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del tutto depurata dalle scorie di quando si parla, dalla confusione dell’orale; aveva l’ordine vivo che mi immaginavo dovesse toccare al discorso se si era stati così fortunati da nascere dalla testa di Zeus e non dai Greco, dai Cerullo.

Mi vergognai delle pagine infantili che le avevo scritto, dei toni eccessivi, delle frivolezze, dell’allegria finta, del dolore finto. Chissà Lila cosa aveva pensato di me. Provai disprezzo e rancore per il professor Gerace che mi aveva illusa mettendomi nove in italiano. Quella lettera ebbe come primo effetto di farmi sentire, a quindici anni, nel giorno del mio compleanno, un’imbrogliona.

La scuola, su di me, aveva preso un abbaglio e la prova era lì, nella lettera di Lila.

Poi, piano piano, arrivarono anche i contenuti. Lila mi faceva gli auguri per il mio compleanno. Non mi aveva mai scritto perché era contenta che me la spassassi al sole, che mi trovassi bene con i Sarratore, che amassi Nino, che mi piacesse tanto Ischia, la spiaggia dei Maronti, e non voleva guastarmi la vacanza con le sue brutte storie. Però adesso aveva sentito l’urgenza di rompere il silenzio. Subito dopo la mia partenza Marcello Solara, col consenso di Fernando, aveva cominciato a presentarsi a cena tutte le sere. Arrivava alle venti e trenta e se ne andava alle ventidue e trenta esatte.

Portava sempre qualcosa: paste, cioccolatini, zucchero, caffè. Lei non toccava niente, non gli dava alcuna confidenza, lui la guardava in silenzio. Dopo la prima settimana di quello strazio, visto che Lila faceva come se lui non ci fosse, aveva deciso di stupirla. S’era presentato di mattina in compagnia di un tipo grosso, tutto sudato, che aveva depositato in camera da pranzo un’enorme scatola di cartone. Dalla scatola era uscito un oggetto di cui tutti sapevamo, ma che pochissimi nel rione avevano in casa: una televisione, un apparecchio, cioè, con uno schermo su cui si vedevano immagini, proprio come al cinema, ma che non arrivavano da un proiettore bensì dall’aria, e che dentro aveva un tubo misterioso che si chiamava catodico. Per via di questo tubo, menzionato di continuo dall’uomo grosso e sudato, l’apparecchio non aveva funzionato per giorni. Poi, prova e riprova, s’era avviato e ora mezzo rione, compresi mia madre, mio padre e i miei fratelli, andava a casa Cerullo a vedere quel miracolo. Rino no. Stava meglio, la febbre gli era

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definitivamente passata, ma non rivolgeva più la parola a Marcello. Quando lui si presentava, cominciava a dir male della televisione e dopo un po’ o se ne andava a dormire senza toccare cibo o usciva e girovagava fino a notte fonda con Pasquale e Antonio. Lila invece diceva di amare la televisione. Le piaceva soprattutto vederla insieme con Melina, che compariva tutte le sere e se ne stava a lungo in silenzio, concentratissima. Era l’unico momento di pace. Per il resto, tutte le rabbie si scaricavano su di lei: le rabbie di suo fratello perché lo aveva abbandonato al suo destino di servo del loro padre mentre lei si avviava a un matrimonio che le avrebbe fatto fare la signora; le rabbie di Fernando e di Nunzia perché non era gentile con Solara, anzi lo trattava a pesci in faccia; infine le rabbie di Marcello che, senza che lei lo avesse mai accettato, si sentiva sempre più fidanzato, anzi padrone, e tendeva a passare dalla devozione muta a tentativi di baci, a domande sospettose su dove andava durante il giorno, chi vedeva, se aveva avuto altri fidanzati, se l’aveva anche solo sfiorata qualcuno. Poiché lei non gli rispondeva, o peggio ancora lo prendeva in giro raccontandogli di baci e abbracci con fidanzati inesistenti, lui una sera le aveva detto serio in un orecchio: «Tu mi sfotti, ma ti ricordi di quando mi hai minacciato col trincetto? Bene, io se so che ti piace un altro, tienilo a mente, non mi limito a minacciarti, t’ammazzo e basta».

Così lei non sapeva come uscire da quella situazione e continuava a portare la sua arma addosso per ogni evenienza. Ma era terrorizzata. Scriveva, nelle ultime pagine, di sentirsi intorno tutto il male del rione.

Anzi, buttava lì oscuramente: male e bene sono mescolati e si rinforzano a vicenda.

Marcello, a rifletterci, era veramente una buona sistemazione, ma il buono sapeva di cattivo e il cattivo sapeva di buono, un amalgama che le toglieva il fiato. Qualche sera prima le era successa una cosa che le aveva fatto veramente paura. Marcello se n’era andato, la televisione era spenta, la casa era vuota, Rino era fuori, i genitori si stavano mettendo a letto. Lei, insomma, stava sola in cucina a fare i piatti ed era stanca, proprio senza forze, quando a un certo punto c’era stato uno scoppio. S’era girata di scatto e s’era accorta che era esplosa la pentola grande di rame. Così, da sola. Era appesa al chiodo dove normalmente si trovava, ma al centro aveva un grande squarcio e i bordi erano sollevati e ritorti e la pentola stessa s’era tutta sformata, come se non riuscisse più a conservare la sua apparenza di pentola. La madre era accorsa

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in camicia da notte e l’aveva incolpata di averla fatta cadere e di averla rovinata. Ma una pentola di rame, anche se cade, non si spacca e non si deforma a quel modo. “È questo tipo di cose” concludeva Lila, “che mi spaventa. Più di Marcello, più di chiunque. E sento che devo trovare una soluzione, se no, una cosa dietro l’altra, si rompe tutto, tutto, tutto”. Mi salutava, mi faceva ancora molti auguri e, anche se desiderava il contrario, anche se non vedeva l’ora di rivedermi, anche se aveva urgente bisogno del mio aiuto, mi augurava di restarmene a Ischia con la gentile signora Nella e di non tornare al rione mai più.

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35.

La lettera mi turbò moltissimo. Il mondo di Lila, come al solito, si sovrappose velocemente al mio. Tutto ciò che le avevo scritto tra luglio e agosto mi sembrò banale, fui presa dalla smania di redimermi. Non andai al mare, provai subito a risponderle con una lettera seria, che avesse l’andamento essenziale, netto e insieme colloquiale della sua. Ma se le altre lettere mi erano venute facili – buttavo giù pagine e pagine in pochi minuti, senza mai correggere – quella la scrissi, la riscrissi, la riscrissi ancora, e tuttavia l’odio di Nino nei confronti del padre, il ruolo che aveva avuto la vicenda di Melina nella nascita di quel brutto sentimento, tutto il rapporto con la famiglia Sarratore, persino la mia ansia per ciò che le stava accadendo, mi vennero male. Donato, che nella realtà era un uomo notevole, sulla pagina risultò un padre di famiglia banale; e io stessa, per quel che riguardava Marcello, fui capace soltanto di consigli superficiali. Alla fine mi sembrò vero soltanto il disappunto perché lei aveva la televisione in casa e io no.

Insomma non riuscii a risponderle, pur privandomi del ma-re, del sole, del piacere di stare con Ciro, con Pino, con Clelia, con Lidia, con Marisa, con Sarratore. Meno male che Nella, da un certo punto in poi, venne a tenermi compagnia sul terrazzo portandomi un’orzata. Meno male che, quando tornarono dal mare, i Sarratore si rammaricarono perché me n’ero stata a casa e ripresero a festeggiarmi. Lidia volle preparare lei stessa una torta zeppa di crema pasticcera, Nella aprì una bottiglia di vermouth, Donato attaccò a cantare canzoni napoletane, Marisa mi regalò un cavalluccio marino di stoppa che aveva comprato per sé al Porto la sera prima.

Mi rasserenai, ma intanto non riuscivo a cacciarmi via dalla testa Lila in mezzo ai guai mentre io stavo così bene, ero così festeggiata. Dissi in un modo un po’ drammatico che avevo ricevuto una lettera di una mia amica, che quella mia amica aveva bisogno di me e che quindi pensavo di andarmene prima del previsto. «Dopodomani al massimo» annunciai, ma senza crederci troppo. In effetti parlai solo per sentire come Nella si dispiaceva, come Lidia diceva che Ciro ne avrebbe sofferto molto, come

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Marisa si disperava, come Sarratore esclamava desolato: «E noi come facciamo senza di te?». Tutte cose che mi commossero, resero ancora più piacevole la mia festa.

Poi Pino e Ciro cominciarono a sonnecchiare e Lidia e Donato li portarono a dormire. Marisa mi aiutò a lavare i piatti, Nella mi disse che se volevo riposare un po’ di più si sarebbe alzata lei per preparare la colazione.

Protestai, quello era compito mio. Tutti, a uno a uno, si ritirarono, restai sola.

Feci il mio lettino nel solito angolo, studiai la situazione per vedere se c’erano scarafaggi, se c’erano zanzare. Lo sguardo mi cadde sulle pentole di rame.

Com’era suggestiva la scrittura di Lila, guardai le pentole con crescente inquietudine. Mi ricordai che le era piaciuto sempre il loro splendore, quando le lavava si dedicava a lustrarle con grande cura. Lì, non a caso, quattro anni prima, aveva collocato lo schizzo di sangue sprizzato dal collo di don Achille quando era stato pugnalato. Lì ora aveva deposto quella sua sensazione di minaccia, l’angoscia per la scelta difficile che aveva davanti, facendone esplodere una a mo’ di segnale, come se la sua forma avesse deciso bruscamente di cedere. Sapevo immaginarmi quelle cose senza di lei? Sapevo dare una vita a ogni oggetto, lasciarlo torcere all’unisono con la mia? Spensi la luce. Mi spogliai e mi misi a letto con la lettera di Lila e il segnalibro azzurro di Nino, le cose più preziose che in quel momento mi pareva di avere.

Dal finestrone pioveva la luce bianca della luna. Baciai il segnalibro come facevo tutte le sere, provai a rileggere nel chiarore debole la lettera della mia amica. Brillavano le pentole, scricchiolava il tavolo, pesava greve il soffitto, premeva ai lati l’aria notturna e il mare. Tornai a sentirmi umiliata dalla capacità di scrittura di Lila, da ciò che lei sapeva plasmare e io no, mi si appannarono gli occhi. Ero felice, certo, che lei fosse così brava anche senza scuola, senza i libri della biblioteca, ma quella felicità mi rendeva colpevolmente infelice.

Poi sentii dei passi. Vidi entrare in cucina l’ombra di Sarratore, scalzo, col suo pigiama blu. Mi tirai addosso il lenzuolo. Andò al rubinetto, prese un bicchiere d’acqua, bevve. Restò in piedi per qualche secondo davanti al lavandino, posò il bicchiere, si mosse verso il mio letto. Mi si accucciò di lato, con i gomiti appoggiati sul bordo del lenzuolo.

«Lo so che sei sveglia» disse.

«Sì».

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«Non ci pensare alla tua amica, resta».

«Sta male, ha bisogno di me».

«Sono io che ho bisogno di te» disse, e si protese, mi baciò sulla bocca senza la leggerezza del figlio, schiudendomi le labbra con la lingua.

Restai immobile.

Lui scostò appena il lenzuolo seguitando a baciarmi con cura, con passione, e mi cercò il petto con la mano, me lo accarezzò sotto la camicia.

Poi mi lasciò, scese tra le mie gambe, mi premette forte due dita sopra le mutandine. Non dissi, non feci niente, ero atterrita da quel comportamento, dall’orrore che mi faceva, dal piacere che tuttavia provavo. I suoi baffi mi pungevano il labbro superiore, la sua lingua era ruvida. Si staccò dalla mia bocca piano, allontanò la mano.

«Domani sera ci facciamo una bella passeggiata io e te sulla spiaggia»

disse un po’ roco, «ti voglio molto bene e lo so che anche tu ne vuoi tantissimo a me. È vero?».

Non dissi niente. Lui mi sfiorò di nuovo le labbra con le labbra, mormorò buonanotte, si sollevò e uscì dalla cucina. Io seguitai a non muovermi, non so per quanto tempo. Per quanto cercassi di allontanare la sensazione della sua lingua, delle sue carezze, della pressione della sua mano, non ci riuscivo.

Nino aveva voluto avvisarmi, sapeva che sarebbe successo? Provai un odio incontenibile per Donato Sarratore e disgusto per me, per il piacere che mi era rimasto nel corpo. Per quanto oggi possa sembrare inverosimile, da quando avevo memoria fino a quella sera non mi ero mai data piacere, non lo conoscevo, sentirmelo addosso mi sorprese. Restai nella stessa posizione non so per quante ore. Poi, alle prime luci, mi riscossi, raccolsi tutte le mie cose, disfeci il letto, scrissi due righe di ringraziamento per Nella e me ne andai.

L’isola era quasi senza suoni, il mare fermo, solo gli odori erano intensissimi. Presi, coi soldi contati che mi aveva lasciato mia madre più di un mese prima, il primo vaporetto in partenza. Appena il battello si mosse e l’isola, coi suoi colori teneri di primo mattino, fu abbastanza lontana, pensai che avevo finalmente qualcosa da raccontare a cui Lila non avrebbe potuto opporre nulla di altrettanto memorabile. Ma seppi subito che il disgusto nei confronti di Sarratore e il ribrezzo che io stessa mi facevo mi avrebbero impedito di aprir bocca. Infatti questa è la prima volta che cerco le parole per quella fine inattesa della mia vacanza.

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36.

Trovai Napoli immersa in una maleodorante, disfatta calura. Mia madre, senza dire una sola parola per com’ero diventata – niente acne, nera di sole –

mi rimproverò perché ero tornata prima del previsto.

«Che hai fatto» disse, «ti sei comportata male, l’amica della maestra t’ha cacciata?».

Andò diversamente con mio padre, che fece gli occhi lucidi e mi riempì di complimenti tra i quali, ripetuto cento volte, spiccava: «Madonna, che bella figlia che ho». Quanto ai miei fratelli, dissero con un certo disprezzo:

«Sembri una negra».

Mi guardai allo specchio e anch’io mi meravigliai: il sole mi aveva resa di un biondo splendente, ma il viso, le braccia, le gambe erano come dipinti d’oro scuro. Finché ero stata immersa nei colori di Ischia, sempre tra facce bruciate, la mia trasformazione mi era sembrata adeguata all’ambiente; ora, una volta restituita al contesto del rione, dove ogni viso, ogni via erano rimasti di un pallore malato, mi parve eccessiva, quasi un’anomalia. La gente, le palazzine, lo stradone trafficatissimo e polveroso, mi diedero l’impressione di una foto mal stampata come quelle dei giornali.

Appena potei corsi a cercare Lila. La chiamai dal cortile, si affacciò, sbucò dal portone. Mi abbracciò, mi baciò, mi riempì di complimenti come non aveva mai fatto, tanto che fui travolta da tutto quell’affetto così esplicito. Era la stessa e tuttavia, in poco più di un mese, era ulteriormente cambiata. Non sembrava più una ragazza ma una donna, una donna di almeno diciotto anni, età che allora mi sembrava avanzata. I vecchi abiti le stavano corti e stretti, come se ci fosse cresciuta dentro nel giro di pochi minuti, e le stringevano il corpo più del lecito. Era ancora più alta, aveva spalle dritte, era sinuosa. E il viso pallidissimo sul collo sottile mi parve di una delicata, anomala bellezza.

Sentii che era nervosa, in strada si guardò intorno, alle spalle, più volte, ma non mi diede spiegazioni. Disse solo: «Vieni con me» e volle che l’accompagnassi alla salumeria di Stefano. Aggiunse, prendendomi sottobraccio: «È una cosa che posso fare solo con te, meno male che sei

Are sens