Ma Lila fece uno di quei suoi sguardi intensi e vidi che s’era come saldata al libro che avevo tra le mani.
«Se succede si saprà» borbottò. «Per ora quelle poesie hanno fatto solo danno».
«Perché?».
«Sarratore non ha avuto il coraggio di andare di persona da Melina e al posto suo le ha mandato il libro».
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«E non è una cosa bella?».
«Chi lo sa. Adesso Melina lo aspetta e se Sarratore non viene soffrirà più di quanto ha sofferto fino a ora».
Che bei discorsi. Le guardai la pelle bianchissima, liscia, non una screpolatura. Le guardai le labbra, la forma delicata delle orecchie. Sì, pensai, forse sta cambiando, e non solo fisicamente, anche nel modo di esprimersi.
Mi sembrò – formulato con parole d’oggi – che non solo sapesse dire bene le cose ma che stesse sviluppando un dono che già conoscevo: meglio di come faceva da bambina, prendeva i fatti e li rendeva con naturalezza carichi di tensione; rinforzava la realtà mentre la riduceva a parole, le iniettava energia.
Ma mi accorsi anche, con piacere, che appena cominciava a farlo, ecco che mi sentivo anch’io la capacità di fare lo stesso e ci provavo e mi veniva bene.
Questo – pensai contenta – mi distingue da Carmela e da tutte le altre: io m’infiammo insieme a lei, qui, nel momento stesso in cui mi parla. Che belle mani forti aveva, che bei gesti le venivano, che sguardi.
Ma mentre Lila ragionava d’amore, mentre ne ragionavo io, il piacere si incrinò e mi venne un brutto pensiero. Capii di colpo che mi ero sbagliata: Pasquale il muratore, il comunista, il figlio dell’assassino, aveva voluto accompagnarmi fin lì non per me, ma per lei, per avere l’occasione di vederla.
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12.
Pensare quella cosa mi tolse il respiro per un attimo. Quando i due giovani rientrarono interrompendo i nostri discorsi, Pasquale confessò ridendo che era scappato dal cantiere senza dire niente al capomastro, ma doveva tornare subito a lavorare. Notai che guardava di nuovo Lila a lungo, intensamente, quasi contro la sua volontà, forse per segnalarle: sto correndo il rischio di essere licenziato solo per te. E intanto disse rivolgendosi a Rino:
«Domenica andiamo tutti a ballare da Gigliola, viene anche Lenuccia, ci venite pure voi?».
«Domenica è lontana, poi ci pensiamo» rispose Rino.
Pasquale lanciò un ultimo sguardo a Lila, che non gli prestò alcuna attenzione, poi filò via senza chiedermi se volevo andare con lui.
Provai un fastidio che mi rese nervosa. Cominciai a toccarmi le guance con le dita proprio nelle zone più infiammate, me ne accorsi e m’imposi di non farlo più. Mentre Rino recuperava da sotto il panchetto le cose a cui stava lavorando prima che arrivassimo, e se le studiava perplesso, riprovai a parlare con Lila di libri, di storie d’amore. Gonfiammo a dismisura Sarratore, la pazzia d’amore di Melina, il ruolo di quel libro. Cosa sarebbe accaduto? Che reazioni avrebbe scatenato non la lettura dei versi ma l’oggetto in sé, il fatto che la sua copertina, il titolo, il nome e il cognome avevano acceso di nuovo il cuore della donna? Parlammo così appassionatamente che Rino all’improvviso perse la pazienza e ci gridò: «La smettete? Lila, vediamo di lavorare, se no torna papà e non si può fare più niente».
Smettemmo. Diedi uno sguardo a ciò che stavano facendo, una forma di legno assediata da un garbuglio di suolette, striscioline di pelle, pezzi di cuoio spesso tra coltelli e lesine e ferri di vario tipo. Lila mi disse che lei e Rino stavano provando a realizzare una scarpa maschile da viaggio e suo fratello, subito dopo, in ansia, mi fece giurare su mia sorella Elisa che di quella cosa non ne avrei parlato mai con nessuno. Stavano lavorando di nascosto da Fernando, Rino s’era procurato il cuoio e la pelle da un amico che si guadagnava la giornata in una conceria al Ponte di Casanova.
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Dedicavano alla realizzazione della scarpa cinque minuti adesso, dieci domani, perché non c’era stato modo di convincere il padre ad aiutarli, anzi ogni volta che tiravano fuori quel discorso Fernando mandava a casa Lila urlando che non voleva vederla più in bottega e intanto minacciava di uccidere Rino che s’era messo in testa a diciannove anni, mancandogli di rispetto, di poter essere da più di lui.
Feci finta di interessarmi alla loro impresa segreta, di fatto me ne rammaricai. Sebbene entrambi i fratelli mi avessero coinvolta scegliendomi a loro confidente, si trattava pur sempre di un’esperienza dentro cui potevo entrare soltanto come testimone: Lila per quella strada avrebbe fatto cose grandi da sola, io ero esclusa. Ma soprattutto, come poteva essere che, dopo i nostri discorsi intensi sull’amore e la poesia, lei mi accompagnasse alla porta come stava facendo, ritenendo ben più interessante quel clima di tensione intorno a una scarpa? Avevamo parlato così bene di Sarratore e di Melina.
Non potevo credere che, pur accennandomi a quel coacervo di cuoi e pelle e arnesi, non le durasse dentro come a me l’ansia per la donna che soffriva d’amore. Che m’importava delle calzature. Avevo ancora intorno, negli occhi, i movimenti più segreti di quella vicenda di fedeltà violata, di passione, di canto che diventava libro, ed era come se lei e io avessimo letto insieme un romanzo, come se avessimo visto, lì nel retrobottega e non nella sala parrocchiale la domenica, un film molto drammatico. Mi sentii addolorata per lo sperpero, perché ero costretta ad andar via, perché lei preferiva l’avventura delle scarpe ai nostri discorsi, perché sapeva essere autonoma e invece io avevo bisogno di lei, perché aveva cose sue dentro cui non potevo entrare, perché Pasquale, uno grande d’età, non un ragazzino, di certo avrebbe cercato altre occasioni per guardarla e sollecitarla e cercare di convincerla a fidanzarsi in segreto con lui e a farsi baciare, toccare, come si diceva che si facesse quando ci si fidanzava; perché, insomma, mi avrebbe sentita sempre meno necessaria.
Perciò, quasi per cacciar via il senso di repulsione che mi causavano quei pensieri, quasi per sottolineare il mio valore e la mia indispensabilità, le dissi di getto che sarei andata al ginnasio. Glielo dissi sulla porta del negozio, quando anzi ero già in strada. Le raccontai che era stata la maestra Oliviero a imporlo ai miei genitori, promettendo di procurarmi lei stessa, gratis, i libri usati. Lo feci perché volevo che si rendesse conto che ero più unica che rara e che, se pure fosse diventata ricca fabbricando scarpe insieme a Rino, non avrebbe potuto fare a meno mai di me come io non potevo fare a meno di lei.
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Mi guardò perplessa.
«Cos’è il ginnasio?» chiese.
«Una scuola importante che sta dopo la scuola media».
«E tu che ci vai a fare?».
«A studiare».
«Cosa?».
«Il latino».
«E basta?».
«Anche il greco».
«Il greco?».
«Sì».
Fece l’espressione di chi s’è persa e non trova niente da dire. Infine mormorò senza nessun nesso:
«La settimana scorsa m’è venuto il marchese».
E sebbene Rino non l’avesse chiamata, rientrò.