"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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La furia scintillante della città lentamente si attenuò, si estinse, lasciando emergere il rumore delle auto, dei clacson. Ricomparvero ampie zone di cielo buio. Il balcone dei Solara diventò, pur nel fumo, pur tra i bagliori, più visibile.

Erano a poca distanza, li vedevamo. Il padre, i figli, i parenti, gli amici, erano presi come noi dalla voglia di caos. Lo sapevano tutti, nel rione, che ciò che era accaduto fino a quel momento era ben poco, loro si sarebbero scatenati davvero solo quando i pezzenti l’avessero finita con le festicciole e gli scoppiettii meschini e le pioggerelle d’argento e d’oro, solo nel momento

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in cui padroni assoluti della festa sarebbero rimasti loro.

E così fu. Dal balcone il fuoco s’intensificò bruscamente, il cielo e la strada ricominciarono a esplodere. A ogni lancio, specie se il petardo faceva un rumore di annientamento, dal balcone arrivavano oscenità entusiastiche.

Ma, a sorpresa, ecco che Stefano, Pasquale, Antonio, Rino presero a rispondere con altri lanci ed equivalenti oscenità. A razzo dei Solara loro opponevano razzo, a trictrac trictrac, e in cielo si allargavano corolle mirabili e di sotto la strada avvampava, tremava, e Rino a un certo punto montò addirittura in piedi sul parapetto urlando insulti e lanciando botte potentissime mentre sua madre strillava di terrore, gridava: «Scendi, se no cadi giù».

A quel punto il panico travolse Melina, che cominciò a lanciare urla sottili e lunghe. Ada sbuffò, toccava a lei portarla via, ma Alfonso le fece un cenno, se ne occupò lui e sparì di sotto con la donna. Mia madre li seguì subito zoppicando, e anche le altre cominciarono a tirar via i bambini. Le esplosioni causate dai Solara stavano diventando sempre più potenti, un loro razzo invece di finire in cielo scoppiò contro il parapetto del nostro terrazzo con un bagliore rosso fragoroso e fumo soffocante.

«L’hanno fatto apposta» gridò Rino a Stefano, fuori di sé.

Stefano, un profilo scuro nel gelo, gli fece cenno di calmarsi. Corse in un angolo dove aveva depositato lui stesso una cassetta che noi ragazze avevamo ricevuto l’ordine di non toccare, e attinse di lì invitando gli altri a servirsi.

«Enzo» gridò senza più nemmeno l’ombra dei toni fievoli da negoziante,

«Pascà, Rino, Antò, qua, forza, qua, facciamogli sentire quello che ci abbiamo noi».

Tutti accorsero ridendo. Ripetevano: sì, facciamoglielo sentire, tiè, strunz, tiè, e facevano gesti osceni verso il balcone dei Solara. Noi guardavamo le loro frenetiche forme nere tremando sempre più di freddo. Eravamo rimaste sole, senza alcun ruolo. Anche mio padre era sceso di sotto insieme allo scarparo. Lila non so, era muta, presa dallo spettacolo come da un enigma.

Le stava accadendo la cosa a cui ho già fatto cenno e che lei in seguito chiamò smarginatura. Fu – mi disse – come se in una notte di luna piena sul mare, una massa nerissima di temporale avanzasse per il cielo, ingoiasse ogni chiarore, logorasse la circonferenza del cerchio lunare e sformasse il disco lucente riducendolo alla sua vera natura di grezza materia insensata. Lila immaginò, vide, sentì – come se fosse vero – suo fratello che si rompeva.

Rino, davanti ai suoi occhi, perse la fisionomia che aveva sempre avuto da

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quando se lo ricordava, la fisionomia del ragazzo generoso, onesto, i lineamenti gradevoli della persona affidabile, il profilo amato di chi da sempre, da quando lei aveva memoria, l’aveva divertita, aiutata, protetta. Lì, in mezzo a esplosioni violentissime, nel gelo, tra i fumi che bruciavano le narici e l’odore violento dello zolfo, qualcosa violò la struttura organica di suo fratello, esercitò su di lui una pressione così intensa che ne spezzò i contorni, e la materia si espanse come un magma mostrandole di che cosa era veramente fatto. Ogni secondo di quella notte di festa le fece orrore, ebbe l’impressione che come Rino si muoveva, come spandeva intorno se stesso, ogni margine cadeva e anche lei, i suoi margini, diventavano sempre più molli e cedevoli. Faticò a mantenere il controllo, ma ci riuscì, poco o niente della sua angoscia si manifestò all’esterno. Vero è che nel tumulto di esplosioni e colori le badai poco. Mi colpì, credo, la sua espressione sempre più spaurita. Mi accorsi anche che fissava l’ombra del fratello – il più attivo, il più sbruffone, quello che urlava in modo più esagerato insulti sanguinosi in direzione del terrazzo dei Solara – con repulsione. Pareva che ne fosse, lei che in genere non temeva nulla, spaventata. Ma furono impressioni a cui ripensai solo in seguito. In quel momento non ci feci caso, mi sentivo vicina a Carmela, a Ada, più che a lei. Sembrava come al solito non avere nessun bisogno delle attenzioni maschili. Noi invece, così al freddo, in mezzo al caos, senza quelle attenzioni non riuscivamo a darci un significato. Avremmo preferito che Stefano o Enzo o Rino smettessero la guerra, ci passassero un braccio intorno alle spalle, ci premessero il fianco contro il fianco, e ci dicessero parole complimentose. Invece ce ne stavamo strette tra noi per riscaldarci, mentre loro si precipitavano ad afferrare cilindri con grosse micce, stupefatti dalla riserva infinita di fuochi di Stefano, ammirati dalla sua generosità, turbati da quanto denaro era possibile trasformare in scie, scintille, esplosioni, fumo, per la pura soddisfazione di averla vinta.

Gareggiarono coi Solara per non so quanto tempo, esplosioni da un lato e dall’altro come se terrazza e balcone fossero trincee, e tutto il rione sussultò, vibrò. Non si capiva più nulla, boati, vetri schiacciati, cielo sfondato. Anche quando Enzo gridò: «Hanno finito, non hanno più niente», i nostri continuarono, Rino soprattutto continuò, finché non restò più nemmeno una miccia da bruciare. Quindi levarono tutti un coro vittorioso saltando o abbracciandosi. Infine si calmarono, arrivò il silenzio.

Ma durò poco, fu interrotto dal montare di un pianto lontano di bambino, da grida e insulti, da auto che avanzavano per le strade ingombre di detriti. E

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poi vedemmo lampi sul balcone dei Solara, ci arrivarono rumori secchi, pah, pah. Rino gridò deluso: «Ricominciano». Ma Enzo, che capì al volo quello che stava succedendo, fu il primo a spingerci dentro, e dopo di lui anche Pasquale, anche Stefano. Solo Rino seguitò a lanciare insulti pesanti, sporgendosi dal parapetto del terrazzo, tanto che Lila scansò Pasquale e corse a tirare dentro il fratello urlandogli insulti a sua volta. Noi ragazze calammo di sotto gridando. I Solara, pur di averla vinta, ci stavano sparando addosso.

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23.

Di quella notte, l’ho detto, mi sfuggirono molte cose. Ma soprattutto, travolta dall’atmosfera di festa e di pericolo, dal turbinio dei maschi i cui corpi emanavano una vampa più bruciante dei fuochi nel cielo, trascurai Lila.

Eppure fu allora che si verificò il primo suo cambiamento interiore.

Di cosa le fosse accaduto, l’ho detto, non mi accorsi, il movimento era difficile da percepire. Ma delle conseguenze mi resi conto quasi subito.

Diventò più pigra. Io, già due giorni dopo, mi alzai presto, anche se non avevo scuola, per accompagnarla ad aprire il negozio e aiutarla a fare le pulizie, ma lei non comparve. Arrivò tardi, imbronciata, e passeggiammo per il rione evitando la calzoleria.

«Non vai a lavorare?».

«No».

«E perché?».

«Non mi piace più».

«E le scarpe nuove?».

«Stanno in alto mare».

«E allora?».

Mi sembrò che non sapesse nemmeno lei cosa volesse. L’unica cosa certa è che pareva molto preoccupata per il fratello, assai più di quanto l’avessi vista negli ultimi tempi. E fu proprio a partire da quella preoccupazione che cominciò a modificare i suoi discorsi sulla ricchezza. C’era sempre l’urgenza di diventare ricche, su questo non si discuteva, ma lo scopo non era più lo stesso dell’infanzia: niente forzieri, niente bagliore di monete e pietre preziose. Ora pareva che i soldi, nella sua testa, fossero diventati un cemento: consolidavano, rinforzavano, aggiustavano questo e quello. Aggiustavano soprattutto la testa di Rino. Il paio di scarpe che avevano fatto insieme lui lo riteneva ormai bell’e pronto e voleva farlo vedere a Fernando. Ma Lila sapeva bene (e secondo lei lo sapeva anche Rino) che il lavoro era pieno di pecche, che il padre avrebbe esaminato le scarpe e le avrebbe buttate. Perciò gli diceva che bisognava provare e riprovare, che la via per il calzaturificio

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era un percorso difficile; ma lui non voleva aspettare più, aveva urgenza di diventare come i Solara, come Stefano, e Lila non riusciva a farlo ragionare.

All’improvviso mi parve addirittura che la ricchezza in sé non la interessasse più. Parlava di soldi senza niente più di luminoso, erano solo un rimedio per evitare che suo fratello combinasse guai. «Tutta colpa mia» cominciò ad ammettere almeno con me, «gli ho fatto credere che la buona fortuna stia dietro l’angolo». Ma poiché dietro l’angolo non c’era, si chiedeva con occhi cattivi cosa doveva inventarsi per sedarlo.

Rino infatti smaniava. Fernando, per esempio, non rimproverò mai Lila per aver smesso di andare nella calzoleria, anzi: le fece capire che era contento se restava a casa ad aiutare la madre. Il fratello invece si arrabbiò e già nei primi giorni di gennaio assistetti a un’altra brutta litigata. Rino arrivò a testa bassa, ci bloccò per strada, le disse: «Vieni subito a lavorare». Lila gli rispose che non ci pensava nemmeno. Lui allora la tirò per un braccio, lei si ribellò con un brutto insulto, Rino le diede uno schiaffo, le gridò: «Allora va’ a casa, va’

ad aiutare mamma». Obbedì, non mi salutò nemmeno e se ne andò.

Il culmine del conflitto fu raggiunto nel giorno della Befana. Lei, pare, si svegliò e trovò accanto al letto un calzino pieno di carbone. Capì che era stato Rino e a colazione apparecchiò per tutti ma non per lui. Comparve la madre: il figlio le aveva lasciato appesa a una sedia una calza con caramelle e cioccolato, cosa che l’aveva commossa, stravedeva per quel ragazzo. Perciò, quando si accorse che il posto di Rino non era apparecchiato, provò a farlo lei ma Lila glielo impedì. Mentre madre e figlia litigavano comparve il fratello e Lila subito gli lanciò un pezzo di carbone. Rino rise pensando che fosse un gioco, che lei avesse apprezzato lo scherzo, ma quando si accorse che la sorella faceva sul serio cercò di afferrarla per picchiarla. Fu allora che comparve Fernando, in mutande e maglia della salute, una scatola di cartone in mano.

«Guardate cosa mi ha portato la Befana» disse e si vedeva che era molto arrabbiato.

Tirò fuori dalla scatola le scarpe nuove fabbricate segretamente dai due figli. Lila restò a bocca aperta per la sorpresa. Non sapeva niente di quella iniziativa, Rino aveva deciso da solo di mostrare al padre il loro lavoro come se fosse un dono della Befana.

Quando vide sul viso del fratello un sorrisetto divertito e insieme angosciato, quando ne colse lo sguardo allarmato che sorvegliava il viso del padre, le parve di avere la conferma di ciò che l’aveva spaventata sul

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terrazzo, in mezzo ai fumi e alle botte: Rino aveva perso il suo profilo solito, lei adesso aveva un fratello smarginato da cui poteva fuoriuscire l’irrimediabile. In quel sorriso, in quello sguardo vide qualcosa di insopportabilmente meschino, tanto più insopportabile quanto più continuava ad amare il fratello, a sentire il bisogno di stargli accanto per aiutarlo ed essere aiutata.

«Come sono belle» disse Nunzia, che ignorava tutto della storia delle calzature.

Fernando, senza dire una parola, con l’espressione di un Randolph Scott incollerito, si sedette e infilò prima la scarpa destra e poi la sinistra.

«La Befana» disse, «le ha fatte proprio per i piedi miei».

Si alzò, le provò, andò avanti e indietro per la cucina sotto lo sguardo dei suoi familiari.

«Veramente comode» commentò.

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