"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » Italian Books » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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quel punto scoppiai a piangere anch’io e un attimo dopo – cosa che mi commosse ancora di più – pianse Lila, che non avevo mai visto piangere, mai.

Eravamo già quattro ragazze in lacrime, e lacrime disperate. Ma Pasquale si ammorbidì solo quando vide piangere lei. Disse con tono rassegnato: «Va bene, stasera no, con i Solara risolverò un’altra volta, andiamo». Subito, tra i singhiozzi, io e Lila lo prendemmo sottobraccio, lo trascinammo via. Per un po’ lo consolammo dicendo malissimo dei Solara, ma anche sostenendo che la cosa migliore era fare come se non esistessero. Poi Lila chiese, asciugandosi le lacrime col dorso della mano:

«Chi sono i nazifascisti, Pascà? Chi sono i monarchici? Cos’è la borsa nera?».

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17.

È difficile dire cosa fecero a Lila le risposte di Pasquale, rischio di raccontarlo in modo sbagliato, anche perché su di me, all’epoca, esse non ebbero nessun effetto concreto. Invece lei, al suo modo solito, ne fu attraversata e modificata, tanto che fino alla fine dell’estate mi ossessionò con un unico concetto, per me abbastanza insopportabile. Uso la lingua di oggi e provo a riassumere così: non ci sono gesti, parole, sospiri che non contengano la somma di tutti i crimini che hanno commesso e commettono gli esseri umani.

Naturalmente lei lo diceva in un altro modo. Ma quel che conta è che venne presa da una frenesia dello svelamento assoluto. Mi indicava la gente per strada, le cose, le vie, e diceva:

«Quello ha fatto la guerra e ha ammazzato, quello ha manganellato e dato l’olio di ricino, quello ha denunciato un sacco di persone, quello ha affamato pure sua madre, in quella casa hanno torturato e ucciso, su questa pietra hanno marciato e fatto il saluto romano, a quest’angolo hanno bastonato, i soldi di questi vengono dalla fame di questi altri, questa automobile è stata comprata vendendo pane con la polvere di marmo e carne marcia alla borsa nera, quella macelleria è nata rubando rame e scassinando treni merci, dietro quel bar c’è la camorra, il contrabbando, l’usura».

Presto non si accontentò di Pasquale. Era come se lui le avesse avviato un congegno nella testa e ora il suo compito fosse mettere ordine in una massa caotica di suggestioni. Sempre più tesa, sempre più ossessionata, probabilmente lei stessa travolta dall’urgenza di sentirsi chiusa in una visione compatta, senza crepe, complicò le scarne informazioni di lui con qualche libro che pescò in biblioteca. Così diede motivazioni concrete, facce comuni al clima di astratta tensione che da bambine avevamo respirato nel rione. Il fascismo, il nazismo, la guerra, gli Alleati, la monarchia, la repubblica, lei li fece diventare strade, case, facce, don Achille e la borsa nera, Peluso il comunista, il nonno camorrista dei Solara, il padre Silvio, fascista peggio ancora di Marcello e Michele, e suo padre Fernando lo scarparo, e mio padre,

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tutti tutti tutti ai suoi occhi macchiati fin nelle midolla da colpe tenebrose, tutti criminali incalliti o complici acquiescenti, tutti comprati con le briciole.

Lei e Pasquale mi chiusero dentro un mondo terribile che non lasciava scampo.

Poi Pasquale stesso cominciò a tacere, vinto anche lui dalla capacità di Lila di saldare una cosa all’altra in una catena che ti stringeva da tutti i lati. Li guardavo passeggiare spesso insieme e, se prima era lei a pendere dalle labbra di lui, ora era lui a pendere dalle labbra di lei. È innamorato, pensavo.

Pensavo anche: s’innamorerà pure Lila, si fidanzeranno, si sposeranno, parleranno sempre di queste cose politiche, faranno figli che parleranno a loro volta delle stesse cose. Quando ricominciarono le scuole, da un lato soffrii molto perché sapevo che non avrei avuto più tempo per Lila, dall’altro sperai di sottrarmi a quel suo sommare i misfatti e le acquiescenze e le vigliaccherie delle persone che conoscevamo, che amavamo, che portavamo – io, lei, Pasquale, Rino, tutti – nel sangue.

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18.

I due anni del ginnasio furono molto più faticosi delle medie. Finii in una classe di quarantadue alunni, una delle rarissime classi miste di quella scuola.

Le femmine erano pochissime, non ne conoscevo nessuna. Gigliola, dopo molte vanterie («Sì, vengo anch’io al ginnasio, è sicuro, ci mettiamo nello stesso banco»), finì ad aiutare il padre nella pasticceria Solara. Dei maschi, invece, conoscevo Alfonso e Gino, che però sedettero insieme in uno dei primi banchi, gomito contro gomito, con un’aria spaventata, e quasi fecero finta di non conoscermi. L’aula puzzava, un odore acido di sudore, piedi sporchi, paura.

Per i primi mesi vissi la mia nuova vita scolastica in silenzio, le dita sempre sulla fronte e sulle mascelle tempestate dall’acne. Seduta in una delle file in fondo da dove vedevo poco sia i professori che ciò che scrivevano alla lavagna, ero sconosciuta alla mia stessa compagna di banco come lei era sconosciuta a me. Grazie alla maestra Oliviero ebbi presto i libri che mi servivano, sporchi, strausurati. Mi imposi una disciplina imparata alla scuola media: studiavo tutto il pomeriggio fino alle ventitré e poi dalle cinque del mattino fino alle sette, quando era ora di andare. All’uscita di casa, carica di libri, mi succedeva spesso di incontrare Lila che correva in calzoleria ad aprire il negozio, a spazzare, a lavare, a mettere ordine prima che arrivassero il padre e il fratello. Lei m’interrogava sulle materie che avevo in giornata, su quello che avevo studiato, e voleva risposte precise. Se non gliele davo mi assillava con domande che mi mettevano l’ansia di non aver studiato abbastanza, di non essere in grado di rispondere ai professori come non ero in grado di rispondere a lei. In certe mattine fredde, quando mi alzavo all’alba e ripassavo in cucina le lezioni, avevo l’impressione che, come al solito, stessi sacrificando il sonno caldo e profondo del mattino per fare bella figura più con la figlia dello scarparo che con i professori della scuola dei signori.

Anche la colazione era frettolosa per colpa sua. Mandavo giù latte e caffè e correvo in strada solo per non perdermi nemmeno un metro del tratto che facevamo insieme.

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Aspettavo al portone. La vedevo arrivare dalla palazzina dove abitava e constatavo che stava continuando a cambiare. Era ormai più alta di me.

Camminava non come la bambina spigolosa che era stata fino a qualche mese prima, ma come se, arrotondandosi il corpo, anche il passo fosse diventato più morbido. Ciao, ciao, attaccavamo subito a parlare. Quando ci fermavamo all’incrocio e ci salutavamo, lei che andava alla calzoleria, io alla stazione della metropolitana, mi giravo di continuo per darle un ultimo sguardo. Una o due volte vidi che arrivava trafelato Pasquale e l’affiancava, l’accompagnava.

La metropolitana era affollata di ragazzini e ragazzine sporchi di sonno, del fumo delle prime sigarette. Io non fumavo, non parlavo con nessuno. Nei pochi minuti del percorso ripassavo atterrita le lezioni, mi appiccicavo freneticamente in testa linguaggi estranei, toni diversi da quelli in uso nel rione. Ero terrorizzata dal fallimento scolastico, dall’ombra sghemba di mia madre scontenta, dagli occhiacci della maestra Oliviero. Eppure avevo ormai un unico pensiero vero: trovarmi un fidanzato, subito, prima che Lila mi annunciasse che s’era messa con Pasquale.

Ogni giorno sentivo più forte l’angoscia di non fare in tempo. Temevo, tornando da scuola, di incontrarla e apprendere dalla sua stessa voce accattivante che ormai faceva l’amore con Peluso. O se non era lui, era Enzo.

O se non era Enzo, era Antonio. O, che so, Stefano Carracci, il salumiere, o persino Marcello Solara: Lila era imprevedibile. I maschi che le ronzavano intorno erano quasi uomini, pieni di pretese. Di conseguenza, tra progetto delle scarpe, letture sul mondo orribile dentro cui eravamo finite nascendo, e fidanzati, non avrebbe avuto più tempo per me. A volte, al ritorno da scuola, facevo un giro largo per non passare davanti alla calzoleria. Se invece vedevo lei in persona, da lontano, per l’angoscia cambiavo strada. Ma poi non resistevo e le andavo incontro come a una fatalità.

All’entrata, all’uscita del liceo, un enorme edificio grigio e buio in pessime condizioni, guardavo i ragazzi. Li guardavo con insistenza perché loro si sentissero il mio sguardo addosso e mi guardassero. Guardavo i miei coetanei del ginnasio, alcuni ancora coi pantaloni corti, altri con quelli alla zuava o lunghi. Guardavo i grandi, quelli del liceo, che erano per lo più in giacca e cravatta, mai un cappotto, dovevano dimostrare innanzitutto a se stessi di non patire il freddo: capelli a spazzola, nuche bianche per via della sfumatura alta.

Preferivo quelli ma mi sarei accontentata anche di uno del quinto ginnasio, l’essenziale era che avesse i pantaloni lunghi.

Un giorno uno studente mi colpì per la sua andatura dinoccolata,

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magrissimo, capelli bruni arruffati, un viso che mi sembrò bellissimo e con qualcosa di familiare. Quanti anni poteva avere: sedici, diciassette? Lo osservai bene, tornai a guardarlo e mi si fermò il cuore: era Nino Sarratore, il figlio di Donato Sarratore, il ferroviere-poeta. Ricambiò lo sguardo ma distrattamente, non mi riconobbe. La giacchetta era sformata ai gomiti, stretta di spalle, i pantaloni erano lisi, le scarpe bitorzolute. Non aveva nessun segno d’agiatezza come invece ne sfoggiavano Stefano e, soprattutto, i Solara. Suo padre, pur avendo scritto un libro di poesie, evidentemente non era ancora diventato ricco.

Fui molto turbata da quell’apparizione inattesa. All’uscita pensai di correre subito a raccontarlo a Lila, l’impulso fu violentissimo, ma poi cambiai idea.

Se gliel’avessi detto, sicuramente mi avrebbe chiesto di accompagnarmi a scuola per vederlo. E sapevo già cosa sarebbe accaduto. Come Nino non s’era accorto di me, come non aveva riconosciuto la bambina bionda e sottile delle elementari nella quattordicenne grassa e foruncolosa che ero diventata, così avrebbe riconosciuto subito Lila e ne sarebbe rimasto conquistato. Decisi di coltivarmi l’immagine di Nino Sarratore in silenzio, mentre usciva da scuola a capo chino con un’andatura dondolante e se la filava per corso Garibaldi.

Da quel giorno andai a scuola come se vederlo, o anche solo intravederlo, fosse l’unica ragione vera per andarci.

L’autunno volò. Fui interrogata in Eneide, una mattina, era la prima volta che venivo chiamata alla cattedra. Il professore, tal Gerace, un uomo sui sessant’anni, svogliato, tutto sbadigli rumorosi, scoppiò a ridere appena pronunciai oracòlo invece di oràcolo. Non gli venne in mente che, pur conoscendo il significato della parola, vivevo in un mondo in cui nessuno aveva mai avuto ragione di usarla. Risero tutti, specialmente Gino, lì al primo banco accanto ad Alfonso. Mi sentii umiliata. Poi passarono i giorni, facemmo il primo compito di latino. Quando Gerace riportò i compiti corretti, chiese:

«Chi è Greco?».

Alzai la mano.

«Vieni».

Mi fece una serie di domande sulle declinazioni, sui verbi, sulla sintassi.

Are sens

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