. Ne sentivo la sofferenza, non riuscivo a sopportare il tremolio del suo labbro inferiore e fui quasi per scoppiare in lacrime.
«Quando non si sa risolvere un problema» concluse la Oliviero gelida,
«non si dice: il problema è sbagliato, si dice: io non sono capace di risolverlo».
Il direttore restò in silenzio. Per quel che ricordo, la giornata finì lì.
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16.
Poco prima dell’esame di licenza elementare Lila mi spinse a fare un’altra delle tante cose che da sola non avrei mai avuto il coraggio di fare.
Decidemmo di non andare a scuola e passammo i confini del rione.
Non era mai successo. Da quando avevo memoria non mi ero mai allontanata dalle palazzine bianche a quattro piani, dal cortile, dalla parrocchia, dai giardinetti, né avevo mai sentito la spinta a farlo. Passavano treni di continuo oltre la campagna, passavano auto e camion su e giù per lo stradone, eppure non riesco a ricordare nemmeno un’occasione in cui chiedo a me stessa, a mio padre, alla maestra: dove vanno le auto, i camion, i treni, in quale città, in quale mondo?
Anche Lila non s’era mai mostrata particolarmente interessata, però quella volta organizzò ogni cosa. Mi disse di raccontare a mia madre che dopo la scuola saremmo andate tutte a casa della maestra per una festa di fine anno scolastico, e sebbene io cercassi di ricordarle che le maestre non avevano mai invitato tutte noi bambine a casa loro per far festa, lei disse che proprio per questo dovevamo dire così. L’avvenimento sarebbe sembrato tanto eccezionale che nessuno dei nostri genitori avrebbe avuto la faccia tosta di andare a chiedere a scuola se era vero o no. Mi fidai come al solito, e andò proprio come aveva detto lei. A casa mia ci credettero tutti, non solo mio padre e i miei fratelli, ma anche mia madre.
La notte precedente non riuscii a dormire. Cosa c’era oltre il rione, oltre il suo perimetro stranoto? Alle nostre spalle si levavano una collinetta fittamente alberata e qualche rara costruzione a ridosso di binari luccicanti.
Davanti a noi, oltre lo stradone, s’allungava una via tutta buche che costeggiava gli stagni. A destra, uscendo dal cancello, si distendeva il filo di una campagna senza alberi sotto un cielo enorme. A sinistra c’era un tunnel a tre bocche, ma se ci si arrampicava su fino ai binari della ferrovia, nelle belle giornate si vedeva, al di là di certe case basse e muri di tufo e una fitta vegetazione, una montagna celeste con una vetta più bassa e una un po’ più alta, che si chiamava Vesuvio ed era un vulcano.
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Ma niente di ciò che avevamo sotto gli occhi tutti i giorni, o che si poteva vedere inerpicandosi su per la collina, ci impressionava. Abituate dai libri di scuola a parlare con molta competenza di ciò che non avevamo mai visto, era l’invisibile che ci eccitava. Lila diceva che, proprio nella direzione del Vesuvio, c’era il mare. Rino, che c’era andato, le aveva raccontato che era acqua azzurra, sbrilluccicante, uno spettacolo bellissimo. La domenica, specialmente d’estate, ma spesso anche d’inverno, lui correva con gli amici a farci il bagno, e le aveva promesso di portarcela. Non era il solo, naturalmente, ad aver visto il mare, l’avevano visto anche altri che conoscevamo. Una volta ce ne avevano parlato Nino Sarratore e sua sorella Marisa, con il tono di chi trovava normale che ci si andasse ogni tanto a mangiare i taralli e i frutti di mare. Anche Gigliola Spagnuolo c’era stata. Lei, Nino, Marisa avevano, per loro fortuna, genitori che portavano i figli a fare passeggiate molto lontano, non solo quattro passi ai giardinetti davanti alla parrocchia. I nostri non erano così, mancava il tempo, mancavano i soldi, mancava la voglia. Era vero che mi pareva di avere del mare una vaga memoria azzurrina, mia madre sosteneva di avermici portata da piccola, quando doveva fare le sabbiature alla gamba offesa. Ma a mia madre credevo poco e con Lila, che non ne sapeva niente, ammettevo di non saperne niente nemmeno io. Così lei progettò di fare come Rino, mettersi in cammino e andarci da sola. Mi convinse ad accompagnarla. Domani.
Mi alzai presto, feci tutto come se dovessi andare a scuola, la zuppa di pane nel latte caldo, la cartella, il grembiule. Aspettai come al solito Lila davanti al cancello, solo che, invece di prendere a destra, attraversammo lo stradone e andammo a sinistra, verso il tunnel.
Era mattina presto e faceva già caldo. C’era un odore forte di terra ed erba che si asciugavano al sole. Salimmo tra arbusti alti, per sentieri incerti che andavano verso i binari. Arrivate a un pilone dell’elettricità ci togliemmo i grembiuli e li mettemmo nelle cartelle, che nascondemmo tra i cespugli.
Quindi filammo per la campagna, la conoscevamo benissimo e volammo eccitatissime per una china che ci portò a ridosso del tunnel. La bocca di destra era nerissima, non ci eravamo mai infilate dentro quell’oscurità. Ci prendemmo per mano e andammo. Era un passaggio lungo, il cerchio luminoso dell’uscita pareva lontano. Una volta abituate alla penombra vedemmo, stordite dal rimbombo dei passi, le righe d’acqua argentata che scivolavano lungo le pareti, le grandi pozzanghere. Procedemmo tesissime.
Poi Lila lanciò un grido e rise per come il suono esplodeva violento. Subito
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dopo gridai io e risi a mia volta. Da quel momento non facemmo che gridare, insieme e separatamente: risate e grida, grida e risate, per il piacere di sentirle amplificate. La tensione si allentò, cominciò il viaggio.
Avevamo davanti a noi tante ore in cui nessuno dei nostri familiari ci avrebbe cercato. Quando penso al piacere di essere liberi, penso all’inizio di quella giornata, a quando uscimmo dal tunnel e ci trovammo su una strada tutta dritta a perdita d’occhio, la strada che, secondo ciò che aveva detto Rino a Lila, a farla tutta si arrivava al mare. Mi sentii esposta all’ignoto con gioia.
Niente di paragonabile alla discesa negli scantinati o all’ascesa fino alla casa di don Achille. C’era un sole nebuloso, un forte odore di bruciato.
Camminammo a lungo tra muri crollati invasi dalle erbacce, edifici bassi da cui venivano voci in dialetto, a volte un clangore. Vedemmo un cavallo che calava cautamente giù da un terrapieno e attraversava la strada nitrendo.
Vedemmo una donna giovane, affacciata a un balconcino, che si pettinava col pettine stretto per i pidocchi. Vedemmo molti bambini mocciolosi che smisero di giocare e ci guardarono minacciosamente. Vedemmo anche un uomo grasso in canottiera che sbucò da una casa diroccata, si aprì i calzoni e ci mostrò il suo pene. Ma non ci spaventammo di niente: don Nicola, il padre di Enzo, a volte ci faceva accarezzare il suo cavallo, i bambini erano minacciosi anche nel nostro cortile e c’era il vecchio don Mimì che ci mostrava il suo coso schifoso tutte le volte che tornavamo da scuola. Per almeno tre ore di cammino lo stradone che stavamo percorrendo non ci sembrò diverso dal segmento su cui ci affacciavamo ogni giorno. E non sentii mai la responsabilità della via giusta. Ci tenevamo per mano, avanzavamo fianco a fianco, ma per me, secondo il solito, era come se Lila fosse dieci passi più avanti e sapesse di preciso cosa fare, dove andare. Ero abituata a sentirmi la seconda in tutto e perciò ero sicura che a lei, che da sempre era la prima, fosse tutto chiaro: l’andatura, il computo del tempo a disposizione per andare e tornare, il percorso per arrivare al mare. La sentivo come se avesse tutto ordinato nella testa in modo tale che il mondo intorno non sarebbe riuscito mai a mettere disordine. Mi abbandonai con allegria. Ricordo una luce soffusa che pareva venire non dal cielo ma dalla profondità della terra, la quale però, a vederla in superficie, era povera, laida.
Poi cominciammo a essere stanche, ad aver sete e fame. A quello non avevamo pensato. Lila rallentò, rallentai anch’io. La sorpresi due o tre volte mentre mi guardava come se si fosse pentita di farmi una cattiveria. Cosa stava succedendo? Mi accorsi che si girava spesso indietro e presi a girarmi
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anch’io. La sua mano cominciò a sudare. Da tempo alle spalle non avevamo più il tunnel, che era il confine col rione. La strada già percorsa ci era ormai poco familiare, come quella che continuava ad aprirsi davanti a noi. La gente pareva del tutto indifferente alla nostra sorte. E intanto ci cresceva intorno un paesaggio d’abbandono: bidoni ammaccati, legna bruciacchiata, carcasse d’auto, ruote di carretta coi raggi spezzati, mobili semidistrutti, ferraglia rugginosa. Perché Lila guardava indietro? Perché aveva smesso di parlare?
Cosa c’era che non andava?
Guardai meglio. Il cielo, che all’inizio era molto alto, si era come abbassato. Alle nostre spalle stava diventando tutto nero, c’erano nuvole grosse, pesanti, che poggiavano sopra gli alberi, i pali della luce. Davanti a noi, invece, la luce era ancora abbagliante, ma come incalzata ai lati da un grigiore violaceo che tendeva a soffocarla. Si sentirono tuoni lontani. Ebbi paura, ma ciò che mi spaventò di più fu l’espressione di Lila, per me nuova.
Aveva la bocca aperta, gli occhi spalancati, guardava nervosamente avanti, indietro, di lato, e mi stringeva la mano molto forte. Possibile, mi chiesi, che abbia paura? Cosa le sta succedendo?
Arrivarono i primi goccioloni, colpirono la polvere della strada lasciando piccole macchie marrone.
«Torniamo» disse Lila.
«E il mare?».
«È troppo lontano».
«E casa?».
«Anche».
«Allora andiamo al mare».