"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » Italian Books » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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detto no a Marcello Solara». Pinuccia Carracci, in salumeria, mi sussurrò all’orecchio: «È vero che la tua amica ha detto no a Marcello Solara?».

Perfino Alfonso mi disse un giorno a scuola, stupefatto: «La tua amica ha detto no a Marcello Solara?».

Quando vidi Lila, le dissi: «Hai fatto male a dirlo a tutti, Marcello si arrabbierà».

Lei fece spallucce. Aveva da fare coi fratelli, la casa, la madre, il padre, e non si fermò a parlare molto. Ormai, da dopo la notte di Capodanno, si occupava solo di faccende domestiche.

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25.

Proprio così. Per tutto il resto dell’anno scolastico Lila si disinteressò totalmente di ciò che facevo a scuola. E quando le chiesi che libri prendeva in biblioteca, cosa leggeva, rispose cattiva: «Non prendo più niente, i libri mi fanno male alla testa».

Io invece studiavo, ormai, leggevo quasi per una piacevole abitudine. Ma dovetti constatare presto che, da quando Lila aveva smesso di incalzarmi, di anticiparmi nello studio e nelle letture, la scuola, o anche la biblioteca del maestro Ferraro, aveva smesso di essere una specie di avventura ed era diventata soltanto una cosa che sapevo fare bene e per la quale ricevevo molte lodi.

Me ne resi conto con chiarezza in due occasioni.

Una volta andai a prendere dei libri in biblioteca con la mia tesserina densa di prestiti e restituzioni, e il maestro prima si complimentò per la mia assiduità, poi mi chiese di Lila, mostrando molto rammarico per come lei e tutta la sua famiglia avessero smesso di prendere libri. È difficile spiegare perché, ma quel rammarico mi fece soffrire. Mi sembrò il segno di un interesse vero e profondo per Lila, qualcosa di molto più forte dei complimenti per la mia disciplina di lettrice assidua. Mi venne in mente che se anche Lila avesse preso un solo libro all’anno, su quel libro avrebbe lasciato la sua impronta e il maestro l’avrebbe sentita al momento della restituzione, mentre io non lasciavo segni, incarnavo solo l’accanimento con cui sommavo disordinatamente volume a volume.

L’altra circostanza ebbe a che fare coi riti scolastici. Il professore di lettere riportò corretti i temi di italiano (la traccia me la ricordo ancora: “Le varie fasi del dramma di Didone”), e mentre in genere si limitava a dire due parole per giustificare il mio solito otto o nove, in quell’occasione mi lodò articolatamente davanti alla classe e rivelò solo alla fine di avermi messo, nientemeno, dieci. Al termine della lezione mi chiamò in corridoio veramente ammirato per come avevo trattato l’argomento e quando fece capolino il professore di religione, lo bloccò e gli riassunse entusiasticamente il mio

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svolgimento. Passò qualche giorno e mi resi conto che Gerace non s’era limitato al prete, aveva fatto circolare quel mio compito anche tra gli altri professori, e non solo della mia sezione. Qualche insegnante del liceo ora mi faceva sorrisi per i corridoi, addirittura buttava lì un commento. Una professoressa della prima A, per esempio, la professoressa Galiani che tutti apprezzavano e tutti schivavano perché aveva fama di essere comunista e con due battute riusciva a smontare ogni argomentazione mal fondata, mi fermò nell’atrio e si entusiasmò soprattutto per l’idea, centrale nel mio compito, che se l’amore è esiliato dalle città, le città mutano la loro natura benefica in natura maligna. Mi chiese:

«Che significa per te “una città senza amore”?».

«Un popolo privato della felicità».

«Fammi un esempio».

Pensai alle discussioni che avevo fatto con Lila e Pasquale per tutto settembre e le sentii all’improvviso come una vera scuola, più vera di quella che facevo tutti i giorni.

«L’Italia sotto il fascismo, la Germania sotto il nazismo, tutti quanti noi esseri umani nel mondo d’oggi».

Mi scrutò con accresciuto interesse. Disse che scrivevo molto bene, mi consigliò qualche lettura, si offrì di prestarmi libri suoi. Alla fine mi chiese cosa faceva mio padre, risposi: «Usciere al comune». Si allontanò a testa bassa.

Quell’interesse della Galiani naturalmente m’inorgoglì, ma non ebbe gran seguito, tutto tornò a essere routine scolastica. Di conseguenza anche quel mio diventare, già in quarto ginnasio, una studentessa con una sua piccola fama di brava, finì presto per non sembrarmi granché. Alla fine che cosa testimoniava? Testimoniava soprattutto quanto fosse stato fruttuoso studiare e conversare con Lila, averla per stimolo e sostegno nella sortita dentro quel mondo fuori del rione, tra le cose e le persone e i paesaggi e le idee dei libri.

Certo, mi dicevo, sicuramente lo svolgimento su Didone è mio, la capacità di formulare belle frasi è roba che viene da me; certo, ciò che ho scritto su Didone mi appartiene; ma non l’ho elaborato insieme con lei, non ci siamo stimolate a vicenda, la mia passione non è cresciuta al calore della sua? E

quell’idea della città senza amore, che era piaciuta tanto ai professori, non mi era venuta da Lila, anche se poi l’avevo sviluppata io, con la mia capacità?

Cosa dovevo dedurne?

Cominciai ad aspettare nuove lodi che testimoniassero una mia autonoma

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bravura. Ma Gerace, quando diede un altro compito sulla regina di Cartagine (“Enea e Didone: incontro tra due profughi”), non si entusiasmò, si limitò a mettermi otto. Dalla professoressa Galiani ricavai, invece, cordiali cenni di saluto e la piacevole scoperta che era l’insegnante di latino e greco di Nino Sarratore, alunno della prima A. Avevo veramente urgenza di attenzione e di stima corroboranti, sperai che mi venissero almeno da lui. Mi augurai che, se la sua professoressa di lettere mi avesse pubblicamente lodata, mettiamo nella sua classe, lui si sarebbe ricordato di me e finalmente mi avrebbe rivolto la parola. Invece non accadde niente, continuai a intravederlo all’uscita, all’entrata, sempre con quella sua aria assorta, mai uno sguardo. Una volta arrivai persino a seguirlo per corso Garibaldi e per via Casanova, sperando che mi scoprisse e mi dicesse: ciao, vedo che facciamo la stessa strada, ho sentito parlare molto di te. Ma procedeva spedito, a testa bassa, e non si girò mai. Mi stancai, mi disprezzai. Svoltai depressa per corso Novara e tornai a casa.

Andai avanti giorno per giorno, impegnata a confermare sempre più agli insegnanti, ai compagni, a me stessa, la mia assiduità e diligenza. Ma intanto mi crebbe dentro un senso di solitudine, sentivo che imparavo senza energia.

Provai allora a riferire a Lila del rammarico del maestro Ferraro, le dissi di tornare in biblioteca. Le accennai anche a come era stato accolto bene il compito su Didone, senza dirle però cosa avevo scritto, ma lasciandole intendere che era anche un suo successo. Mi ascoltò svogliatamente, forse nemmeno si ricordava più di ciò che c’eravamo dette su quel personaggio, aveva altri problemi. Appena le lasciai spazio mi disse che Marcello Solara non s’era rassegnato come Pasquale, continuava ad andarle dietro. Se usciva per fare la spesa, la seguiva senza disturbarla fino al negozio di Stefano, fino alla carretta di Enzo, solo per guardarla. Se si affacciava alla finestra lo trovava fermo all’angolo, ad aspettare che lei si affacciasse. Era in ansia per quella costanza. Temeva che se ne accorgesse suo padre, che soprattutto se ne accorgesse Rino. Era spaventata dalla possibilità che cominciasse una di quelle storie di maschi in cui si finiva per fare a botte un giorno sì e uno no, nel rione ce n’erano tante. «Cos’ho?» diceva. Si vedeva magra, brutta: perché Marcello s’era fissato con lei? «Ho qualcosa di malato?» diceva. «Faccio fare alle persone cose sbagliate».

Quell’idea ormai la ripeteva spesso. La convinzione di aver fatto più male che bene a suo fratello si era consolidata. «Basta guardarlo» diceva. Svanito il progetto del calzaturificio Cerullo, Rino era rimasto impigliato dentro la

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smania di diventare ricco come i Solara, come Stefano, anche di più, e non riusciva a rassegnarsi alla quotidianità del lavoro di bottega. Le diceva, cercando di riaccenderle il vecchio entusiasmo: «Noi siamo intelligenti, Lina, a noi insieme non ci ferma nessuno, dimmi cosa dobbiamo fare». Desiderava comprarsi anche lui una macchina, la televisione, e detestava Fernando che non capiva l’importanza di quelle cose. Ma soprattutto, quando Lila mostrava di non volerlo più sostenere, la trattava peggio di una serva. Forse lui non sapeva nemmeno di essersi guastato, ma lei, che se lo trovava davanti tutti i giorni, era in allarme. Mi disse una volta:

«Hai visto che la gente quando si sveglia è brutta, tutta deformata, non ha sguardo?».

Rino secondo lei era diventato così.

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26.

Una domenica sera di metà aprile, mi ricordo, uscimmo in cinque: Lila, io, Carmela, Pasquale e Rino. Noi ragazze ci vestimmo meglio che potevamo e appena fuori casa ci mettemmo il rossetto e ci pitturammo un po’ gli occhi.

Prendemmo la metropolitana, molto affollata, e Rino e Pasquale stettero per tutto il percorso sul chi vive, accanto a noi. Temevano che qualcuno ci toccasse, ma non ci toccò nessuno, i nostri accompagnatori avevano facce troppo pericolose.

Scendemmo a piedi per Toledo. Lila insisteva per andare in via Chiaia, via Filangieri e poi via dei Mille, fino a piazza Amedeo, zone dove si sapeva che c’era la gente ricca ed elegante. Rino e Pasquale erano contrari, ma non ci sapevano o volevano spiegare, e rispondevano solo con borbottii in dialetto e insulti a persone indeterminate che chiamavano gagà. Noi tre ci coalizzammo e insistemmo. In quel momento sentimmo strombazzare. Ci girammo e vedemmo il Millecento dei Solara. Dei due fratelli nemmeno ci accorgemmo, tanto fummo colpite dalle ragazze che si sbracciavano dai finestrini: erano Gigliola e Ada. Parevano bellissime, bei vestiti, belle pettinature, begli orecchini scintillanti, agitavano le mani e ci gridavano saluti felici. Rino e Pasquale girarono la faccia, Carmela e io per la sorpresa non rispondemmo.

Lila fu l’unica a gridare qualcosa con entusiasmo e a salutarle con ampi cenni, mentre la macchina spariva in direzione di piazza Plebiscito.

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