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Mi faceva piatti enormi, cucinava benissimo. Diceva che ero arrivata uno straccio e ora, grazie alle sue cure, ero bellissima.

Insomma, gli ultimi dieci giorni di luglio mi diedero un senso di benessere fino ad allora sconosciuto. Provai una sensazione che poi nella mia vita s’è ripetuta spesso: la gioia del nuovo. Mi piaceva tutto: alzarmi presto, preparare la colazione, sparecchiare, passeggiare per Barano, fare la strada per i Maronti in salita e in discesa, leggere distesa al sole, tuffarmi, tornare a leggere. Non avevo nostalgia di mio padre, dei miei fratelli, di mia madre, delle vie del rione, dei giardinetti. Mi mancava soltanto Lila, Lila che però non rispondeva alle mie lettere. Temevo che le accadessero cose, belle o brutte, senza che io fossi presente. Era un timore vecchio, un timore che non mi era mai passato: la paura che, perdendomi pezzi della sua vita, perdesse intensità e centralità la mia. E il fatto che non mi rispondesse accentuava quella preoccupazione. Per quanto mi sforzassi nelle lettere di comunicarle il privilegio delle giornate a Ischia, il mio fiume di parole e il suo silenzio mi parevano dimostrare che la mia vita era splendida ma povera di eventi, tanto da lasciarmi il tempo di scriverle ogni giorno, la sua nera ma affollata.

Solo a fine luglio Nella mi disse che al posto degli inglesi, il primo agosto, sarebbe arrivata una famigliola napoletana. Era il secondo anno che venivano.

Gente molto perbene, signori gentilissimi, squisiti: specialmente il marito, un

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vero gentiluomo che le diceva sempre bellissime parole. E poi il figlio grande, proprio un bel ragazzo: alto, magro ma forte, quest’anno faceva diciassette anni. «Hai finito di stare sola» mi disse, e io m’imbarazzai, fui subito presa dall’ansia per questo giovane che stava arrivando, dalla paura che non riuscissimo a dirci nemmeno due parole, che non gli piacessi.

Appena partirono gli inglesi, che mi lasciarono un paio di romanzi per esercitarmi a leggerli, e il loro indirizzo, perché se mai avessi deciso di andare in Inghilterra sarei dovuta andare a trovarli, Nella si fece aiutare a lustrare le stanze, a cambiare tutta la biancheria, a rifare i letti. Lo feci volentieri, e mentre lavavo i pavimenti lei mi gridò dalla cucina:

«Come sei brava, sai pure leggere in inglese. Non ti bastano i libri che ti sei portata?».

E non fece che lodarmi a distanza, ad alta voce, per come ero disciplinata, per come ero giudiziosa, per come leggevo tutta la giornata e anche la sera.

Quando la raggiunsi in cucina la trovai con un libro in mano. Disse che gliel’aveva regalato il signore che doveva arrivare all’indomani, l’aveva scritto lui in persona. Nella lo teneva sul comodino, ogni sera leggeva una poesia, prima a mente e poi ad alta voce. Ormai le sapeva tutte a memoria.

«Guarda che cosa mi ha scritto» disse, e mi porse il libro.

Era Prove di sereno, di Donato Sarratore . La dedica diceva: A Nella, che è uno zucchero, e alle sue marmellate.

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31.

Scrissi subito a Lila: pagine e pagine di apprensione, gioia, voglia di fuga, prefigurazione appassionata del momento in cui avrei visto Nino Sarratore, avrei fatto la strada per i Maronti insieme a lui, ci saremmo fatti il bagno, avremmo guardato la luna e le stelle, avremmo dormito sotto lo stesso tetto.

Non feci che pensare ai momenti intensi in cui, tenendo per mano suo fratello, un secolo prima – ah, quanto tempo era passato – mi aveva dichiarato il suo amore. Eravamo due bambini, allora: adesso mi sentivo grande, quasi vecchia.

Il giorno dopo andai alla fermata della corriera per aiutare gli ospiti a portare su i bagagli. Ero in grande agitazione, non avevo dormito tutta la notte. La corriera arrivò, si fermò, ne scesero i viaggiatori. Riconobbi Donato Sarratore, riconobbi Lidia, la moglie, riconobbi Marisa, sebbene fosse molto cambiata, riconobbi Clelia, sempre in disparte, riconobbi il piccolo Pino, che adesso era un ragazzino serioso, e m’immaginai che il bambino tutto capricci che tormentava la madre dovesse essere quello che l’ultima volta che avevo visto la famiglia Sarratore al completo era ancora in carrozzina, sotto i proiettili lanciati da Melina. Ma non vidi Nino.

Marisa mi gettò le braccia al collo con un entusiasmo che non mi sarei mai aspettata: in tutti quegli anni non mi era mai, assolutamente mai, tornata in mente, mentre lei disse che aveva pensato spesso a me con tanta nostalgia.

Quando accennò ai tempi del rione e disse ai genitori che ero la figlia di Greco, l’usciere, Lidia, sua madre, fece una smorfia di fastidio e corse subito ad afferrare il figlio piccolo per rimproverarlo di non so cosa, mentre Donato Sarratore passò a occuparsi dei bagagli senza nemmeno una frase tipo: come sta papà.

Mi depressi. I Sarratore si sistemarono nelle loro stanze, io andai al mare con Marisa, che conosceva i Maronti e tutta Ischia benissimo e già scalpitava, voleva andare al Porto, dove c’era più animazione, e a Forio, e a Casamicciola, dovunque ma non a Barano che secondo lei era un mortorio.

Mi raccontò che studiava da segretaria d’azienda e aveva un ragazzo che

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presto avrei conosciuto perché sarebbe venuto a trovarla, ma di nascosto.

Infine mi disse una cosa che mi diede un tuffo al cuore. Sapeva tutto di me, sapeva che facevo il ginnasio, che a scuola ero bravissima e che ero fidanzata con Gino, il figlio del farmacista.

«Chi te l’ha detto?».

«Mio fratello».

Dunque Nino mi aveva riconosciuta, dunque sapeva chi ero, dunque la sua non era disattenzione, ma forse timidezza, forse disagio, forse vergogna per la dichiarazione che mi aveva fatto da bambino.

«È da tanto che ho smesso con Gino» dissi, «tuo fratello non è informato bene».

«Pensa solo a studiare, quello, è già troppo che mi ha detto di, te, di solito sta con la testa tra le nuvole».

«Non viene?».

«Viene quando se ne va papà».

Mi raccontò in modo molto critico di Nino. Era uno senza sentimenti. Non si entusiasmava mai di niente, non s’arrabbiava ma nemmeno era gentile. Se ne stava chiuso dentro se stesso, la sola cosa che lo interessava era lo studio.

Non gli piaceva niente, era di sangue freddo. L’unica persona che riusciva a turbarlo un pochino era il padre. Non che litigassero, era un figlio rispettoso e obbediente. Ma Marisa lo sapeva bene che Nino non lo poteva sopportare.

Lei invece lo adorava. Era l’uomo più buono e più intelligente del mondo.

«E resta molto, tuo padre? Quando se ne va?» le domandai con un interesse forse eccessivo.

«Tre giorni soltanto. Deve lavorare».

«E Nino arriva fra tre giorni?».

«Sì. S’è inventato che doveva aiutare la famiglia di un suo amico a fare il trasloco».

«E non è vero?».

«Non ha amici. E comunque non sposterebbe quella pietra da qua a là nemmeno per mia mamma, l’unica a cui vuole un po’ di bene, figuriamoci se va ad aiutare un amico».

Facemmo il bagno, ci asciugammo passeggiando lungo la riva. Mi fece vedere ridendo una cosa a cui non avevo fatto caso. In fondo alla spiaggia nerastra c’erano delle forme bianche, immobili. Mi trascinò ridendo su per la sabbia rovente e a un certo punto diventò evidente che erano persone.

Persone vive e coperte di fango. Si curavano a quel modo, non si sapeva di

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che. Ci sdraiammo sulla sabbia voltolandoci, spingendoci, giocando a fare le mummie come quelle persone. Ci divertimmo molto, poi andammo a fare un altro bagno.

In serata la famiglia Sarratore cenò in cucina e invitarono Nella e me a cenare con loro. Fu una bella serata. Lidia non accennò mai al rione, ma, passato il primo moto di ostilità, si informò su di me. Quando Marisa le disse che ero molto studiosa e andavo alla stessa scuola di Nino diventò particolarmente gentile. Il più cordiale di tutti fu comunque Donato Sarratore.

Riempì di complimenti Nella, lodò me per i risultati scolastici che avevo ottenuto, fu pieno di attenzioni per Lidia, giocò con Ciro, il bambino, volle rassettare lui, mi impedì di fare i piatti.

Lo studiai ben bene e mi sembrò una persona diversa da come me lo ricordavo. Era più magro, certo, s’era fatto crescere i baffi, ma a parte l’aspetto c’era qualcosa in più che non riuscii a capire e che dipendeva dal comportamento. Forse mi sembrò più paterno di mio padre e di una cortesia fuori del comune.

Questa sensazione si accentuò nei due giorni seguenti. Sarratore, quando andavamo al mare, non permetteva a Lidia e a noi due ragazze di portare alcunché. Si caricava lui dell’ombrellone, delle borse con gli asciugamani e con il cibo per il pranzo, sia all’andata, e passi, che al ritorno, quando la strada era tutta in salita. Cedeva il carico a noi solo quando Ciro frignava e pretendeva di essere portato in braccio. Aveva un corpo asciutto, con pochi peli. Indossava un costume di colore incerto, non di stoffa, sembrava di lana leggera. Nuotava molto ma senza allontanarsi, voleva mostrare a me e a Marisa com’era lo stile libero. Sua figlia nuotava come lui, con le stesse bracciate meditatissime, lente, e io subito cominciai a imitarli. Si esprimeva più in italiano che in dialetto e tendeva con un certo accanimento, specialmente con me, a metter su frasi tortuose e perifrasi inconsuete. Ci invitava allegramente, me, Lidia, Marisa, a correre avanti e indietro sulla battigia insieme a lui per tonificare i muscoli, e intanto ci faceva ridere con smorfie, vocine, un’andatura buffa. Quando faceva il bagno con la moglie se ne stavano l’uno stretto all’altra a galleggiare, si parlavano a voce bassa, ridevano spesso. Il giorno che partì, mi dispiacqui come si dispiacque Marisa, come si dispiacque Lidia, come si dispiacque Nella. La casa, pur risuonando delle nostre voci, sembrò silenziosa, un mortorio. L’unica consolazione fu che finalmente sarebbe arrivato Nino.

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