"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » Italian Books » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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Napoli, secondo lui, era così da sempre: si taglia, si spacca e poi si rifà, e i soldi corrono e si crea fatica.

Mi portò per corso Garibaldi, fino all’edificio che sarebbe stata la mia scuola. Trafficò in segreteria con estrema bonomia, aveva il dono di riuscire simpatico, dono che nel rione e in casa teneva nascosto. Si vantò della mia straordinaria pagella con un bidello di cui, scoprì lì per lì, conosceva bene il compare di fazzoletto. Sentii che ripeteva spesso: tutto a posto? oppure: quello che si può fare si fa. Mi mostrò piazza Carlo III, l’Albergo dei poveri, l’Orto botanico, via Foria, il Museo. Mi portò per via Costantinopoli, per Port’Alba, per piazza Dante, per Toledo. Fui sopraffatta dai nomi, dal rumore del traffico, dalle voci, dai colori, dall’aria di festa che c’era in giro, dallo

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sforzo di tenere tutto a mente per poi parlarne con Lila, dall’abilità con cui lui chiacchierava col pizzaiolo da cui mi aveva comprato una pizza bollente con la ricotta, col fruttivendolo da cui mi aveva comprato una percoca molto gialla. Possibile che solo il nostro rione fosse così pieno di tensioni e violenze, mentre il resto della città era radioso, benevolo?

Mi portò a vedere il posto dove lavorava, che era in piazza Municipio.

Anche lì, disse, tutto era diventato nuovo, tagliate le piante, spaccato tutto: ora vedi quanto spazio, l’unica cosa vecchia è il Maschio Angioino, però è bello, piccerè, due maschi veri ci sono a Napoli, papà tuo e quello lì.

Andammo al comune, salutò questo e quello, era molto conosciuto. Con alcuni fu gioviale, mi presentò, ripeté per l’ennesima volta che avevo avuto a scuola nove in italiano e nove in latino; con altri fu quasi muto, solo va bene, sì, voi comandate e io faccio. Infine mi annunciò che mi avrebbe mostrato il Vesuvio da vicino e il mare.

Fu un momento indimenticabile. Andammo verso via Caracciolo, sempre più vento, sempre più sole. Il Vesuvio era una forma delicata color pastello ai piedi della quale si ammucchiavano i ciottoli biancastri della città, il taglio color terra di Castel dell’Ovo, il mare. Ma che mare. Era agitatissimo, fragoroso, il vento toglieva il fiato, incollava i vestiti addosso e levava i capelli dalla fronte. Ci tenemmo dall’altro lato della strada insieme a una piccola folla che guardava lo spettacolo. Le onde ruzzolavano come tubi di metallo blu portando in cima la chiara d’uovo della spuma, poi si frangevano in mille schegge scintillanti e arrivavano fin sulla strada con un oh di meraviglia e timore da parte di tutti noi che guardavamo. Che peccato che non c’era Lila. Mi sentii stordita dalle raffiche potenti, dal rumore. Avevo l’impressione che, pur assorbendo molto di quello spettacolo, moltissime cose, troppe si spampanassero intorno senza lasciarsi afferrare.

Mio padre mi strinse la mano come se temesse che sgusciassi via. Infatti avevo voglia di lasciarlo, correre, spostarmi, attraversare la strada, farmi investire dalle scaglie brillanti del mare. In quel momento così tremendo, pieno di luce e di clamore, mi finsi sola nel nuovo della città, nuova io stessa con tutta la vita davanti, esposta alla furia mobile delle cose ma sicuramente vincitrice: io, io e Lila, noi due con quella capacità che insieme – solo insieme – avevamo di prendere la massa di colori, di rumori, di cose e persone, e raccontarcela e darle forza.

Tornai al rione come se fossi andata in un territorio lontano. Ecco di nuovo le vie note, ecco di nuovo la salumeria di Stefano e sua sorella Pinuccia, Enzo

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che vendeva frutta, il Millecento dei Solara parcheggiato davanti al bar e che ora avrei pagato non so cosa perché fosse cancellato dalla faccia della terra.

Meno male che dell’episodio del braccialetto mia madre non aveva saputo niente. Meno male che nessuno aveva riferito a Rino quello che era successo.

Raccontai a Lila delle strade, dei loro nomi, del fragore, della luce straordinaria. Ma subito mi sentii a disagio. Se il racconto di quella giornata lo avesse fatto lei, mi ci sarei intrufolata con un controcanto indispensabile e, anche se non ero stata presente, mi sarei sentita viva e attiva, avrei fatto domande, sollevato questioni, avrei cercato di dimostrarle che dovevamo rifare quello stesso percorso insieme, necessariamente, perché glielo avrei arricchito, sarei stata una compagnia di gran lunga migliore di suo padre. Lei invece mi ascoltò senza curiosità e lì per lì pensai che facesse così per cattiveria, per togliere forza al mio entusiasmo. Ma dovetti convincermi che non era così, aveva semplicemente un filo di pensiero suo che si nutriva di cose concrete, di un libro come di una fontanella. Con le orecchie di sicuro mi ascoltava, ma con gli occhi, con la mente, era saldamente ancorata alla strada, alle poche piante dei giardinetti, a Gigliola che passeggiava con Alfonso e Carmela, a Pasquale che salutava dall’impalcatura del cantiere, a Melina che parlava ad alta voce di Donato Sarratore mentre Ada cercava di trascinarla a casa, a Stefano, il figlio di don Achille, che s’era appena comprato la Giardinetta e aveva a lato sua mamma e sul sedile posteriore la sorella Pinuccia, a Marcello e Michele Solara che passavano nel loro Millecento e Michele faceva finta di non vederci mentre Marcello non trascurava di mandarci uno sguardo cordiale, soprattutto al lavorio segreto, di nascosto dal padre, a cui si applicava per mandare avanti il progetto delle scarpe. Il mio racconto, per lei, era in quel momento solo un insieme di segnali inutili da spazi inutili. Se ne sarebbe occupata, di quegli spazi, solo se le fosse capitata l’opportunità di andarci. E infatti, dopo tanto mio parlare, disse solo:

«Devo dire a Rino che domenica dobbiamo accettare l’invito di Pasquale Peluso».

Ecco, io le raccontavo il centro di Napoli e lei metteva al centro la casa di Gigliola, in una delle palazzine del rione, dove Pasquale ci voleva portare a ballare. Mi dispiacqui. Agli inviti di Peluso avevamo sempre detto sì e tuttavia non c’eravamo mai andate, io per evitare discussioni con i miei genitori, lei perché Rino era contrario. Ma lo spiavamo spesso, nei giorni di festa, mentre aspettava tutto ripulito gli amici suoi, i grandi e i più piccoli.

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Era un ragazzo generoso, non faceva distinzioni d’età, si tirava dietro chiunque. In genere lui aspettava davanti al benzinaio e intanto arrivavano alla spicciolata Enzo, e Gigliola, e Carmela che ora si faceva chiamare Carmen, e qualche volta Rino stesso se non aveva altro da fare, e Antonio, che aveva il peso di sua madre Melina, e nel caso che Melina fosse calma, anche sua sorella Ada, che i Solara s’erano tirati in macchina e l’avevano portata chissà dove per un’ora buona. Quando la giornata era bella andavano al mare, tornavano rossi di sole in faccia. Oppure, più spesso, si riunivano tutti da Gigliola, i cui genitori erano più accomodanti dei nostri, e lì chi sapeva ballare ballava e chi non sapeva ballare imparava.

Lila cominciò a tirarmi a quelle festicciole, le era preso non so come l’interesse per il ballo. Sia Pasquale che Rino si rivelarono a sorpresa ottimi ballerini e noi imparammo da loro il tango, il valzer, la polka e la mazurka.

Rino, bisogna dire, come maestro s’innervosiva presto, specialmente con la sorella, mentre Pasquale era molto paziente. All’inizio ci fece ballare stando sopra i suoi piedi, in modo che imparassimo bene i passi, poi, appena diventammo più esperte, via a volteggiare per la casa.

Scoprii che mi piaceva moltissimo ballare, avrei ballato sempre. Lila invece aveva quella sua aria di chi vuol capire bene come si fa, e pareva che il suo divertimento consistesse tutto nell’imparare, tant’è vero che spesso se ne stava seduta a guardare, studiandoci, e applaudiva le coppie più affiatate.

Una volta andai a casa sua e mi fece vedere un libretto che aveva preso in biblioteca: c’era scritto tutto sui balli e ogni movimento era spiegato con figurine nere di maschio e femmina che volteggiavano. Era molto allegra in quel periodo, un’esuberanza sorprendente per lei. Di punto in bianco mi afferrò alla vita e facendo l’uomo mi obbligò a ballare il tango suonando la musica con la bocca. S’affacciò Rino che ci vide e scoppiò a ridere. Volle ballare anche lui, prima con me e poi con la sorella, sebbene senza musica.

Mentre ballavamo mi raccontò che a Lila era presa una tale smania perfezionistica che l’obbligava di continuo a fare esercizio, anche se non avevano il grammofono. Ma appena disse quella parola – grammofono, grammofono, grammofono – Lila mi gridò da un angolo della stanza, facendo gli occhi stretti:

«Lo sai che parola è?».

«No».

«Greco».

Io la guardai incerta. Rino intanto mi mollò e passò a ballare con la sorella,

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che lanciò un grido sottile, mi affidò il manuale dei balli e volò per la stanza con lui. Poggiai tra i suoi libri il manuale. Che cosa aveva detto?

Grammofono era italiano, non greco. Ma intanto vidi che sotto Guerra e pace, con tanto di etichetta della biblioteca del maestro Ferraro, spuntava un volume sbrindellato che era intitolato Grammatica greca. Grammatica.

Greca. Sentii che mi prometteva, affannata:

«Dopo ti scrivo grammofono con le lettere greche».

Dissi che avevo da fare e me ne andai.

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15.

S’era messa a studiare il greco prima ancora che io andassi al ginnasio?

L’aveva fatto da sola, mentre io nemmeno ci pensavo, e d’estate, quando era vacanza? Faceva sempre le cose che dovevo fare io, prima e meglio di me?

Mi sfuggiva quando la inseguivo e intanto mi tallonava per scavalcarmi?

Cercai di non vederla per un po’, ero arrabbiata. Andai in biblioteca a prendere a mia volta una grammatica greca, ma ne esisteva una sola e l’aveva in prestito a turno tutta la famiglia Cerullo. Forse devo cancellare Lila da me come un disegno sulla lavagna, pensai, e fu, credo, la prima volta. Mi sentivo fragile, esposta a tutto, non potevo passare il mio tempo a inseguirla o a scoprire che lei mi inseguiva, e nell’un caso e nell’altro sentirmi da meno. Ma non ci riuscii, tornai subito a cercarla. Lasciai che m’insegnasse come si faceva la quadriglia. Lasciai che mi mostrasse come sapeva scrivere tutte le parole italiane con l’alfabeto greco. Volle che imparassi quell’alfabeto anch’io prima di andare a scuola, e mi costrinse a scriverlo e a leggerlo. A me vennero ancora più brufoli. Andavo ai balli da Gigliola con un senso permanente d’insufficienza e di vergogna.

Sperai che passasse, ma insufficienza e vergogna si intensificarono. Una volta Lila si esibì in un valzer con suo fratello. Danzavano così bene, insieme, che lasciammo loro tutto lo spazio. Restai incantata. Erano belli, erano affiatati. Li guardavo e capii definitivamente che in breve tempo avrebbe perso del tutto la sua aria di bambina-vecchia, come si perde un motivo musicale molto noto quando è adattato con troppo estro. Era diventata sinuosa. La fronte alta, gli occhi grandi che si stringevano all’improvviso, il naso piccolo, gli zigomi, le labbra, le orecchie stavano cercando una nuova orchestrazione e parevano vicini a trovarla. Quando si pettinava con la coda, il collo lungo si mostrava con un nitore che inteneriva. Il petto aveva piccoli aggraziati pomi sempre più visibili. La sua schiena faceva una curva profonda, prima di approdare all’arco sempre più teso del sedere. Le caviglie erano ancora troppo magre, caviglie di bambina; ma quanto avrebbero impiegato ad adattarsi alla sua figura ormai di ragazza? Mi accorsi che i

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