"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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«Sono scarpe da gran signore» disse la moglie lanciando al figlio sguardi appassionati.

Fernando tornò a mettersi seduto. Se le tolse, le esaminò sopra, sotto, dentro e fuori.

«Chi ha fatto queste scarpe è un maestro» disse, però senza rischiararsi in viso nemmeno un poco. «Brava, la Befana».

In ogni parola si sentiva quanto soffrisse e quanto la sua sofferenza lo stesse caricando della voglia di spaccare tutto. Ma Rino pareva non accorgersene. A ogni parola sarcastica del padre diventava sempre più fiero, sorrideva tutto rosso, formulava frasi mozze: ho fatto così, papà, ho aggiunto questo, ho pensato che. Lila invece voleva uscire dalla cucina, sottrarsi alla sfuriata imminente del padre, ma non riusciva a decidersi, non voleva lasciare solo il fratello.

«Sono leggere e insieme robuste» continuò Fernando, «non c’è niente di arronzato. E soprattutto io non le ho viste mai ai piedi di nessuno, con questa punta larga sono assai originali».

Si sedette, le calzò di nuovo, se le allacciò. Disse al figlio:

«Girati, Rinù, che devo ringraziare la Befana».

Rino pensò a uno scherzo che avrebbe chiuso definitivamente tutta la loro lunga controversia e si girò, felice e imbarazzato insieme. Ma appena accennò a voltare le spalle il padre lo colpì con un calcio violentissimo nel sedere e lo chiamò bestia, coglione, e gli lanciò tutto quello che gli capitava sottomano, alla fine anche le scarpe.

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Lila si mise in mezzo solo quando vide che il fratello, all’inizio attento solo a proteggersi da pugni e calci, cominciava a urlare anche lui rovesciando sedie, spaccando piatti, piangendo, giurando che si sarebbe ucciso piuttosto che continuare a lavorare gratis per suo padre, terrorizzando la mamma, gli altri fratelli e il vicinato. Ma inutilmente. Padre e figlio dovettero prima sfogarsi fino a esaurire le forze. Poi tornarono a lavorare insieme, muti, chiusi nella botteguccia con le loro disperazioni.

Delle scarpe per un po’ non si parlò più. Lila decise definitivamente che il suo ruolo era aiutare sua madre, fare la spesa, cucinare, lavare i panni, stenderli al sole e non andò mai più nella calzoleria. Rino, intristito, immusonito, sentì la cosa come un torto incomprensibile e cominciò a pretendere che la sorella gli facesse trovare calzini e mutande e camicie in ordine nel suo cassetto, che lo servisse e riverisse quando tornava dal lavoro.

Se qualcosa non era di suo gradimento protestava, diceva cose sgradevoli tipo: neanche una camicia sai stirare, stronza. Lei faceva spallucce, non protestava, passò a eseguire i suoi compiti con attenzione e cura.

Il ragazzo stesso, naturalmente, non era contento di comportarsi così, si torceva, cercava di calmarsi, faceva non pochi sforzi per tornare quello di una volta. Nelle giornate buone, la domenica mattina per esempio, le gironzolava intorno scherzando, assumeva toni gentili. «Ce l’hai con me perché mi sono preso tutto il merito delle scarpe? Ma l’ho fatto» diceva mentendo, «per evitare che papà si arrabbiasse anche con te». E poi le chiedeva: «Aiutami, cosa dobbiamo fare adesso? Non possiamo restare fermi, io devo uscire da questa situazione». Lila zitta: cucinava, stirava, a volte lo baciava su una guancia per fargli capire che non era più arrabbiata. Ma intanto lui era già tornato ad arrabbiarsi e finiva sempre per spaccare qualcosa. Le gridava che a tradirlo era stata lei, e ancor più lo avrebbe tradito, visto che presto o tardi si sarebbe sposata con qualche imbecille e se ne sarebbe andata lasciandolo a vivere nella miseria per sempre.

Lila a volte, quando in casa non c’era nessuno, andava nello stanzino dove aveva nascosto le scarpe e le tastava, se le guardava, meravigliata lei stessa che bene o male c’erano e che erano nate grazie a un disegnino su un foglio di quaderno. Quanta fatica buttata.

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24.

Tornai a scuola, fui tirata dentro i ritmi tormentosi che ci imponevano i professori. Molti miei compagni cominciarono a cedere, la classe prese ad assottigliarsi. Gino collezionò insufficienze e mi chiese aiuto. Provai ad aiutarlo ma in realtà voleva solo che gli facessi copiare i compiti. Lo lasciai copiare ma era svogliato: persino quando copiava non metteva attenzione, non si sforzava di capire. Anche Alfonso, sebbene molto disciplinato, era in difficoltà. Un giorno scoppiò a piangere durante l’interrogazione di greco, cosa che per un maschio era considerata molto umiliante. Si vide con chiarezza che avrebbe preferito morire piuttosto che versare una sola lacrima davanti alla classe, ma non ce la fece. Restammo tutti in silenzio, molto turbati, tranne Gino che, forse per la tensione, forse per la soddisfazione di vedere che anche per il suo compagno di banco si metteva male, scoppiò a ridere. All’uscita di scuola gli dissi che per via di quella risata non eravamo più fidanzati. Reagì chiedendomi preoccupato: «Ti piace Alfonso?». Gli spiegai che, semplicemente, non mi piaceva più lui. Balbettò che avevamo appena cominciato, non era giusto. Da fidanzati, tra noi non era accaduto granché: c’eravamo dati un bacio ma senza lingua, aveva cercato di toccarmi il petto e io mi ero arrabbiata, lo avevo respinto. Mi pregò di continuare ancora per un po’, restai ferma nella mia decisione. Seppi che non mi costava niente fare a meno di andare a scuola e tornare a casa sempre in sua compagnia.

Erano passati pochi giorni dalla rottura con Gino quando Lila mi confidò che aveva avuto due dichiarazioni quasi contemporaneamente, le prime della sua vita. Pasquale, una mattina, l’aveva raggiunta mentre andava a fare la spesa. Era macchiato di fatica, agitatissimo. Le aveva detto che s’era preoccupato perché non l’aveva più vista in calzoleria e aveva pensato che fosse ammalata. Ora però che la trovava bene in salute era felice. Ma mentre parlava, di felicità in viso non ne aveva nemmeno un po’. Si era interrotto come se si stesse strozzando e, per liberarsi la gola, aveva quasi gridato che le voleva bene. Le voleva così bene che, se lei era d’accordo, sarebbe venuto a

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parlare con suo fratello, con i suoi genitori, con chiunque, subito, per fidanzarsi in casa. Lei era rimasta senza parole, per qualche minuto aveva pensato che scherzasse. Vero che io le avevo detto mille volte che Pasquale le aveva messo gli occhi addosso, ma non mi aveva mai creduto. Adesso invece lui era lì, in una bellissima giornata di primavera, quasi con le lacrime agli occhi, e la supplicava, le diceva che la sua vita non valeva più niente se lei gli diceva di no. Quanto erano difficili da sbrogliare i sentimenti d’amore. Lila con molta cautela, pur senza dire mai no, aveva trovato le parole per rifiutarlo. Aveva detto che gli voleva bene anche lei, ma non come si deve voler bene a un fidanzato. Aveva detto anche che gli sarebbe stata grata sempre per tutte le cose che le aveva spiegato: il fascismo, la resistenza, la monarchia, la repubblica, la borsa nera, il comandante Lauro, i missini, la Democrazia cristiana, il comunismo. Ma fidanzarsi no, non si sarebbe mai fidanzata con nessuno. E aveva concluso: «A tutti voi, ad Antonio, a te, a Enzo, voglio bene come voglio bene a Rino». Pasquale allora aveva mormorato: «Io invece non ti voglio bene come a Carmela». Era scappato via e se n’era tornato a faticare.

«E l’altra dichiarazione?» le chiesi incuriosita ma anche un po’ in ansia.

«Non te lo immagineresti mai».

L’altra dichiarazione gliel’aveva fatta Marcello Solara.

Nell’udire quel nome sentii una fitta allo stomaco. Se l’amore di Pasquale era un segno di quanto Lila fosse capace di piacere, l’amore di Marcello, un giovane bello, ricco, con l’automobile, duro, violento, camorrista, abituato cioè a prendersi le femmine che voleva, era ai miei occhi, agli occhi di tutte le mie coetanee, malgrado la pessima fama che aveva, anzi forse anche per quella, una promozione, il passaggio da ragazzina smagrita a donna capace di piegare a sé chiunque.

«E com’è successo?».

Marcello era alla guida del Millecento, da solo, senza il fratello, e l’aveva vista mentre tornava a casa lungo lo stradone. Non aveva accostato, non le aveva parlato dal finestrino. Aveva lasciato la macchina in mezzo alla strada, con lo sportello aperto, e l’aveva raggiunta. Lila aveva seguitato a camminare, e lui dietro. L’aveva supplicata di perdonarlo per come si era comportato tempo prima, aveva ammesso che lei avrebbe fatto benissimo ad ammazzarlo col trincetto. Le aveva ricordato commosso come avevano ballato bene il rock alla festa della madre di Gigliola, segno di quanto potevano essere affiatati. S’era messo a farle, infine, molti complimenti:

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«Come ti sei fatta grande, che begli occhi che hai, quanto sei bella». E poi le aveva raccontato il sogno che aveva fatto quella notte: lui le chiedeva di fidanzarsi, lei gli diceva di sì, lui le regalava un anello di fidanzamento identico all’anello di fidanzamento di sua nonna, che aveva nella fascia del castone tre diamanti. Lila finalmente, seguitando a camminare, aveva parlato.

Gli aveva chiesto: «In questo sogno ti ho detto sì?». Marcello gliel’aveva confermato e lei aveva replicato: «Allora era proprio un sogno, perché sei un animale, tu e la tua famiglia, tuo nonno, tuo padre, tuo fratello, e con te non mi fidanzerei nemmeno se mi dici che m’ammazzi».

«Gli hai detto così?».

«Gli ho detto anche di più».

«Cioè?».

Quando Marcello, offeso, le aveva replicato che i suoi erano sentimenti molto delicati, che notte e giorno pensava con amore solo a lei, che perciò non era un animale ma uno che l’amava, lei gli aveva risposto che se una persona si comportava come s’era comportato lui con Ada, se quella stessa persona la notte di Capodanno si metteva a sparare con la pistola contro la gente, dirgli animale era offendere gli animali. Marcello aveva capito finalmente che non stava scherzando, che davvero lo considerava molto meno di una rana, di una salamandra, e si era all’improvviso depresso. Aveva mormorato fioco: «È stato mio fratello a sparare». Ma già mentre parlava aveva capito che dopo quella frase lei lo avrebbe disprezzato ancora di più.

Cosa verissima. Lila aveva affrettato il passo e quando lui aveva provato a tenerle dietro, gli aveva gridato: «Vattene» e s’era messa a correre. Marcello allora si era fermato come se non si ricordasse dov’era e cosa doveva fare, quindi era tornato al Millecento a testa bassa.

«Tu hai fatto questo a Marcello Solara?».

«Sì».

«Sei pazza: non lo dire a nessuno che l’hai trattato così».

Lì per lì mi sembrò una raccomandazione superflua, dissi quella frase tanto per mostrare che prendevo a cuore la sua vicenda. Lila era di carattere una che godeva a ragionare e fantasticare sui fatti, ma non faceva mai pettegolezzi, a differenza di noi che stavamo di continuo a spettegolare. E

difatti dell’amore di Pasquale parlò solo a me, non ho mai saputo che l’avesse raccontato ad altri. Invece di Marcello Solara parlò a tutti. Tant’è vero che incontrai Carmela e lei mi disse: «Hai saputo che la tua amica ha detto no a Marcello Solara?». Incontrai Ada che mi disse: «Nientemeno la tua amica ha

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detto no a Marcello Solara». Pinuccia Carracci, in salumeria, mi sussurrò all’orecchio: «È vero che la tua amica ha detto no a Marcello Solara?».

Perfino Alfonso mi disse un giorno a scuola, stupefatto: «La tua amica ha detto no a Marcello Solara?».

Quando vidi Lila, le dissi: «Hai fatto male a dirlo a tutti, Marcello si arrabbierà».

Lei fece spallucce. Aveva da fare coi fratelli, la casa, la madre, il padre, e non si fermò a parlare molto. Ormai, da dopo la notte di Capodanno, si occupava solo di faccende domestiche.

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25.

Proprio così. Per tutto il resto dell’anno scolastico Lila si disinteressò totalmente di ciò che facevo a scuola. E quando le chiesi che libri prendeva in biblioteca, cosa leggeva, rispose cattiva: «Non prendo più niente, i libri mi fanno male alla testa».

Io invece studiavo, ormai, leggevo quasi per una piacevole abitudine. Ma dovetti constatare presto che, da quando Lila aveva smesso di incalzarmi, di anticiparmi nello studio e nelle letture, la scuola, o anche la biblioteca del maestro Ferraro, aveva smesso di essere una specie di avventura ed era diventata soltanto una cosa che sapevo fare bene e per la quale ricevevo molte lodi.

Me ne resi conto con chiarezza in due occasioni.

Are sens