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«E perché si dovrebbero accontentare di una piccola percentuale?».

«Mi hanno preso in simpatia».

«I Solara?».

«Sì».

Lila sospirò:

«Facciamo una cosa: io glielo dico a papà e vediamo che ne pensa».

«Non t’azzardare».

«O così o niente».

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Rino tacque, molto nervoso.

«Va bene. Comunque, parli tu che sai parlare meglio».

La sera stessa, a cena, davanti a suo fratello con la faccia rosso fuoco, Lila disse a Fernando che Marcello non solo aveva manifestato molta curiosità per l’iniziativa delle scarpe, ma che poteva essere addirittura interessato a comprarsele e che anzi, se si fosse appassionato alla questione dal punto di vista commerciale, avrebbe fatto molta pubblicità al prodotto negli ambienti che frequentava in cambio, naturalmente, di una piccola percentuale sulle vendite.

«Questo l’ho detto io» precisò Rino a occhi bassi, «non Marcello».

Fernando guardò la moglie: Lila capì che s’erano parlati e che erano già arrivati a una conclusione segreta.

«Domani» disse, «metto le vostre scarpe nella vetrina del negozio. Se qualcuno le vuol vedere, se se le vuole provare, se se le vuole comprare, se ci vuole fare qualsiasi cazzo di cosa, deve parlare con me, sono io che decido».

Qualche giorno dopo passai davanti alla bottega. Rino lavorava, Fernando lavorava, tutt’e due curvi, a testa bassa. Vidi in vetrina, tra scatole di cromatina e lacci, le belle, armoniose scarpe di marca Cerullo. Un cartello incollato al vetro, sicuramente di mano di Rino, diceva proprio così, pomposamente: “Qui scarpe di marca Cerullo”. Padre e figlio aspettavano che arrivasse la buona sorte.

Ma Lila era scettica, ingrugnata. Non dava nessun credito alle ipotesi ingenue del fratello e temeva la concordia indecifrabile tra il padre e la madre. S’aspettava insomma cose brutte. Passò una settimana, e nessuno mostrò il minimo interesse per le scarpe in vetrina, nemmeno Marcello. Solo perché incalzato da Rino, anzi quasi trascinato a forza nel negozio, Solara diede loro uno sguardo, ma come se avesse ben altro per la testa. Se le provò, certo, ma disse che gli stavano un po’ strette, se le sfilò subito e sparì senza nemmeno una parola di complimento, come se avesse mal di pancia e dovesse correre a casa. Delusione di padre e figlio. Ma due minuti dopo Marcello riapparve. Rino balzò in piedi di colpo, raggiante, e gli tese la mano come se un qualche accordo, per quel puro e semplice riaffacciarsi, fosse già stato stipulato. Ma Marcello lo ignorò e si rivolse direttamente a Fernando.

Disse tutto d’un fiato: «Io ho intenzioni assai serie, don Fernà: vorrei la mano di vostra figlia Lina».

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29.

Rino reagì a quella svolta con una febbre violentissima che lo tenne lontano dal lavoro per giorni. Quando bruscamente sfebbrò, ebbe manifestazioni inquietanti: si alzava dal letto in piena notte pur continuando a dormire, muto e agitatissimo andava alla porta, cercava di aprirla, si dimenava a occhi sbarrati. Nunzia e Lila, spaventate, lo trascinavano di nuovo a letto.

Fernando, invece, che insieme alla moglie aveva intuito subito le reali intenzioni di Marcello, parlò con sua figlia in modo calmo. Le spiegò che la proposta di Marcello Solara era importante non solo per il suo futuro, ma per quello di tutta la famiglia. Le disse che lei era ancora una bambina e che non era tenuta a dire di sì subito, ma aggiunse che lui, come padre, le consigliava di acconsentire. Un lungo fidanzamento in casa l’avrebbe piano piano abituata al matrimonio.

Lila gli rispose con altrettanta calma che piuttosto che fidanzarsi e poi sposarsi con Marcello Solara, si andava ad annegare negli stagni. Ne nacque una gran lite, che però non le fece cambiare opinione.

Io restai tramortita da quella notizia. Sapevo bene che Marcello voleva fidanzarsi con Lila a tutti i costi, ma mai mi sarebbe venuto in mente che alla nostra età si potesse ricevere una proposta di matrimonio. E invece Lila l’aveva ricevuta, e non aveva ancora quindici anni, non era mai stata fidanzata di nascosto, non aveva mai scambiato un bacio con nessuno. Mi schierai subito con lei. Sposarsi? Con Marcello Solara? Casomai fare anche bambini? No, assolutamente no. La incoraggiai a combattere quella nuova guerra contro il padre e giurai che l’avrei sostenuta, anche se lui già aveva smesso di essere calmo e ora la minacciava, diceva che per il suo bene le avrebbe rotto le ossa se non accettava un partito di quella importanza.

Ma non ebbi modo di restarle accanto. A metà luglio successe una cosa che avrei dovuto mettere in conto e che invece mi prese alla sprovvista e mi travolse. Un tardo pomeriggio, dopo il solito giro per il rione a ragionare con Lila su ciò che le stava accadendo e su come venirne fuori, tornai a casa e mi venne ad aprire mia sorella Elisa. Disse emozionata che in camera da pranzo

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c’era la sua maestra, vale a dire la Oliviero. Stava parlando con nostra madre.

Mi affacciai timidamente nella stanza, mia madre borbottò seccata:

«La maestra Oliviero dice che ti devi riposare, che ti sei stancata troppo».

Guardai la Oliviero senza capire. Sembrava lei ad aver bisogno di riposo, era pallida e con la faccia gonfia. Mi disse:

«Mia cugina ha risposto proprio ieri: puoi andare da lei a Ischia, e restarci fino a fine agosto. Ti tiene volentieri, devi solo aiutarla un po’ in casa».

Mi si rivolse come se fosse lei mia madre e come se mia madre quella vera, quella con la gamba offesa e l’occhio storto, fosse solo un essere vivente di scarto, e in quanto tale da non prendere in considerazione. Per di più non se ne andò via subito dopo quella comunicazione, ma si trattenne ancora un’ora buona mostrandomi a uno a uno i libri che mi aveva portato in prestito. Mi spiegò quali dovevo leggere prima e quali dopo, mi fece giurare che prima di leggerli li avrei foderati, m’impose di restituirglieli tutti a fine estate senza nemmeno un’orecchia. Mia madre resistette paziente. Restò seduta, attenta, anche se l’occhio ballerino le dava un’aria allucinata. Esplose solo quando la maestra, finalmente, si accomiatò con un saluto sprezzante a lei e nemmeno una carezza a mia sorella, che ci teneva e ne sarebbe andata fiera. Mi si rivolse travolta dal rancore per l’umiliazione che le pareva di aver subìto per colpa mia. Disse:

«La signorina deve andarsi a riposare a Ischia, la signorina si è troppo affaticata. Va’ a preparare la cena, va’, che se no ti do uno schiaffo».

Due giorni dopo, però, dopo avermi preso le misure e avermi cucito in fretta e furia un costume da bagno copiandolo da non so dove, fu lei stessa ad accompagnarmi al vaporetto. Lungo la strada per il porto, mentre mi faceva il biglietto e poi mentre aspettavamo che m’imbarcassi, mi ossessionò con le raccomandazioni. La cosa che la spaventava di più era la traversata.

«Speriamo che non si agita il mare» diceva quasi tra sé e sé, e giurava che da piccola, a tre o quattro anni, mi aveva portata a Coroglio tutti i giorni per farmi asciugare il catarro e che il mare era bello e che avevo imparato a nuotare. Ma io non mi ricordavo né di Coroglio, né del mare, né di saper nuotare e glielo dissi. E lei prese un tono astioso, come a dire che il mio eventuale annegamento sarebbe stato da imputare non a lei, che quel che doveva fare per evitarlo l’aveva fatto, ma tutto alla mia smemoratezza. Poi si raccomandò di non allontanarmi dalla riva nemmeno col mare calmo, e di starmene a casa se era agitato o con la bandiera rossa. «Soprattutto» mi disse,

«se hai lo stomaco pieno o t’è venuto il marchese, non ti devi nemmeno

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bagnare i piedi». Prima di lasciarmi si rivolse a un anziano marinaio perché mi tenesse d’occhio. Quando il vaporetto si staccò dal molo mi sentii terrorizzata e insieme felice. Per la prima volta andavo via da casa, facevo un viaggio, un viaggio per mare. Il corpo largo di mia madre – insieme al rione, alla vicenda di Lila – si allontanò sempre più, si perse.

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30.

Rifiorii. La cugina della maestra si chiamava Nella Incardo e abitava a Barano. Raggiunsi il paese con la corriera, trovai facilmente la casa. Nella si rivelò un donnone gentile, molto allegro, chiacchierone, nubile. Affittava le sue stanze ai villeggianti e teneva per sé uno stanzino e la cucina. Io avrei dormito in cucina. Mi dovevo fare il letto la sera e smontare tutto (tavole, sostegni, materasso) la mattina. Scoprii che avevo degli obblighi inderogabili: alzarmi alle sei e mezza, preparare la colazione per lei e per i suoi ospiti –

quando arrivai c’era una coppia di inglesi con due bambini –, rassettare e lavare tazze e ciotole, apparecchiare per la cena, lavare i piatti prima di andare a dormire. Per il resto ero libera. Me ne potevo stare sul terrazzo a leggere con in faccia il mare, o scendere a piedi per una strada bianca e ripida verso una spiaggia lunga, larga, scura, che si chiamava spiaggia dei Maronti.

In principio, dopo tutte le paure che mi aveva inoculato mia madre e con tutti i problemi che avevo col mio corpo, passai il tempo sul terrazzo, vestita, a scrivere a Lila una lettera al giorno, ciascuna fitta di domande, spiritosaggini, descrizioni dell’isola con entusiasmi gridati. Ma Nella una mattina mi prese in giro, disse: «Che fai così? Mettiti il costume». Quando me lo misi scoppiò a ridere, lo trovò da vecchia. Me ne cucì uno secondo lei più moderno, molto scollato sul seno, meglio aderente al sedere, di un bel blu. Me lo provai e si entusiasmò, disse che era ora che andassi al mare, basta col terrazzo.

Il giorno dopo, tra mille paure e mille curiosità, mi avviai con un asciugamano e un libro verso i Maronti. Il percorso mi sembrò lunghissimo, non incontrai nessuno che salisse o scendesse. La spiaggia era sterminata e deserta, con una sabbia granulosa che frusciava a ogni passo. Il mare mandava un odore intenso, un suono secco, monotono.

Guardai a lungo, in piedi, quella gran massa d’acqua. Poi mi sedetti sull’asciugamano, incerta sul da farsi. Alla fine mi rialzai e bagnai i piedi in acqua. Come mi era potuto succedere di vivere in una città come Napoli e non pensare mai, nemmeno una volta, di fare un bagno di mare? Eppure era

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così. Avanzai cautamente lasciando che l’acqua mi salisse dai piedi alle caviglie, alle cosce. Poi misi un piedi in fallo e sprofondai. Annaspai terrorizzata, bevvi, ritornai in superficie, all’aria. Mi accorsi che mi veniva naturale muovere i piedi e le braccia in un certo modo per tenermi a galla.

Sapevo dunque nuotare. Mia madre mi aveva davvero portata al mare da piccola e davvero, lì, mentre lei faceva le sabbiature, avevo imparato. La vidi in un lampo, più giovane, meno disfatta, seduta sulla spiaggia nera sotto il sole di mezzogiorno, con un vestito bianco a fiorellini, la gamba buona coperta fino al ginocchio dalla veste, quella offesa tutta sepolta sotto la sabbia bruciante.

L’acqua di mare, il sole mi cancellarono rapidamente dal viso l’infiammazione dell’acne. Mi bruciai, mi annerii. Attesi lettere da Lila, ce le eravamo promesse salutandoci, ma non ne arrivarono. Mi esercitai a parlare un po’ in inglese con la famigliola ospitata da Nella. Capirono che volevo imparare e mi parlarono sempre più spesso con simpatia, feci molti passi avanti. Nella, che era sempre allegra, mi incoraggiò, cominciai a farle da interprete. Intanto non trascurava occasione per riempirmi di complimenti.

Are sens