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Stefano sorrise:

«Quanti fuochi vuoi?».

«Tantissimi».

Il giovane si rivolse di nuovo a me:

«Venite tutti a casa mia e vi prometto che quando spunta l’alba staremo ancora a sparare».

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21.

Per tutta la strada non facemmo che ridere a crepapelle dicendoci cose tipo:

«Lo fa per te».

«No, per te».

«Si è innamorato e per averti a casa sua invita pure i comunisti, pure gli assassini di suo padre».

«Ma che dici? Non m’ha nemmeno guardata».

Rino ascoltò la proposta di Stefano e disse subito di no. Ma la voglia di vincere sui Solara lo fece tentennare e ne parlò con Pasquale, che si arrabbiò moltissimo. Enzo invece borbottò: «Va bene, se posso vengo». Quanto ai nostri genitori, furono felicissimi di quell’invito perché per loro don Achille non esisteva più e i figli e la moglie erano bravissime persone agiate che ad averle per amiche era un onore.

Lila all’inizio sembrò stordita, come se avesse dimenticato dove si trovava, le strade, il rione, la calzoleria. Poi comparve da me un tardo pomeriggio con l’aria di chi ha capito tutto e mi disse:

«Abbiamo sbagliato: Stefano non vuole né me né te».

Ci ragionammo secondo il nostro solito, mescolando dati di fatto e fantasticherie. Se non voleva noi, cosa voleva? Pensammo che anche Stefano avesse in mente di dare una lezione ai Solara. Ci ricordammo di quando Michele aveva fatto cacciare Pasquale dalla festa della madre di Gigliola, intromettendosi così nei fatti dei Carracci e facendo fare a Stefano la figura di chi non sa difendere la memoria di suo padre. In quell’occasione i due fratelli, a pensarci, non avevano messo solo i piedi in testa a Pasquale, ma anche a lui. E quindi ora rincarava la dose, come per far loro dispetto: si riappacificava definitivamente coi Peluso, addirittura li invitava a casa sua per Capodanno.

«E che ci guadagna?» chiesi a Lila.

«Non lo so. Vuol fare un gesto che qua al rione non farebbe nessuno».

«Perdonare?».

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Lila scosse la testa scettica. Stava cercando di capire, stavamo tutt’e due cercando di capire, e capire era una cosa che ci piaceva moltissimo. Stefano non pareva il tipo capace di perdonare. Secondo Lila aveva in mente un’altra cosa. E piano piano, muovendo da una delle sue idee fisse degli ultimi tempi, vale a dire dal momento in cui s’era messa a discutere con Pasquale, le sembrò di aver trovato la soluzione.

«Ti ricordi di quando ho detto a Carmela che si poteva fidanzare con Alfonso?».

«Sì».

«Stefano ha in mente una cosa così».

«Sposarsi lui Carmela?».

«Di più».

Stefano, secondo Lila, voleva azzerare tutto. Voleva provare a uscire dal prima. Non voleva far finta di niente come facevano i nostri genitori, ma anzi mettere in atto una frase tipo: lo so, mio padre è stato quello che è stato, ma ora ci sono io, ci siamo noi, e quindi basta. Insomma voleva far capire a tutto il rione che lui non era don Achille e che nemmeno i Peluso erano l’ex falegname che l’aveva ucciso. Quell’ipotesi ci piacque, diventò subito una certezza e avemmo un moto di grande simpatia per il giovane Carracci.

Decidemmo di stare dalla sua parte.

Passammo a spiegare a Rino, a Pasquale, ad Antonio che l’invito di Stefano era più di un invito, che dietro c’erano significati importanti, che era come se lui stesse dicendo: prima di noi ci sono state brutte cose; i nostri padri, chi in un modo chi in un altro, non si sono comportati bene; da adesso prendiamone atto e dimostriamo che noi figli siamo meglio di loro.

«Meglio?» chiese Rino, interessato.

«Meglio» dissi io, «tutto il contrario dei Solara, che invece fanno peggio del nonno e del padre».

Parlai molto emozionata, in italiano, come se fossi a scuola. Lila stessa mi lanciò uno sguardo meravigliato e Rino, Pasquale, Antonio borbottarono qualcosa in imbarazzo. Pasquale provò persino a rispondermi in italiano ma ci rinunciò subito. Disse cupo:

«I soldi con cui Stefano sta facendo altri soldi sono quelli che suo padre ha fatto con la borsa nera. Il locale della salumeria è quello dove una volta c’era la falegnameria di mio padre».

Lila fece gli occhi piccoli, quasi non si vedevano.

«È vero. Ma preferite stare dalla parte di uno che vuole cambiare o dalla

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parte dei Solara?».

Pasquale disse con fierezza, un po’ per convinzione, un po’ perché visibilmente ingelosito dalla inattesa centralità di Stefano nelle parole di Lila:

«Io sto dalla parte mia e basta».

Ma era un buon ragazzo, ci pensò e ci ripensò. Andò a parlare con sua madre, discusse con tutta la famiglia. Giuseppina, che da instancabile lavoratrice di buon carattere, disinvolta, esuberante, s’era mutata dopo l’incarcerazione del marito in una donna disfatta, immalinconita dalla mala sorte, si rivolse al parroco. Il parroco passò per la bottega di Stefano, parlò a lungo con Maria, poi tornò a parlare con Giuseppina Peluso. Alla fine si convinsero tutti che la vita era già molto difficile e che se si riusciva, in occasione dell’anno nuovo, a ridurne le tensioni, era meglio per tutti. Così il 31 dicembre, dopo il cenone, alle 23.30, famiglie diverse, la famiglia dell’ex falegname, la famiglia dell’usciere, quella dello scarparo, quella del fruttivendolo, la famiglia di Melina – che per l’occasione curò molto il suo aspetto –, s’inerpicarono alla spicciolata fino al quarto piano, fino alla vecchia casa odiatissima di don Achille, per festeggiare il nuovo anno insieme.

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22.

Stefano ci accolse con grande cordialità. Mi ricordo che era pettinato con cura, aveva il viso un po’ rosso per l’agitazione, indossava una camicia bianca con la cravatta e un gilè senza maniche, blu. Lo trovai bellissimo, con modi da principe. Calcolai che aveva quasi sette anni più di me e di Lila, e pensai in quell’occasione che essere fidanzata con Gino, mio coetaneo, era ben poca cosa: quando gli avevo chiesto di raggiungermi dai Carracci mi aveva detto che non poteva perché i genitori non lo lasciavano uscire dopo mezzanotte, era pericoloso. Io volevo un fidanzato grande, non un ragazzino, uno come quei giovani, Stefano, Pasquale, Rino, Antonio, Enzo. Li guardai, li sfiorai tutta la sera. Mi toccavo nervosamente gli orecchini, il braccialetto d’argento di mia madre. Avevo ricominciato a sentirmi bella e volevo leggerne la prova nei loro occhi. Ma sembravano tutti presi dalla festa dei fuochi a mezzanotte. Aspettavano la loro guerra tra maschi e nemmeno a Lila parevano fare attenzione.

Stefano fu gentile soprattutto con la signora Peluso e con Melina, che non diceva una parola, aveva occhi spiritati, il naso lungo, ma era ben pettinata e con gli orecchini, col suo vecchio vestito nero di vedova, sembrava una gran dama. A mezzanotte il padrone di casa riempì di spumante prima il bicchiere di sua madre e subito dopo quello della madre di Pasquale. Facemmo un brindisi alle cose meravigliose che sarebbero accadute nell’anno nuovo, quindi cominciammo a sciamare verso il lastrico, i vecchi e i bambini con cappotti, sciarpe, perché faceva molto freddo. Mi accorsi che l’unico che si attardava svogliatamente di sotto era Alfonso. Lo chiamai per buona educazione, non mi sentì o fece finta di non sentirmi. Corsi di sopra. Mi ritrovai sulla testa un cielo tremendo, zeppo di stelle e di tenebra, gelato.

I ragazzi erano in pullover, Pasquale ed Enzo addirittura in maniche di camicia. Lila e io e Ada e Carmela avevamo abitini sottili che usavamo per le feste da ballo e tremavamo di freddo e di eccitazione. Già c’erano i primi sibili dei razzi, solcavano il cielo ed esplodevano in fiori coloratissimi. Già si sentivano i tonfi delle cose vecchie che volavano dalle finestre, le grida, le

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risate. L’intero rione schiamazzava, lanciava petardi. Io accesi i fitfit e le rotelle ai bambini, mi piaceva guardare nei loro occhi lo stupore impaurito che avevo provato da piccola. Lila convinse Melina ad accendere insieme a lei la miccia di un bengala, il fiotto di fuoco sprizzò con un fruscio colorato.

Entrambe gridarono di gioia e alla fine si abbracciarono.

Rino, Stefano, Pasquale, Enzo, Antonio trasportarono casse e scatole e cartocci di esplosivo, fieri di tutte quelle munizioni che erano riusciti ad accumulare. Alfonso si adoperò anche lui, ma lo fece fiaccamente, reagì alle pressioni del fratello con scatti di fastidio. Mi sembrò invece intimidito da Rino, che pareva veramente su di giri, lo spingeva in malo modo, gli toglieva le cose, lo trattava da ragazzino. Così alla fine, piuttosto che arrabbiarsi, Alfonso si ritrasse, mescolandosi sempre meno agli altri. Brillarono intanto i fiammiferi, i più grandi si accesero reciprocamente le sigarette con le mani a coppa, parlandosi seri e cordiali. Se ci sarà una guerra civile, pensai, come quella tra Romolo e Remo, tra Mario e Silla, tra Cesare e Pompeo, loro avranno queste stesse facce, avranno questi stessi sguardi, queste stesse pose.

A parte Alfonso, tutti i maschi si riempirono le camicie di trictrac e di botte a muro, sistemarono file di razzi in schiere di bottiglie vuote. A me, a Lila, a Ada, a Carmela fu affidato da Rino, sempre più agitato, sempre più urlante, il compito di rifornire tutti di munizioni per tempo. Poi, giovanissimi, giovani e meno giovani – i miei fratelli Peppe e Gianni, per capirci, ma anche mio padre, anche lo scarparo, che era il più anziano – cominciarono a muoversi nel buio e nel freddo accendendo micce e lanciando i fuochi oltre il parapetto o in cielo, in un clima festoso, di crescente eccitazione, di urla tipo hai visto che colori, maronna che botta, dài, dài, appena guastato dai gemiti insieme terrorizzati e languidi di Melina, da Rino che strappava trictrac ai miei fratelli e li usava lui, strillando che loro li sprecavano perché li lanciavano senza aspettare che la miccia prendesse realmente fuoco.

Are sens