Per un po’ tacemmo, poi Rino disse cupo a Pasquale che s’era sempre saputo che Gigliola era una zoccola, e Pasquale assentì gravemente. Nessuno dei due accennò a Ada, Antonio era loro amico e non volevano offenderlo.
Carmela invece disse molto male anche di Ada. Io provai soprattutto amarezza. Era passata in un lampo l’immagine della potenza, quattro giovani in automobile, il modo giusto di uscire dal rione e far festa. Il nostro era il modo sbagliato: a piedi, mal vestiti, spiantati. Mi venne voglia di tornarmene subito a casa. Invece Lila, come se quell’incontro non ci fosse mai stato, reagì tornando a insistere che voleva andare a spasso dove c’era la gente elegante.
Si attaccò al braccio di Pasquale, strillò, rise, fece quella che secondo lei era
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la parodia della persona benestante, vale a dire sculettò, si produsse in ampi sorrisi e gesti molli. Noi esitammo un attimo e poi passammo a sostenerla, inasprite dall’idea che Gigliola e Ada se la stavano godendo in Millecento con i bellissimi Solara e noi invece eravamo a piedi, in compagnia di Rino che risuolava scarpe e di Pasquale che faceva il muratore.
Questa nostra insoddisfazione, naturalmente non detta, dovette arrivare per vie segrete fino ai due giovani, che si guardarono, sospirarono e cedettero. Va bene, dissero e imboccammo via Chiaia.
Fu come passare un confine. Mi ricordo un fitto passeggio e una sorta di umiliante diversità. Non guardavo i ragazzi, ma le ragazze, le signore: erano assolutamente diverse da noi. Sembravano aver respirato un’altra aria, aver mangiato altri cibi, essersi vestite su qualche altro pianeta, aver imparato a camminare su fili di vento. Ero a bocca aperta. Tanto più che mentre io mi sarei fermata per guardare con agio abiti, scarpe, il tipo di occhiali che portavano se portavano occhiali, loro passavano e sembrava che non mi vedessero. Non vedevano nessuno di noi cinque. Eravamo non percepibili. O
ininteressanti. E anzi, se a volte lo sguardo cadeva su di noi, si giravano subito da un’altra parte come infastidite. Si guardavano solo tra di loro.
Di questo ci rendemmo conto tutti. Nessuno ne parlò, ma capimmo che Rino e Pasquale, più grandi, per quelle strade trovavano solo la conferma di cose che già sapevano, e questo li metteva di malumore, li rendeva torvi, incattiviti dalla certezza di essere fuori luogo, mentre noi ragazze lo scoprivamo solo in quel momento e con sentimenti ambigui. Ci sentimmo a disagio e incantate, brutte ma anche spinte a immaginarci come saremmo diventate se avessimo avuto modo di rieducarci e vestirci e truccarci e agghindarci come si deve. Intanto, per non rovinarci la serata, reagivamo ridacchiando, ironizzando.
«Tu te lo metteresti mai quel vestito?».
«Nemmeno se mi pagassero».
«Io sì».
«Brava, così sembreresti un bombolone come quella lì».
«E hai visto le scarpe?».
«Perché, song’ scarp’, chelle?».
Avanzammo fino all’altezza di Palazzo Cellammare ridendo e scherzando.
Pasquale, che evitava in tutti i modi di stare accanto a Lila e quando lei gli si era messa sottobraccio si era subito liberato con gentilezza (le si rivolgeva spesso, certo, provava un evidente piacere a sentirne la voce, a guardarla, ma
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si vedeva che anche il più piccolo contatto lo travolgeva, forse poteva persino farlo piangere), tenendosi vicino a me mi chiese con sarcasmo:
«A scuola le tue compagne sono così?».
«No».
«Significa che non è una buona scuola».
«È un liceo classico» dissi io piccata.
«Non è buono» insistette lui, «sta’ sicura che se non c’è gente così non è buono: vero Lila che non è buono?».
«Buono?» disse Lila e indicò una ragazza bionda che stava venendo verso di noi in compagnia di un giovane bruno, pullover candido a V, alto: «Se non c’è una come quella, la tua scuola fa schifo». E scoppiò a ridere.
La ragazza era tutta in verde: scarpe verdi, gonna verde, giacca verde e in testa – era questo soprattutto che faceva ridere Lila – aveva una bombetta come quella di Charlot, anch’essa verde.
L’ilarità passò da lei a noi ragazzi. Quando la coppia ci passò accanto Rino fece un commento molto pesante su che cosa la signorina in verde ci doveva fare, con la bombetta, e Pasquale si fermò, tanto gli venne da ridere, e si appoggiò al muro con un braccio. La ragazza e il suo accompagnatore fecero pochi passi, poi si fermarono. Il ragazzo col pullover bianco si girò, trattenuto subito per un braccio dalla ragazza. Lui si divincolò, tornò indietro, si rivolse direttamente a Rino con una serie di frasi insultanti. Fu un attimo. Rino lo abbatté con un pugno in faccia gridando:
«Come m’hai chiamato? Non ho capito, ripeti, come m’hai chiamato? Hai sentito, Pascà, come m’ha chiamato?».
Noi ragazze passammo bruscamente dal riso allo spavento. Lila per prima si slanciò sul fratello prima che colpisse a calci il giovane a terra e lo trascinò via con un’espressione incredula, come se mille frammenti della nostra vita, dall’infanzia a quel nostro quattordicesimo anno, stessero componendo un’immagine finalmente nitida che in quel momento però le sembrava inverosimile.
Sospingemmo via Rino e Pasquale, mentre la ragazza con la bombetta aiutava il fidanzato a risollevarsi. L’incredulità di Lila intanto si stava mutando in furia disperata. Proprio mentre lo tirava via investì il fratello con insulti volgarissimi, lo tirò per un braccio, lo minacciò. Rino la tenne a bada con una mano, un riso nervoso sulla faccia, e intanto si rivolse a Pasquale:
«Mia sorella si pensa che qua si gioca, Pascà» disse in dialetto con occhi pazzi, «mia sorella si pensa che se io dico là è meglio che non ci andiamo lei
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può fare quella che sa sempre tutto, che capisce sempre tutto, come al solito, e andarci per forza». Piccola pausa per controllare il respiro, poi aggiunse:
«Hai sentito ca chillu strunz m’ha chiamato tàmmaro? Tàmmaro a me?
Tàmmaro?». E ancora, sopraffatto dall’affanno: «Mia sorella m’ha portato qua e mo’ vede se mi faccio dire tàmmaro, mo’ vede che faccio se a me mi chiamano tàmmaro».
«Calma, Rino» gli rispose Pasquale cupo, guardandosi ogni tanto alle spalle, in allarme.
Rino restò agitato, ma sottotono. Lila invece si calmò. Ci fermammo a piazza dei Martiri. Pasquale disse, quasi freddo, rivolgendosi a Carmela:
«Voi adesso ve ne tornate a casa».
«Noi sole?».
«Sì».