«No».
«Perché?».
La vidi agitata come non l’avevo mai vista. C’era qualcosa – qualcosa che aveva sulla punta della lingua ma non si decideva a dirmi – che all’improvviso le imponeva di trascinarmi in fretta a casa. Non capivo: perché non proseguivamo? C’era tempo, il mare non doveva essere distante, e che tornassimo a casa o seguitassimo ad andare avanti, ci saremmo bagnate lo stesso, se fosse venuta la pioggia. Era uno schema di ragionamento che avevo appreso da lei e mi stupivo che non lo applicasse.
Una luce violacea spaccò il cielo nero, tuonò più forte. Lila mi diede uno strattone, mi ritrovai poco convinta a correre nella direzione del rione. Si levò il vento, i goccioloni diventarono più fitti, nel giro di pochi secondi si
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trasformarono in una cascata d’acqua. A nessuna di noi venne in mente di cercarci un riparo. Corremmo accecate dalla pioggia, gli abiti subito zuppi, i piedi nudi dentro sandali consunti che facevano poca presa sul terreno ormai fangoso. Corremmo finché avemmo fiato.
Poi non ce la facemmo più, rallentammo. Lampi, tuoni, una lava d’acqua piovana correva ai bordi dello stradone, camion rumorosissimi passavano veloci sollevando ondate di fanghiglia. Facemmo la strada a passo svelto, il cuore in tumulto, prima sotto grandi rovesci, poi sotto una pioggia sottile, infine sotto un cielo grigio. Eravamo zuppe, i capelli incollati al cranio, le labbra livide, gli occhi spaventati. Riattraversammo il tunnel, andammo su per la campagna. Gli arbusti carichi di pioggia ci sfioravano facendoci rabbrividire. Ritrovammo le cartelle, mettemmo sugli abiti bagnati i grembiuli asciutti, ci avviammo verso casa. Tesa, gli occhi sempre bassi, Lila non mi diede più la mano.
Capimmo presto che niente era andato come avevamo previsto. Il cielo s’era fatto nero sopra il rione in concomitanza con l’uscita da scuola. Mia madre era andata sotto scuola con l’ombrello per accompagnarmi alla festa dalla maestra. Aveva scoperto che non c’ero, che non c’era nessuna festa. Da ore mi stava cercando. Quando vidi da lontano la sua figura penosamente claudicante lasciai subito Lila perché non se la prendesse con lei e le corsi incontro. Non mi fece nemmeno parlare. Mi colpì a schiaffi e anche con l’ombrello, urlando che m’avrebbe ucciso se avessi fatto ancora una cosa del genere.
Lila se la batté, a casa sua nessuno si era accorto di niente.
In serata mia madre riferì tutto a mio padre e lo obbligò a picchiarmi. Lui si innervosì, di fatto non voleva, finirono col litigare. Prima le tirò uno schiaffo, poi, arrabbiato con se stesso, me le diede di santa ragione. Per tutta la notte cercai di capire cosa fosse realmente successo. Dovevamo andare al mare e non ci eravamo andate, le avevo buscate per niente. Si era verificata una misteriosa inversione di atteggiamenti: io, malgrado la pioggia, avrei continuato il cammino, mi sentivo lontana da tutto e da tutti, e la lontananza –
avevo scoperto per la prima volta – mi estingueva dentro ogni legame e ogni preoccupazione; Lila s’era bruscamente pentita del suo stesso piano, aveva rinunciato al mare, era voluta tornare dentro i confini del rione. Non mi ci raccapezzavo.
Il giorno dopo non l’aspettai al cancello, andai sola a scuola. Ci vedemmo ai giardinetti, lei mi scoprì i lividi sulle braccia e mi chiese cos’era successo.
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Feci spallucce, ormai era andata così.
«T’hanno solo picchiata?».
« E cosa mi dovevano fare?».
«Ti mandano ancora a studiare il latino?».
La guardai perplessa.
Era possibile? Mi aveva trascinata con sé augurandosi che i miei genitori per punizione non mi mandassero più alla scuola media? O mi aveva riportata indietro in fretta e furia proprio per evitarmi quella punizione? O – mi chiedo oggi – aveva voluto in momenti diversi tutt’e due le cose?
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17.
Facemmo insieme l’esame di licenza elementare. Quando si rese conto che avrei dato anche quello di ammissione, perse energia. Accadde così una cosa che sorprese tutti: io superai entrambi gli esami con tutti dieci; Lila prese la licenza con tutti nove e otto in aritmetica.
Non mi disse nemmeno una parola di rabbia o di scontento. Cominciò invece a fare comunella con Carmela Peluso, la figlia del falegname-giocatore, come se non le bastassi più. Nel giro di pochi giorni diventammo un trio, nel quale però io, che ero risultata la prima a scuola, tendevo a essere quasi sempre terza. Parlavano e scherzavano di continuo tra loro o, per meglio dire, Lila parlava e scherzava, Carmela ascoltava e si divertiva.
Quando uscivamo a passeggio tra la parrocchia e lo stradone, Lila stava sempre al centro e noi due ai lati. Se mi accorgevo che lei tendeva ad accostarsi di più a Carmela, ne soffrivo e mi veniva voglia di tornarmene a casa.
In quell’ultima fase era come stordita, sembrava vittima di un colpo di sole. Faceva già molto caldo e ci bagnavamo spesso la testa alla fontanella.
Me la ricordo coi capelli e la faccia sgocciolante che voleva parlare di continuo di quando saremmo andate a scuola l’anno seguente. Era diventato il suo argomento preferito e lo affrontava come se fosse uno dei racconti che aveva intenzione di scrivere per diventare ricca. Quando parlava, adesso, di preferenza si rivolgeva a Carmela Peluso, che aveva preso la licenza con tutti sette e nemmeno lei aveva fatto l’esame di ammissione.
Lila era molto abile a raccontare, sembrava tutto vero, la scuola dove saremmo andate, i professori, e mi faceva ridere, mi faceva preoccupare. Una mattina però la interruppi.
«Lila» le dissi, «tu non puoi andare alla scuola media, non hai fatto l’esame di ammissione. Né tu né Peluso ci potete andare».
Si arrabbiò. Disse che ci sarebbe andata ugualmente, esame o non esame.
«Anche Carmela?».
«Anche».
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«Non è possibile».
«E poi vedrai».
Ma quelle mie parole dovettero darle uno scrollone forte. Da allora smise coi racconti sul nostro futuro scolastico e ridiventò silenziosa. Poi, con una repentina determinazione, si mise a tormentare tutti i suoi familiari gridando che voleva studiare il latino come l’avremmo studiato io e Gigliola Spagnuolo. Se la prese soprattutto con Rino, che aveva promesso di aiutarla ma non l’aveva fatto. Era inutile spiegarle che ormai non c’era più niente da fare, diventava ancora più irragionevole e più cattiva.
All’inizio dell’estate mi cominciò un sentimento difficile da ordinare in parole. La vedevo nervosa, aggressiva com’era sempre stata, ed ero contenta, la riconoscevo. Ma sentivo anche, dietro i suoi vecchi modi, una pena che mi infastidiva. Soffriva, e il suo dolore non mi piaceva. La preferivo quand’era diversa da me, molto lontana dalle mie ansie. E il disagio che mi dava scoprirla fragile si mutava per vie segrete in un bisogno mio di superiorità.
Appena potevo, cautamente, in specie quando con noi c’era Carmela Peluso, trovavo il modo di ricordarle che avevo preso una pagella migliore della sua.
Appena potevo, cautamente, le segnalavo che io sarei andata alla scuola media e lei no. Smettere di essere seconda, superarla, per la prima volta mi sembrò un successo. Dovette accorgersene e diventò ancora più aspra, ma non con me, con i suoi familiari.
Spesso, mentre aspettavo che venisse giù in cortile, sentivo i suoi strilli che arrivavano dalle finestre. Lanciava insulti nel dialetto peggiore della strada, così grevi che a sentirli mi venivano pensieri d’ordine e di rispetto, non mi pareva giusto che trattasse i grandi a quel modo, anche suo fratello. Certo, il padre, Fernando lo scarparo, quando gli prendevano i cinque minuti diventava cattivo. Ma a tutti i padri venivano le furie. Tanto più che il suo, quando lei non lo provocava, era un uomo gentile, simpatico, gran lavoratore.
Assomigliava di faccia a un attore che si chiamava Randolph Scott, ma senza alcuna finezza. Era più grezzo, niente colori chiari, aveva una barbaccia nera che gli cresceva fin sotto gli occhi e certe mani larghe e corte solcate di sporco a ogni piega e sotto le unghie. Scherzava volentieri. Le volte che andavo a casa di Lila mi prendeva il naso tra indice e medio e fingeva di staccarmelo. Voleva farmi credere che me l’avesse rubato e che ora il naso gli si agitasse prigioniero tra le dita con l’intenzione di scappare e tornarmi in faccia. Questo lo trovavo divertente. Ma se Rino o Lila o gli altri figli lo facevano arrabbiare, a sentirlo dalla strada mi spaventavo anch’io.