"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » Italian Books » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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maschi, nel contemplarla mentre danzava con Rino, stavano vedendo ancora più cose di me. Pasquale innanzitutto, ma anche Antonio, anche Enzo. Le tenevano gli occhi addosso come se noi altre fossimo sparite. Eppure io avevo più seno. Eppure Gigliola era di un biondo abbagliante, di lineamenti regolari, di gambe perfette. Eppure Carmela aveva occhi bellissimi e soprattutto movenze sempre più provocanti. Ma non c’era niente da fare: dal corpo mobile Lila aveva cominciato a emanare qualcosa che i maschi sentivano, un’energia che li stordiva, come il rumore sempre più vicino della bellezza in arrivo. Dovette interrompersi la musica perché tornassero in sé con sorrisi incerti e applausi esagerati.

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16.

Lila era cattiva: questo, in qualche luogo segreto di me, continuavo a pensarlo. Mi aveva dimostrato che non solo sapeva ferire con le parole, ma che avrebbe saputo uccidere senza esitazione, eppure quelle sue potenzialità ora mi sembravano roba da poco. Mi dicevo: sprigionerà qualcosa di ancora più malvagio, e ricorrevo alla parola maleficio, un vocabolo esagerato che mi veniva dalle favole dell’infanzia. Ma se era il mio lato infantile a scatenarmi quei pensieri, un fondo di verità c’era. E infatti, che da Lila stesse promanando un fluido che non era semplicemente seducente ma anche pericoloso, lentamente diventò chiaro non solo a me, che la sorvegliavo da quando eravamo in prima elementare, ma a tutti.

Verso la fine dell’estate cominciarono a moltiplicarsi le pressioni su Rino perché, nelle sortite in gruppo fuori dal rione per una pizza, per una passeggiata, si tirasse dietro anche la sorella. Rino però voleva spazi suoi.

Anche lui mi pareva che stesse cambiando, Lila gli aveva acceso la fantasia e le speranze. Ma, a vederlo, a sentirlo, l’effetto non era dei migliori. Era diventato più smargiasso, non trascurava occasione per alludere a quanto era bravo col suo lavoro e a come sarebbe diventato ricco, ripeteva spesso una frase che gli piaceva: basta poco, un po’ di fortuna, e ai Solara gli piscio in faccia. Per queste vanterie, però, era indispensabile che la sorella non ci fosse. In presenza di lei si confondeva, accennava qualche frase, poi lasciava perdere. Si rendeva conto che Lila lo guardava storto come se lui stesse tradendo un patto segreto di contegno, di distacco, e preferiva perciò non averla intorno, già stavano insieme a sgobbare tutta la giornata nella calzoleria. Svicolava e andava a gonfiarsi come un pavone con gli amici suoi.

Ma a volte doveva cedere.

Una domenica, dopo molte discussioni con i nostri genitori, uscimmo (Rino venne ad assumersi generosamente, con i miei genitori, anche la responsabilità della mia persona) nientemeno di sera. Vedemmo la città illuminata dalle insegne, le strade affollate, il malodore del pesce andato a male per il caldo ma anche i profumi dei ristoranti, delle friggitorie, dei bar-

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pasticceria che erano molto più ricchi di quello dei Solara. Non mi ricordo se Lila avesse già avuto occasione di andare in centro, col fratello o con altri. Di certo se era successo non me ne aveva parlato. Mi ricordo invece che in quella circostanza fu assolutamente muta. Attraversammo piazza Garibaldi, ma lei restava indietro, si attardava a guardare un lustrascarpe, un donnone variopinto, gli uomini foschi, i ragazzi. Fissava le persone con molta attenzione, le guardava diritto in faccia, tanto che alcuni ridevano e altri le facevano il gesto che significa: che vuoi? Ogni tanto la strattonavo, me la tiravo dietro per paura che ci perdessimo Rino, Pasquale, Antonio, Carmela, Ada.

Quella sera andammo in una pizzeria del Rettifilo, mangiammo in allegria.

A me sembrò che Antonio mi facesse un po’ la corte, forzando la sua timidezza, e fui contenta, così si bilanciavano le attenzioni di Pasquale per Lila. Senonché a un certo punto successe che il pizzaiolo, un uomo sui trent’anni, cominciò a far volteggiare la pizza per aria, mentre la impastava, con un virtuosismo eccessivo e scambiando sorrisi con Lila che lo guardava ammirata.

«Finiscila» le disse Rino.

«Non faccio niente» rispose lei e si sforzò di guardare da un’altra parte.

Ma presto le cose si misero male. Pasquale, ridendo, ci disse che quell’uomo, il pizzaiolo – uno che a noi ragazzine pareva anziano, aveva la fede al dito, era sicuramente padre di figli – aveva mandato di nascosto un bacio a Lila soffiandosi sulla punta delle dita. Ci girammo subito a guardarlo: faceva il suo lavoro e basta. Ma Pasquale chiese a Lila, sempre ridendo:

«È vero o mi sono sbagliato?».

Lila, con una risatella nervosa in contrasto col sorriso generoso di Pasquale, rispose:

«Io non ho visto niente».

«Lascia stare, Pascà» disse Rino, fulminando con lo sguardo la sorella.

Ma Peluso si alzò, andò al banco del forno, ci girò intorno e, con il suo sorriso candido sulle labbra, tirò uno schiaffo in faccia al pizzaiolo mandandolo contro la bocca del forno.

Accorse subito il padrone del locale, un uomo sui sessanta, piccolo e pallido, e Pasquale gli spiegò con calma che non si doveva preoccupare, aveva solo fatto capire al suo dipendente una cosa che gli era poco chiara, adesso non ci sarebbero stati più problemi. Finimmo di mangiare la pizza in silenzio, a occhi bassi, a bocconi lenti, come se fosse avvelenata. E quando

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uscimmo Rino fece a Lila una gran lavata di testa che si concluse con la minaccia: continua così e non ti porto più.

Cos’era successo? Per strada i maschi che incrociavamo ci guardavano tutte, belle, belline, brutte, e non tanto i giovani, quanto gli uomini fatti.

Andava così sia nel rione che fuori del rione, e Ada, Carmela, io stessa –

specialmente dopo l’incidente coi Solara – avevamo imparato d’istinto a tenere gli occhi bassi, a far finta di non sentire le porcherie che ci dicevano e tirare avanti. Lila no. Andare a spasso con lei la domenica diventò un elemento permanente di tensione. Se qualcuno la guardava lei ricambiava lo sguardo. Se qualcuno le diceva qualcosa lei si fermava perplessa come se non credesse che parlavano a lei, e a volte rispondeva incuriosita. Tanto più che, cosa fuori del comune, quasi mai le rivolgevano quelle oscenità che quasi sempre riservavano a noi.

Un pomeriggio di fine agosto ci spingemmo fino alla Villa comunale e lì ci sedemmo a un bar perché Pasquale, che in quel periodo si comportava da grande di Spagna, volle offrire a tutti lo spumone. Avevamo di fronte una famigliola che mangiava il gelato al tavolo, come noi: padre, madre e tre figli maschi con un’età tra i dodici e i sette anni. Pareva gente perbene: il padre, un uomo grosso, sui cinquanta, aveva l’aria del professore. E posso giurare che Lila non sfoggiava niente di vistoso: non portava rossetto, aveva addosso le solite pezze che le cuciva la madre, eravamo più appariscenti noi, Carmela soprattutto. Ma quel signore – questa volta ce ne accorgemmo tutti – non riusciva a toglierle gli occhi di dosso, e Lila, per quanto cercasse di controllarsi, rispondeva allo sguardo come se non si capacitasse di essere tanto ammirata. Alla fine, mentre al nostro tavolo cresceva il nervosismo di Rino, di Pasquale, di Antonio, l’uomo, evidentemente senza rendersi conto del rischio che correva, si alzò, si piantò davanti a Lila e, rivolgendosi ai maschi compitamente, disse:

«Voi siete fortunati: avete qui una ragazza che diventerà più bella di una Venere del Botticelli. Chiedo scusa, ma l’ho detto a mia moglie, ai miei figli e ho sentito la necessità di dirlo anche a voi».

Lila scoppiò a ridere per la tensione. L’uomo sorrise a sua volta e, fattole un inchino contenuto, stava per tornare al suo tavolo quando Rino lo agguantò per la collottola, gli fece fare il percorso a ritroso di corsa, lo mise seduto a forza e, davanti alla moglie e ai figli, gli scaricò addosso una serie di insulti come li dicevamo al rione. L’uomo allora si arrabbiò, la moglie strillò mettendosi in mezzo, Antonio tirò via Rino. Altra domenica rovinata.

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Ma il peggio capitò una volta che Rino non c’era. A colpirmi non fu il fatto in sé ma la saldatura, intorno a Lila, di tensioni di provenienza diversa. La madre di Gigliola, in occasione dell’onomastico (si chiamava Rosa, se mi ricordo bene), diede una festa con persone di ogni età. Poiché il marito era il pasticciere della pasticceria Solara, furono fatte le cose molto in grande: abbondavano le sciu, i raffiuoli a cassata, le sfogliatelle, le paste di mandorla, i liquori, le bibite per i bambini e i dischi con i balli, dai più consueti a quelli all’ultima moda. Venne gente che alle nostre festicciole di ragazzi non sarebbe mai venuta. Per esempio il farmacista con la moglie e il loro figlio maggiore Gino, prossimo ad andare al ginnasio come me. Per esempio il maestro Ferraro e tutta la sua famiglia numerosa. Per esempio Maria, la vedova di don Achille, e il figlio Alfonso e la figlia Pinuccia, coloratissima, e persino Stefano.

Queste ultime presenze all’inizio causarono qualche tensione: c’erano anche Pasquale e Carmela Peluso, alla festa, i figli dell’assassino di don Achille. Ma poi tutto si mise per il meglio. Alfonso era un ragazzo gentile (sarebbe andato anche lui al ginnasio, nella mia stessa scuola) e scambiò persino qualche parola con Carmela; Pinuccia era soprattutto contenta di essere andata a una festa, sacrificata com’era ogni giorno in salumeria; Stefano aveva precocemente capito che il commercio è fondato sull’assenza di preclusioni, considerava tutti gli abitanti del rione potenziali clienti che avrebbero speso da lui i loro soldi, sfoderava in genere con chiunque il suo bel sorriso mite, e perciò si limitò a evitare d’incrociare anche solo per un attimo lo sguardo con Pasquale; Maria infine, che di norma se vedeva la signora Peluso girava la faccia dall’altra parte, ignorò del tutto i due ragazzi e parlicchiò a lungo con la madre di Gigliola. Soprattutto, a sciogliere ogni tensione, ci fu che presto si cominciò a ballare, crebbe la baraonda, nessuno fece più caso a niente.

Prima ci furono i balli tradizionali e poi si passò a un ballo nuovo, il rock’n’roll, per il quale tutti, dai vecchi ai bambini, avevano una grandissima curiosità. Io, accaldata, mi ritirai in un angolo. Lo sapevo ballare, certo, il rock’n’roll, l’avevo ballato spesso a casa mia con Peppe, mio fratello, e a casa di Lila, la domenica, con lei, ma mi sentivo troppo goffa per quei movimenti scattanti e agili e, sebbene a malincuore, decisi di stare a guardare.

Anche Lila del resto non mi era sembrata particolarmente brava: si muoveva in modo un po’ ridicolo, glielo avevo perfino detto, e lei aveva preso la critica come una sfida e si era accanita ad allenarsi da sola, visto che anche

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Rino si rifiutava di ballarlo. Ma, perfezionista com’era in tutte le cose, quella sera decise anche lei con mia soddisfazione di starsene da parte accanto a me a guardare come ballavano bene Pasquale e Carmela Peluso.

A un certo momento, però, le si avvicinò Enzo. Il bambino che ci aveva lanciato le pietre, che a sorpresa aveva gareggiato con Lila in aritmetica, che le aveva regalato una volta un serto di sorbe, negli anni era stato come risucchiato in un organismo di bassa statura ma potente, abituato alla fatica dura. Sembrava, a vederlo, più vecchio anche di Rino che tra noi era il più grande. Si vedeva bene in ogni suo tratto che si alzava prima dell’alba, che aveva a che fare con la camorra del mercato ortofrutticolo, che andava in tutte le stagioni, col freddo, con la pioggia, a vendere frutta e ortaggi con la carretta, girando per le strade del rione. Nel viso di biondo, però, tutto chiaro, sopracciglia e ciglia bionde, occhi blu, c’era ancora un residuo del bambino ribelle con cui avevamo avuto a che fare. Per il resto, Enzo era di pochissime parole tranquille, tutte in dialetto, a nessuna di noi sarebbe venuto in mente di scherzarci, farci conversazione. Fu lui a prendere l’iniziativa. Chiese a Lila perché non ballava. Lei rispose: perché questo ballo non lo so fare ancora bene. Lui stette zitto per un po’, poi disse: nemmeno io. Ma quando fu messo un altro rock’n’roll la prese per un braccio con naturalezza e la sospinse in mezzo alla sala. Lila, che se solo uno la sfiorava senza il suo permesso schizzava di lato come se fosse stata punta da una vespa, non reagì, tanta evidentemente era la voglia di ballare. Lo guardò anzi con gratitudine e si abbandonò alla musica.

Si vide subito che Enzo non ci sapeva fare granché. Si muoveva poco, in modo serio e compassato, ma era molto attento a Lila, desiderava palesemente farle piacere, permetterle di esibirsi. E lei, pur non essendo brava come Carmen, riuscì al solito a guadagnarsi l’attenzione di tutti. Anche a Enzo piace, mi dissi desolata. E – me ne accorsi subito – persino a Stefano, il salumiere: la guardò tutto il tempo come si guarda una diva al cinema.

Ma proprio mentre Lila ballava arrivarono i fratelli Solara.

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