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Esaminammo tutte le possibili conseguenze di quella passione finché le scuole non riaprirono e io non ebbi più tempo per starla a sentire.

Che storia. Nemmeno Lila, forse, avrebbe saputo costruire un racconto

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così.

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3.

Cominciò un periodo di malessere. Ingrassai, in petto mi spuntarono sotto la pelle due polloni durissimi, fiorirono i peli dalle ascelle e sul pube, diventai triste e insieme nervosa. A scuola feci più fatica degli anni precedenti, gli esercizi di matematica non davano quasi mai il risultato previsto dal libro di testo, le frasi di latino mi parevano senza capo né coda. Appena potevo mi chiudevo nel cesso e mi guardavo allo specchio, nuda. Non sapevo più chi ero. Cominciai a sospettare che sarei cambiata sempre più, fino a che da me sarebbe spuntata davvero mia madre, zoppa, con l’occhio storto, e nessuno mi avrebbe più voluto bene. Piangevo spesso, all’improvviso. Il petto, intanto, da duro che era diventò più grosso e più morbido. Mi sentii in balìa di forze oscure che agivano dal di dentro del mio corpo, ero sempre in ansia.

Una mattina, all’uscita di scuola, Gino, il figlio del farmacista, mi inseguì per strada e mi disse che secondo i suoi compagni i miei seni non erano veri, che mi ci mettevo l’ovatta. Parlava e rideva. Disse anche che lui invece pensava che fossero veri, ci aveva scommesso sopra venti lire. Disse infine che, nel caso avesse vinto, dieci lire se le sarebbe tenute lui e dieci le avrebbe date a me, ma gli dovevo dimostrare che non avevo l’ovatta.

Quella richiesta mi fece molta paura. Poiché non sapevo come comportarmi, ricorsi consapevolmente al tono sfrontato di Lila:

«Dammi le dieci lire».

«Perché, ho ragione io?».

«Sì».

Scappò via, io me ne andai delusa. Ma poco dopo mi raggiunse in compagnia di un tale della sua classe, uno magrissimo di cui non ricordo il nome, con una peluria scura sul labbro. Gino mi disse:

«Dev’essere presente anche lui, se no gli altri non ci credono che ho vinto».

Ricorsi ancora al tono di Lila:

«Prima i soldi».

«E se hai l’ovatta?».

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«Non ce l’ho».

Mi diede dieci lire e salimmo tutt’e tre, in silenzio, fino all’ultimo piano di una palazzina che stava a pochi metri dai giardinetti. Lì, accanto alla porticina di ferro che dava sul terrazzo, disegnata in modo netto da sottili segmenti di luce, sollevai la maglietta e mostrai i seni. I due restarono fermi a guardare come se non credessero a ciò che avevano sotto gli occhi. Poi si girarono e scapparono giù per le scale.

Tirai un sospiro di sollievo e andai al bar Solara a comprarmi un gelato.

Quell’episodio mi è rimasto impresso nella memoria: sperimentai per la prima volta la forza di calamita che il mio corpo esercitava sui maschi, ma soprattutto mi resi conto che Lila agiva non solo su Carmela ma anche su di me come un fantasma esigente. Se in una circostanza come quella avessi dovuto prendere una decisione nel puro disordine delle emozioni, cosa avrei fatto? Sarei scappata via. E se mi fossi trovata in compagnia di Lila? L’avrei tirata per un braccio, le avrei sussurrato: andiamo via, e poi come al solito sarei rimasta, solo perché lei, come al solito, avrebbe deciso di restare.

Invece, in sua assenza, dopo una breve esitazione mi ero messa al posto suo.

O meglio, le avevo fatto posto in me. Se ripensavo al momento in cui Gino aveva avanzato la sua richiesta, sentivo con precisione come avevo ricacciato indietro me stessa, come avevo mimato sguardo e tono e gesto di Cerullo in situazioni di conflitto sfrontato, e ne ero molto contenta. Ma a tratti mi chiedevo un po’ in ansia: faccio come Carmela? Mi pareva di no, mi pareva di essere diversa, ma non sapevo spiegarmi in che senso e mi guastavo la contentezza. Quando passai col gelato davanti alla bottega di Fernando e vidi Lila intenta a ordinare scarpe su una lunga mensola, fui tentata di chiamarla e raccontarle tutto, sentire cosa pensava. Ma lei non mi vide e passai oltre.

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4.

Aveva sempre da fare. Quell’anno Rino la obbligò a reiscriversi a scuola ma di nuovo non ci andò quasi mai e di nuovo si fece bocciare. La madre le chiedeva di aiutarla in casa, il padre le chiedeva di stare nel negozio, e lei di punto in bianco, invece di far resistenza, sembrò addirittura contenta di sgobbare per entrambi. Le rare volte che ci capitò di vederci – la domenica dopo la messa o a passeggio tra i giardinetti e lo stradone – non mostrò mai nessuna curiosità per la mia scuola, attaccava subito a parlare fitto fitto e con ammirazione del lavoro che facevano il padre e il fratello.

Aveva saputo che suo padre da ragazzo s’era voluto emancipare, era sfuggito alla bottega del nonno, pure lui ciabattino, ed era andato a lavorare in un calzaturificio di Casoria dove aveva fatto scarpe per tutti, anche per chi andava alla guerra. Aveva scoperto che Fernando sapeva fabbricare a mano una calzatura dall’inizio alla fine, ma conosceva benissimo anche le macchine ed era capace di usarle tutte, la trinciatrice, l’orlatrice, la smerigliatrice. Mi parlò di cuoio, di tomaie, di pellettieri e pelletterie, del tacco intero e del mezzo tacco, della preparazione del filo, delle piantine e di come si applicava la suola e la si colorava e la si lucidava. Usò tutte quelle parole del mestiere come se fossero magiche e il padre le avesse apprese in un mondo fatato – Casoria, la fabbrica – da cui poi era tornato come un esploratore sazio, così sazio che ora preferiva la botteguccia di famiglia, il banchetto quieto, il martello, il piede di ferro, l’odore buono della colla mescolato a quello delle scarpe usurate. E mi tirò dentro a quel vocabolario con un tale energico entusiasmo, che il padre e Rino, grazie a quell’abilità che avevano di chiudere i piedi della gente dentro scarpe solide, comode, mi sembrarono le persone migliori del rione. Soprattutto, ogni volta me ne tornai a casa con l’impressione che, non trascorrendo le mie giornate nella bottega di un calzolaio, avendo anzi per padre un banalissimo usciere, fossi esclusa da un privilegio raro.

In classe cominciai a sentirmi inutilmente presente. Per mesi e mesi mi sembrò che dai libri di testo fosse fuggita via ogni promessa, ogni energia.

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All’uscita di scuola, stordita dall’infelicità, passavo davanti alla bottega di Fernando solo per vedere Lila al posto suo di lavoro, seduta a un tavolino, nel fondo, con il suo busto magrissimo senza ombra di seno, il collo sottile, il viso emaciato. Non so cosa facesse di preciso, ma era lì, attiva, oltre la porta a vetri, incastonata tra la testa china del padre e la testa china del fratello, niente libri, niente lezioni, niente compiti a casa. A volte mi fermavo a guardare in vetrina le scatole di cromatina, le vecchie scarpe risuolate di fresco, quelle nuove messe in una forma che ne dilatava il cuoio e le allargava rendendole più comode, come se fossi una cliente e avessi interesse alla merce. Mi allontanavo solo, e malvolentieri, quando lei mi vedeva e mi salutava, e io rispondevo al saluto, e lei tornava a concentrarsi sul lavoro. Ma spesso era Rino ad accorgersi per primo di me e mi faceva smorfie buffe per farmi ridere. Imbarazzata, correvo via senza aspettare lo sguardo di Lila.

Una domenica mi sorpresi a parlare appassionatamente di scarpe con Carmela Peluso. Lei comprava Sogno e divorava fotoromanzi. All’inizio mi pareva tempo perso, poi avevo cominciato a buttarci uno sguardo anch’io, e ora leggevamo insieme, ai giardinetti, e commentavamo le storie e le battute dei singoli personaggi, scritte in lettere bianche su fondo nero. Carmela, più di me, tendeva a passare senza soluzione di continuità dai commenti ai racconti d’amore finti ai commenti al racconto del suo amore vero, quello per Alfonso. Io, per non essere da meno, una volta le dissi del figlio del farmacista, Gino, sostenni che mi amava. Non ci credette. Il figlio del farmacista ai suoi occhi era una specie di principe inarrivabile, erede futuro della farmacia, un signore che non avrebbe mai sposato la figlia di un usciere, e allora fui lì lì per dirle di quando mi aveva chiesto di fargli vedere il petto e io l’avevo fatto e ci avevo guadagnato dieci lire. Ma tenevamo ben spiegato sulle ginocchia Sogno e lo sguardo mi cadde sulle bellissime scarpe col tacco di una delle attrici. Mi sembrò un argomento di grande effetto, più della storia delle mammelle, e non riuscii a resistere, cominciai a lodarle e a lodare chi le aveva fatte così belle e ad almanaccare che se avessimo portato scarpe così, né Gino né Alfonso ci avrebbero resistito. Più parlavo, però, più mi accorgevo con imbarazzo che cercavo di far mia la nuova passione di Lila.

Carmela mi ascoltò distrattamente, poi disse che doveva andare. Di calzature e calzolai le importava poco o niente. A differenza di me, lei, pur imitando i modi di Lila, si teneva ben stretta alle sole cose che l’avvincevano: i fotoromanzi, l’amore.

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5.

Tutto quel periodo ebbe questo andamento. Dovetti ammettere presto che ciò che facevo io, da sola, non riusciva a farmi battere il cuore, solo ciò che Lila sfiorava diventava importante. Ma se lei si allontanava, se la sua voce si allontanava dalle cose, le cose si macchiavano, si impolveravano. La scuola media, il latino, i professori, i libri, la lingua dei libri mi sembrarono definitivamente meno suggestivi della finitura di una scarpa, e questo mi depresse.

Ma una domenica tutto cambiò di nuovo. Eravamo andate, Carmela, Lila e io, al catechismo, dovevamo prepararci alla prima comunione. All’uscita Lila disse che aveva da fare e se ne andò. Ma vidi che non si dirigeva verso casa: con mia grande sorpresa entrò nell’edificio delle scuole elementari.

Mi incamminai con Carmela, ma poiché mi annoiavo a un certo punto la salutai, feci il giro del palazzo e tornai indietro. Di domenica le scuole erano chiuse, come mai Lila era entrata nell’edificio? Mi avventurai tra mille titubanze oltre il portone, nell’atrio. Non ero mai più entrata nella mia vecchia scuola e provai una forte emozione, ne riconobbi l’odore, che si trascinò dietro una sensazione d’agio, un senso di me che non avevo più.

Infilai l’unica porta aperta al pianterreno. C’era una sala ampia, illuminata dai neon, le pareti erano coperte di scaffali carichi di vecchi libri. Contai una decina di adulti, numerosi bambini e ragazzini. Prendevano volumi, li sfogliavano, li rimettevano a posto, ne sceglievano uno. Poi si mettevano in fila davanti a una scrivania oltre la quale era seduto un vecchio nemico della maestra Oliviero, il maestro Ferraro, magro, coi capelli grigi tagliati a spazzola. Ferraro esaminava il testo prescelto, segnava qualcosa nel registro e le persone se ne uscivano con uno o più libri.

Mi guardai intorno: Lila non c’era, forse era già andata via. Cosa faceva, non frequentava più la scuola, si appassionava a scarpe e scarpacce, e tuttavia, senza dirmi niente, veniva in quel posto a prendere libri? Le piaceva quello spazio? Perché non mi invitava ad accompagnarla? Perché mi aveva lasciata con Carmela? Perché mi parlava di come si smerigliavano le suole e

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non di ciò che leggeva?

Mi arrabbiai, scappai via.

Per un po’ il tempo scolastico mi sembrò più insignificante del solito. Poi fui risucchiata dalla folla di compiti e interrogazioni di fine anno, temevo i brutti voti, studiavo sciattamente ma molto. E in più altre preoccupazioni mi incalzavano. Mia madre mi disse che ero indecente con tutto quel petto che m’era venuto e mi portò a comprare un reggipetto. Era più brusca del solito.

Pareva vergognarsi che avessi il seno, che mi fosse venuto il marchese. Le ruvide istruzioni che mi dava erano rapide e insufficienti, appena bofonchiate.

Non facevo in tempo a farle qualche domanda che già mi dava le spalle e si allontanava col suo passo sghembo.

Col reggiseno il petto diventò ancora più visibile. Negli ultimi mesi di scuola fui assillata dai maschi e capii presto perché. Gino e il suo compagno avevano diffuso la voce che mostravo com’ero fatta senza problemi e ogni tanto arrivava qualcuno che mi chiedeva di ripetere lo spettacolo. Svicolavo, mi comprimevo il petto tenendoci sopra le braccia incrociate, mi sentivo misteriosamente colpevole e sola con la mia colpa. I maschi insistevano, anche per strada, anche in cortile. Ridevano, mi prendevano in giro. Provai a respingerli una o due volte con modi alla Lila, ma non mi riuscirono bene, e allora non resistei e scoppiai a piangere. Per paura che mi importunassero mi autoreclusi in casa. Studiavo moltissimo, uscivo ormai solo per andare molto malvolentieri a scuola.

Una mattina di maggio Gino mi rincorse e mi chiese senza spavalderia, anzi stravolto, se ci volevamo fidanzare. Gli dissi di no, per astio, per vendetta, per imbarazzo, fiera tuttavia che il figlio del farmacista mi volesse.

Il giorno dopo me lo domandò di nuovo e non smise mai di domandarmelo, fino a giugno, quando, con un po’ di ritardo dovuto alla vita complicata dei nostri genitori, facemmo la prima comunione, in abito bianco come spose.

Are sens