«No».
«Carmè, non voglio discutere: andatevene».
«Non sappiamo tornare».
«Non dire bugie».
«Va’» disse Rino a Lila, cercando di contenersi, «pigliati un po’ di soldi, per strada vi comprate il gelato».
«Siamo usciti insieme e torniamo insieme».
Rino perse la pazienza di nuovo, le diede uno spintone:
«Ma tu la vuoi finire? Il fratello grande sono io e devi fare quello che ti dico. Muoviti, su, vai, che non ci metto niente a spaccarti la faccia».
Vidi che era pronto a farlo sul serio, tirai per un braccio Lila. Capì anche lei che rischiava:
«Lo dico a papà».
«E chi se ne fotte. Cammina, su, fila, non ti meriti nemmeno il gelato».
Incerte ci allontanammo su per Santa Caterina. Ma dopo un po’ Lila ci ripensò, si fermò, disse che tornava dal fratello. Cercammo di convincerla a restare con noi, ma non ne voleva sapere. Proprio mentre stavamo discutendo vedemmo un gruppo di ragazzi, cinque, forse sei, sembravano i canottieri che certe volte avevamo ammirato nelle passeggiate della domenica sotto Castel dell’Ovo. Erano tutti alti, ben piantati, ben vestiti. Alcuni avevano un bastone, altri no. Passarono accanto alla chiesa a passo svelto e andarono verso la piazza. Tra loro c’era il giovane che Rino aveva colpito in faccia, aveva il maglione a V sporco di sangue.
Lila si liberò della mia stretta e corse via, io e Carmela dietro. Arrivammo
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in tempo per vedere Rino e Pasquale che arretravano verso il monumento al centro della piazza, fianco a fianco, e il gruppo di quelli ben vestiti che gli correvano addosso e li colpivano coi bastoni. Gridammo aiuto, cominciammo a piangere, a bloccare passanti, ma i bastoni spaventavano, la gente non faceva nulla. Lila afferrò uno degli aggressori per un braccio ma fu buttata per terra. Vidi Pasquale in ginocchio, colpito a calci, vidi Rino che si riparava col braccio dalle bastonate. Poi si fermò una macchina ed era il Millecento dei Solara.
Ne scese subito Marcello, che prima tirò su Lila e poi, aizzato da lei che strillava di rabbia e chiamava il fratello, si gettò nella mischia tirando cazzotti e ricevendone. Solo a quel punto dall’automobile uscì Michele, aprì con comodo il portabagagli, prese qualcosa che pareva un pezzo di ferro lucente ed entrò nella mischia picchiando con una ferocia fredda che spero di non vedere mai più nella vita. Rino e Pasquale si risollevarono furiosi, ora picchiavano, stringevano, strappavano, e mi sembravano due sconosciuti tanto erano trasformati dall’odio. I giovani ben vestiti furono messi in fuga.
Michele s’accostò a Pasquale che sanguinava dal naso, ma Pasquale lo respinse in malo modo e si passò in faccia la manica della camicia bianca, poi se la guardò bagnata di rosso. Marcello raccolse da terra un mazzo di chiavi e lo diede a Rino, che ringraziò a disagio. La gente che prima s’era allontanata ora si avvicinava incuriosita. Io ero paralizzata dalla paura.
«Portatevi via le ragazze» disse Rino ai due Solara, col tono grato di chi fa una richiesta che sa ineludibile.
Marcello ci costrinse a entrare in macchina, per prima Lila che faceva più resistenza. Ci ficcammo tutte sul sedile di dietro, l’una sulle ginocchia dell’altra, partimmo. Mi girai a guardare Pasquale e Rino che si allontanavano verso la Riviera, Pasquale zoppicava. Mi sentii come se il rione si fosse allargato e avesse inglobato tutta Napoli, anche le vie della gente perbene. In auto ci furono subito tensioni. Gigliola e Ada erano molto seccate, protestarono per come si viaggiava scomode. «Non è possibile»
dicevano. «Allora scendete e andate a piedi» gridò Lila e stavano per picchiarsi. Marcello frenò divertito. Gigliola scese e, con un’andatura lenta da principessa, s’andò a sedere davanti, sulle ginocchia di Michele. Facemmo il viaggio così, con Gigliola e Michele che si baciavano di continuo sotto i nostri occhi. Io la guardavo e lei, mentre dava baci appassionati, guardava me. Giravo subito lo sguardo.
Lila non disse più niente finché non arrivammo al rione. Marcello buttò lì
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qualche parola, cercandola con lo sguardo nello specchietto retrovisore, ma lei non gli rispose mai. Ci facemmo lasciare lontano da casa per evitare che ci vedessero nella macchina dei Solara. Il resto della strada lo facemmo a piedi, noi cinque ragazze. A parte Lila, che sembrava mangiata dalle furie e dalle preoccupazioni, eravamo tutte molto ammirate dal comportamento dei due fratelli. Bravi, dicevamo, hanno fatto bene. Gigliola ripeteva di continuo: «E
certo», «E che vi credevate», «E sicuro» con l’aria di chi, lavorando nella pasticceria, sapeva bene che gente di qualità erano i Solara. A un certo punto mi chiese, ma con l’aria di chi prende in giro:
«A scuola com’è?».
«Bello».
«Però non ti diverti come mi diverto io».
«È un altro tipo di divertimento».
Quando lei, Carmela e Ada ci lasciarono per infilarsi nei portoni di casa loro io dissi a Lila:
«Certo che i signori sono peggio di noi».
Lei non replicò. Aggiunsi, circospetta:
«I Solara saranno gente di merda, però meno male che c’erano: quelli di via dei Mille li potevano uccidere, a Rino e a Pasquale».
Lei scosse la testa energicamente. Era più pallida del solito e sotto gli occhi aveva solchi profondi di colore viola. Non era d’accordo ma non mi disse perché.
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27.
Fui promossa con tutti nove, avrei ricevuto persino una cosa che si chiamava borsa di studio. Dei quaranta che eravamo restammo in trentadue. Gino fu bocciato, Alfonso fu rimandato a settembre in tre materie. Spinta da mio padre andai a casa della maestra Oliviero – mia madre era contraria, non le piaceva che la Oliviero mettesse becco nella sua famiglia e si arrogasse di prendere decisioni sui suoi figli al posto suo – con i soliti due pacchetti, uno di zucchero e uno di caffè, acquistati al bar Solara, per ringraziarla del suo interesse per me.
Lei si sentiva poco bene, aveva qualcosa in gola che le faceva male, ma mi lodò molto, si complimentò per quanto mi ero impegnata, disse che mi vedeva un po’ troppo pallida e che aveva intenzione di telefonare a una sua cugina che abitava a Ischia per vedere se mi ospitava per un po’ di tempo.
Ringraziai, non dissi niente a mia madre di quell’eventualità. Sapevo già che non mi avrebbe mai mandata. Io a Ischia? Io da sola sul vaporetto a fare un viaggio per mare? Io nientemeno in spiaggia, a bagnarmi in costume da bagno?
Non ne parlai nemmeno a Lila. La sua vita in pochi mesi aveva perso anche l’aura avventurosa della fabbrica di scarpe, e non me la sentivo di vantarmi della promozione, della borsa di studio, di una mia possibile vacanza a Ischia. All’apparenza le cose erano migliorate: Marcello Solara aveva smesso di andarle dietro. Ma dopo le violenze di piazza dei Martiri c’era stato un fatto del tutto inatteso che l’aveva lasciata perplessa. Il giovane, mettendo in agitazione soprattutto Fernando per l’onore che gli veniva fatto, s’era presentato in bottega per informarsi sulle condizioni di Rino. Senonché Rino, che s’era guardato bene dal raccontare al padre l’accaduto (per giustificare i lividi che aveva in faccia e sul corpo s’era inventato di essere caduto dalla Lambretta di un suo amico), temendo che Marcello dicesse una parola di troppo l’aveva subito spinto in strada. Avevano fatto quattro passi.
Rino aveva ringraziato malvolentieri Solara sia per il suo intervento, sia per la gentilezza di passare a vedere come stava. Due minuti e s’erano salutati. Al