"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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«No».

«Significa che non è una buona scuola».

«È un liceo classico» dissi io piccata.

«Non è buono» insistette lui, «sta’ sicura che se non c’è gente così non è buono: vero Lila che non è buono?».

«Buono?» disse Lila e indicò una ragazza bionda che stava venendo verso di noi in compagnia di un giovane bruno, pullover candido a V, alto: «Se non c’è una come quella, la tua scuola fa schifo». E scoppiò a ridere.

La ragazza era tutta in verde: scarpe verdi, gonna verde, giacca verde e in testa – era questo soprattutto che faceva ridere Lila – aveva una bombetta come quella di Charlot, anch’essa verde.

L’ilarità passò da lei a noi ragazzi. Quando la coppia ci passò accanto Rino fece un commento molto pesante su che cosa la signorina in verde ci doveva fare, con la bombetta, e Pasquale si fermò, tanto gli venne da ridere, e si appoggiò al muro con un braccio. La ragazza e il suo accompagnatore fecero pochi passi, poi si fermarono. Il ragazzo col pullover bianco si girò, trattenuto subito per un braccio dalla ragazza. Lui si divincolò, tornò indietro, si rivolse direttamente a Rino con una serie di frasi insultanti. Fu un attimo. Rino lo abbatté con un pugno in faccia gridando:

«Come m’hai chiamato? Non ho capito, ripeti, come m’hai chiamato? Hai sentito, Pascà, come m’ha chiamato?».

Noi ragazze passammo bruscamente dal riso allo spavento. Lila per prima si slanciò sul fratello prima che colpisse a calci il giovane a terra e lo trascinò via con un’espressione incredula, come se mille frammenti della nostra vita, dall’infanzia a quel nostro quattordicesimo anno, stessero componendo un’immagine finalmente nitida che in quel momento però le sembrava inverosimile.

Sospingemmo via Rino e Pasquale, mentre la ragazza con la bombetta aiutava il fidanzato a risollevarsi. L’incredulità di Lila intanto si stava mutando in furia disperata. Proprio mentre lo tirava via investì il fratello con insulti volgarissimi, lo tirò per un braccio, lo minacciò. Rino la tenne a bada con una mano, un riso nervoso sulla faccia, e intanto si rivolse a Pasquale:

«Mia sorella si pensa che qua si gioca, Pascà» disse in dialetto con occhi pazzi, «mia sorella si pensa che se io dico là è meglio che non ci andiamo lei

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può fare quella che sa sempre tutto, che capisce sempre tutto, come al solito, e andarci per forza». Piccola pausa per controllare il respiro, poi aggiunse:

«Hai sentito ca chillu strunz m’ha chiamato tàmmaro? Tàmmaro a me?

Tàmmaro?». E ancora, sopraffatto dall’affanno: «Mia sorella m’ha portato qua e mo’ vede se mi faccio dire tàmmaro, mo’ vede che faccio se a me mi chiamano tàmmaro».

«Calma, Rino» gli rispose Pasquale cupo, guardandosi ogni tanto alle spalle, in allarme.

Rino restò agitato, ma sottotono. Lila invece si calmò. Ci fermammo a piazza dei Martiri. Pasquale disse, quasi freddo, rivolgendosi a Carmela:

«Voi adesso ve ne tornate a casa».

«Noi sole?».

«Sì».

«No».

«Carmè, non voglio discutere: andatevene».

«Non sappiamo tornare».

«Non dire bugie».

«Va’» disse Rino a Lila, cercando di contenersi, «pigliati un po’ di soldi, per strada vi comprate il gelato».

«Siamo usciti insieme e torniamo insieme».

Rino perse la pazienza di nuovo, le diede uno spintone:

«Ma tu la vuoi finire? Il fratello grande sono io e devi fare quello che ti dico. Muoviti, su, vai, che non ci metto niente a spaccarti la faccia».

Vidi che era pronto a farlo sul serio, tirai per un braccio Lila. Capì anche lei che rischiava:

«Lo dico a papà».

«E chi se ne fotte. Cammina, su, fila, non ti meriti nemmeno il gelato».

Incerte ci allontanammo su per Santa Caterina. Ma dopo un po’ Lila ci ripensò, si fermò, disse che tornava dal fratello. Cercammo di convincerla a restare con noi, ma non ne voleva sapere. Proprio mentre stavamo discutendo vedemmo un gruppo di ragazzi, cinque, forse sei, sembravano i canottieri che certe volte avevamo ammirato nelle passeggiate della domenica sotto Castel dell’Ovo. Erano tutti alti, ben piantati, ben vestiti. Alcuni avevano un bastone, altri no. Passarono accanto alla chiesa a passo svelto e andarono verso la piazza. Tra loro c’era il giovane che Rino aveva colpito in faccia, aveva il maglione a V sporco di sangue.

Lila si liberò della mia stretta e corse via, io e Carmela dietro. Arrivammo

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in tempo per vedere Rino e Pasquale che arretravano verso il monumento al centro della piazza, fianco a fianco, e il gruppo di quelli ben vestiti che gli correvano addosso e li colpivano coi bastoni. Gridammo aiuto, cominciammo a piangere, a bloccare passanti, ma i bastoni spaventavano, la gente non faceva nulla. Lila afferrò uno degli aggressori per un braccio ma fu buttata per terra. Vidi Pasquale in ginocchio, colpito a calci, vidi Rino che si riparava col braccio dalle bastonate. Poi si fermò una macchina ed era il Millecento dei Solara.

Ne scese subito Marcello, che prima tirò su Lila e poi, aizzato da lei che strillava di rabbia e chiamava il fratello, si gettò nella mischia tirando cazzotti e ricevendone. Solo a quel punto dall’automobile uscì Michele, aprì con comodo il portabagagli, prese qualcosa che pareva un pezzo di ferro lucente ed entrò nella mischia picchiando con una ferocia fredda che spero di non vedere mai più nella vita. Rino e Pasquale si risollevarono furiosi, ora picchiavano, stringevano, strappavano, e mi sembravano due sconosciuti tanto erano trasformati dall’odio. I giovani ben vestiti furono messi in fuga.

Michele s’accostò a Pasquale che sanguinava dal naso, ma Pasquale lo respinse in malo modo e si passò in faccia la manica della camicia bianca, poi se la guardò bagnata di rosso. Marcello raccolse da terra un mazzo di chiavi e lo diede a Rino, che ringraziò a disagio. La gente che prima s’era allontanata ora si avvicinava incuriosita. Io ero paralizzata dalla paura.

«Portatevi via le ragazze» disse Rino ai due Solara, col tono grato di chi fa una richiesta che sa ineludibile.

Marcello ci costrinse a entrare in macchina, per prima Lila che faceva più resistenza. Ci ficcammo tutte sul sedile di dietro, l’una sulle ginocchia dell’altra, partimmo. Mi girai a guardare Pasquale e Rino che si allontanavano verso la Riviera, Pasquale zoppicava. Mi sentii come se il rione si fosse allargato e avesse inglobato tutta Napoli, anche le vie della gente perbene. In auto ci furono subito tensioni. Gigliola e Ada erano molto seccate, protestarono per come si viaggiava scomode. «Non è possibile»

dicevano. «Allora scendete e andate a piedi» gridò Lila e stavano per picchiarsi. Marcello frenò divertito. Gigliola scese e, con un’andatura lenta da principessa, s’andò a sedere davanti, sulle ginocchia di Michele. Facemmo il viaggio così, con Gigliola e Michele che si baciavano di continuo sotto i nostri occhi. Io la guardavo e lei, mentre dava baci appassionati, guardava me. Giravo subito lo sguardo.

Lila non disse più niente finché non arrivammo al rione. Marcello buttò lì

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qualche parola, cercandola con lo sguardo nello specchietto retrovisore, ma lei non gli rispose mai. Ci facemmo lasciare lontano da casa per evitare che ci vedessero nella macchina dei Solara. Il resto della strada lo facemmo a piedi, noi cinque ragazze. A parte Lila, che sembrava mangiata dalle furie e dalle preoccupazioni, eravamo tutte molto ammirate dal comportamento dei due fratelli. Bravi, dicevamo, hanno fatto bene. Gigliola ripeteva di continuo: «E

certo», «E che vi credevate», «E sicuro» con l’aria di chi, lavorando nella pasticceria, sapeva bene che gente di qualità erano i Solara. A un certo punto mi chiese, ma con l’aria di chi prende in giro:

«A scuola com’è?».

«Bello».

«Però non ti diverti come mi diverto io».

«È un altro tipo di divertimento».

Quando lei, Carmela e Ada ci lasciarono per infilarsi nei portoni di casa loro io dissi a Lila:

«Certo che i signori sono peggio di noi».

Are sens