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32.

Provai a suggerire a Marisa di andarlo ad aspettare al porto, ma lei si rifiutò, disse che il fratello non meritava quelle attenzioni. Nino arrivò in serata.

Alto, magrissimo, camicia azzurra, pantaloni scuri, sandali, un sacco sulla spalla, non mostrò la minima emozione nel trovarmi a Ischia, in quella casa, tanto che pensai che a Napoli avessero il telefono, che Marisa avesse trovato il modo di avvisarlo. A tavola si espresse a monosillabi, a colazione non comparve. Si svegliò tardi, andammo al mare tardi, si caricò di poco o niente.

Si tuffò subito, con decisione, e nuotò verso il largo senza l’esibito virtuosismo del padre, con naturalezza. Sparì, temetti che fosse annegato, ma né Marisa né Lidia si preoccuparono. Riapparve quasi due ore dopo e si mise a leggere fumando una sigaretta dietro l’altra. Lesse per l’intera giornata, senza mai rivolgerci la parola e disponendo i mozziconi spenti nella sabbia in fila per due. Mi misi a leggere anch’io rifiutando l’invito di Marisa a passeggiare lungo la battigia. A cena mangiò in fretta, uscì. Sparecchiai, lavai i piatti pensando a lui. Mi feci il letto in cucina e mi misi di nuovo a leggere aspettando che rientrasse. Lessi fin verso l’una, poi mi addormentai con la luce accesa e il libro aperto sul petto. Al mattino mi svegliai con la luce spenta e il libro chiuso. Pensai che fosse stato lui e sentii una vampa d’amore nelle vene mai provata prima.

Nel giro di pochi giorni le cose migliorarono. Mi accorsi che ogni tanto mi guardava e poi girava lo sguardo da un’altra parte. Gli chiesi cosa leggeva, gli dissi cosa leggevo. Parlammo delle nostre letture, annoiando Marisa.

All’inizio sembrò ascoltarmi con attenzione, poi, proprio come Lila, attaccò a parlare lui e tirò avanti sempre più preso dai suoi ragionamenti. Poiché desideravo che si accorgesse della mia intelligenza tendevo a interromperlo, a dire la mia, ma era difficile, sembrava contento della mia presenza solo se rimanevo in silenzio ad ascoltare, cosa che mi rassegnai presto a fare. Del resto diceva cose che io mi sentivo incapace di pensare, o comunque di dire con la stessa sicurezza, e le diceva in un italiano forte, avvincente.

Marisa a volte ci tirava palle di sabbia, a volte irrompeva gridando:

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«Finitela, chi se ne frega di questo Dostoevskij, chi se ne frega dei Karamazov». Allora Nino s’interrompeva bruscamente e s’allontanava lungo la riva del mare a testa bassa, fino a diventare un puntino. Io passavo un po’

di tempo con Marisa a parlare del suo fidanzato, che non poteva venire più a vederla in segreto, cosa che la faceva piangere. Intanto mi sentivo sempre meglio, non potevo credere che la vita potesse essere così. Forse, pensavo, le ragazze di via dei Mille – quella tutta vestita di verde, per esempio – fanno una vita come questa.

Ogni tre o quattro giorni tornava Donato Sarratore, ma stava al massimo ventiquattr’ore, poi ripartiva. Diceva di non pensare ad altro che al 13 agosto, quando si sarebbe stabilito a Barano per due settimane piene. Appena compariva il padre Nino diventava un’ombra. Mangiava, spariva, ricompariva a notte tarda, e non pronunciava una sola parola. Lo ascoltava con un mezzo sorrisetto acquiescente, e qualsiasi cosa il padre profferisse non acconsentiva ma nemmeno gli si opponeva. L’unica volta che diceva qualcosa di deciso ed esplicito era quando Donato menzionava il sospirato 13

agosto. Allora, due minuti dopo, ricordava alla madre, alla madre, non a Donato, che subito dopo Ferragosto doveva tornare a Napoli perché aveva concordato con alcuni compagni di scuola di incontrarsi – contavano di riunirsi in una casa di campagna nell’Avellinese – e cominciare a fare i compiti delle vacanze. «È una bugia» mi sussurrava Marisa, «non ha nessun compito». Ma la madre lo lodava, il padre pure. Anzi, Donato attaccava subito con uno dei suoi argomenti preferiti: Nino era fortunato a studiare; lui aveva potuto frequentare solo fino al secondo industriale, poi era dovuto andare a lavorare; ma se avesse potuto fare gli studi che faceva il figlio, chissà dove sarebbe arrivato. E concludeva: «Studia, Ninù, va’, bravo a papà, e fa’ quello che io non sono riuscito a fare».

Quei toni disturbavano Nino più di ogni altra cosa. Pur di battersela arrivava qualche volta a invitare me e Marisa a uscire con lui. Diceva cupo ai genitori, come se non facessimo che tormentarlo: «Vogliono prendere il gelato, vogliono fare quattro passi, le accompagno».

In quelle occasioni Marisa correva a prepararsi felicissima e io mi rammaricavo perché avevo sempre i soliti quattro stracci. Ma mi pareva che a lui importasse poco se ero bella o brutta. Appena fuori casa attaccava a chiacchierare, cosa che gettava Marisa nello sconforto, diceva che meglio sarebbe stato per lei restare a casa. Io invece pendevo dalle labbra di Nino.

Mi meravigliava molto che, nella ressa del Porto, tra giovani e meno giovani

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che guardavano me e Marisa con intenzione, e ridevano, e cercavano di attaccare bottone, lui non mostrasse nemmeno un tratto di quella disposizione alla violenza che era di Pasquale, Rino, Antonio, Enzo, quando uscivano con noi e qualcuno ci lanciava un’occhiata di troppo. Come guardia minacciosa del nostro corpo valeva poco. Forse perché era preso dalle cose che gli passavano per la testa, dalla smania di parlarmene, lasciava che intorno a noi accadesse di tutto.

Fu così che Marisa fece amicizia con dei ragazzi di Forio, e quelli vennero a farle visita a Barano, e lei li portò con noi in spiaggia ai Maronti, e insomma cominciò a uscirci tutte le sere. Andavamo tutti e tre al Porto, ma una volta lì lei se ne andava con i suoi nuovi amici (quando mai Pasquale sarebbe stato così liberale con Carmela, Antonio con Ada?) e noi passeggiavamo lungo il mare. Ci incontravamo poi intorno alle dieci e tornavamo a casa.

Un sera, appena soli, Nino mi disse all’improvviso che da ragazzino aveva invidiato molto il rapporto che c’era tra me e Lila. Ci vedeva da lontano, sempre insieme, sempre a chiacchierare, e avrebbe voluto fare amicizia con noi, ma gli era sempre mancato il coraggio. Poi sorrise e disse: «Ti ricordi la dichiarazione che ti feci?».

«Sì».

«Mi piacevi moltissimo».

Diventai di fuoco, sussurrai stupidamente: «Grazie».

«Pensavo che ci saremmo fidanzati e saremmo stati sempre tutti e tre insieme, io, tu e la tua amica».

«Insieme?».

Sorrise di se stesso bambino.

«Non capivo niente di fidanzamenti».

Poi mi chiese di Lila.

«Ha continuato a studiare?».

«No».

«E che fa?».

«Aiuta i genitori».

«Era bravissima, non si riusciva a starle dietro, mi appannava la testa».

Disse proprio a quel modo – mi appannava la testa –, e io se prima c’ero rimasta un po’ male perché di fatto mi aveva detto che la sua dichiarazione d’amore era stato solo un tentativo per introdursi nel rapporto tra me e Lila, questa volta soffrii in modo evidente, sentii proprio un dolore in mezzo al

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petto.

«Non è più così» dissi, «è cambiata».

E avvertii la spinta ad aggiungere: “Hai sentito, i professori come parlano di me, a scuola?”. Meno male che riuscii a trattenermi. Però, a partire da quella conversazione, smisi di scrivere a Lila: facevo fatica a raccontarle ciò che mi stava succedendo, e comunque non mi rispondeva. Mi dedicai invece alla cura di Nino. Sapevo che si svegliava tardi e inventavo scuse d’ogni genere per non fare colazione con gli altri. Aspettavo lui, scendevo con lui al mare, preparavo io le sue cose, gliele portavo io, facevamo il bagno insieme.

Ma quando andava al largo non mi sentivo in grado di tenergli dietro, tornavo sul bagnasciuga a sorvegliare in apprensione la scia che lasciava, il puntino scuro della sua testa. Entravo in ansia se lo perdevo, ero felice quando lo vedevo tornare. Insomma lo amavo e lo sapevo ed ero contenta di amarlo.

Ma intanto Ferragosto era sempre più vicino. Una sera gli dissi che non volevo andare al Porto, preferivo fare una passeggiata ai Maronti, c’era la luna piena. Sperai che venisse con me rinunciando ad accompagnare la sorella, che premeva per il Porto dove ormai aveva una specie di fidanzato col quale, mi raccontava, scambiava baci e abbracci tradendo l’altro fidanzato di Napoli. Invece lui andò con Marisa. Io, per una questione di principio, mi avviai per la strada sassosa che portava alla spiaggia. La sabbia era fredda, nerogrigia alla luce della luna, il mare respirava appena. Non c’era anima viva e mi misi a piangere di solitudine. Cos’ero, chi ero? Mi sentivo di nuovo bella, non avevo più brufoli, il sole e il mare mi avevano snellita, e tuttavia la persona che mi piaceva e a cui volevo piacere non mostrava nessun interesse per me. Quali segni avevo addosso, quale destino? Pensai al rione come a una voragine dalla quale era illusorio tentare di uscire. Poi sentii il fruscio della sabbia, mi girai, vidi l’ombra di Nino. Mi si sedette a lato. Doveva tornare a prendere la sorella dopo un’ora. Lo sentii nervoso, colpiva la sabbia con il tallone della gamba sinistra. Non parlò di libri, all’improvviso cominciò a parlare del padre.

«Dedicherò la mia vita» disse come se si trattasse di una missione, «a cercare di non assomigliargli».

«È un uomo simpatico».

«Lo dicono tutti».

«E allora?».

Fece una smorfia sarcastica che per qualche secondo lo imbruttì.

«Come sta Melina?».

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Lo guardai stupita. Io ero stata ben attenta a non menzionare mai Melina in quei giorni di chiacchiere fitte, e lui ecco che ne parlava.

«Così».

«È stato il suo amante. Lo sapeva benissimo che era una donna fragile, ma se l’è presa ugualmente, per pura vanità. Per vanità farebbe male a chiunque e senza sentirsene responsabile. Poiché è convinto di far felice tutti, crede che tutto gli vada perdonato. Va a messa ogni domenica. Tratta noi figli con riguardo. È pieno di attenzioni per mia madre. Ma la tradisce continuamente.

È un ipocrita, mi fa schifo».

Are sens