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tornata: pensavo di dover aspettare fino a settembre».

Non avevamo mai fatto quel percorso verso i giardinetti così strette l’una all’altra, così affiatate, così felici di esserci ritrovate. Mi raccontò che le cose peggioravano ogni giorno di più. Proprio la sera prima Marcello era arrivato con dolci e spumante e le aveva regalato un anello tempestato di brillanti. Lei lo aveva accettato, se l’era messo al dito per evitare problemi in presenza dei genitori, ma poco prima che lui andasse via, sulla porta, glielo aveva restituito in malo modo. Marcello aveva protestato, l’aveva minacciata come ormai faceva sempre più spesso, poi era scoppiato a piangere. Fernando e Nunzia s’erano accorti subito che qualcosa non andava. Sua madre s’era affezionata a Marcello, le piacevano le cose buone che ogni sera lui portava in casa, era fiera di essere proprietaria di una televisione; e Fernando si sentiva come se avesse smesso di tribolare, perché, grazie alla parentela prossima coi Solara, poteva guardare al futuro senza ansie. Così, appena Marcello era andato via, entrambi l’avevano tormentata più del solito per sapere cosa stava succedendo. Conseguenza: per la prima volta Rino, dopo tanto tanto tempo, l’aveva difesa, aveva gridato che se sua sorella non voleva un battilocchio come Marcello, era suo diritto sacrosanto rifiutarlo e che, se loro insistevano a darglielo, lui, lui in persona, avrebbe bruciato tutto, la casa e la calzoleria e se stesso e l’intera famiglia. Padre e figlio erano venuti alle mani, Nunzia s’era messa in mezzo, s’era svegliato tutto il vicinato. Non solo: Rino s’era buttato sul letto agitatissimo, era bruscamente crollato nel sonno, e un’ora dopo aveva avuto un altro dei suoi episodi di sonnambulismo. L’avevano trovato in cucina mentre accendeva un fiammifero dietro l’altro e li passava accanto alla chiavetta del gas come per vedere se c’erano perdite. Nunzia aveva svegliato Lila atterrita, le aveva detto: «Rino ci vuole davvero bruciare vivi a tutti» e lei era corsa a vedere e aveva rassicurato la madre: Rino stava dormendo e nel sonno, a differenza di quando era sveglio, si preoccupava davvero che non ci fossero fughe di gas.

Lo aveva riaccompagnato a letto e l’aveva messo a dormire.

«Non ce la faccio più» concluse, «tu non sai cosa sto passando, devo uscire da questa situazione».

Si strinse a me come se potessi caricarla di energia.

«Tu stai bene» disse, «a te va bene tutto: mi devi aiutare».

Le risposi che poteva contare su di me per ogni cosa e lei sembrò sollevata, mi strinse il braccio, sussurrò:

«Guarda».

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Vidi da lontano una sorta di macchia rossa che irraggiava luce.

«Cos’è?».

«Non lo vedi?».

Non vedevo bene.

«È la macchina nuova che s’è comprato Stefano».

L’automobile era parcheggiata davanti alla salumeria, che era stata ampliata, adesso aveva due ingressi, era affollatissima. Le clienti, in attesa di essere servite, lanciavano sguardi ammirati a quel simbolo di benessere e di prestigio: nel rione non s’era mai vista una vettura del genere, tutta vetri e metallo, col tetto che si apriva. Una macchina da gran signori, niente a che vedere col Millecento dei Solara.

Ci girai intorno mentre Lila se ne stava all’ombra e sorvegliava la strada come se si aspettasse da un momento all’altro una violenza. Sulla soglia della salumeria si affacciò Stefano col camice tutto unto, la testa grande e la fronte alta che davano un’idea di sproporzione, ma non spiacevole. Attraversò la strada, mi salutò con cordialità, disse:

«Come stai bene, sembri un’attrice».

Anche lui stava bene: aveva preso sole come me, forse eravamo gli unici in tutto il rione ad avere un’aria così sana. Gli dissi: «Quanto sei nero».

«Mi sono preso una settimana di ferie».

«Dove?».

«A Ischia».

«Pure io stavo Ischia».

«Lo so, Lina me l’ha detto: t’ho cercata ma non ti ho mai vista».

Indicai la macchina.

«È bella».

Stefano si dipinse in viso un’espressione di moderato consenso. Disse accennando a Lila, con occhi divertiti:

«L’ho comprata per la tua amica, ma lei non ci vuole credere». Guardai Lila che se ne stava seria, all’ombra, l’espressione tesa. Stefano le si rivolse vagamente ironico: «Ora Lenuccia è tornata, che fai?».

Lila disse come se la cosa le dispiacesse: «Andiamo. Ma ricordati che hai invitato lei, non me: io vi ho solo accompagnati».

Lui sorrise e tornò nel negozio.

«Che succede?» le chiesi disorientata.

«Non lo so» rispose, e voleva dire che non sapeva di preciso in cosa si stava ficcando. Aveva l’aria di quando doveva fare a mente un calcolo

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difficile, però senza l’espressione sfrontata di sempre, era visibilmente preoccupata, come se stesse tentando un esperimento di esito incerto. «È

cominciato tutto» mi disse, «con l’arrivo di questa automobile». Stefano, prima come se scherzasse, poi sempre più seriamente, le aveva giurato di aver comprato quell’auto per lei, per il piacere di aprirle almeno una volta lo sportello e farcela salire. «Qua dentro ci stai bene solo tu» le aveva detto. E

da quando gliel’avevano consegnata, alla fine di luglio, le aveva chiesto di continuo, ma non in modo assillante, con gentilezza, prima di fare un giro con lui e Alfonso, poi con lui e Pinuccia, poi persino con lui e la madre. Ma lei aveva risposto sempre no. Finalmente gli aveva promesso: «Ci vengo quando torna Lenuccia da Ischia». E ora eravamo lì, e quel che doveva succedere sarebbe successo.

«Ma lo sa di Marcello?».

«Certo che lo sa».

«E allora?».

«Allora insiste».

«Ho paura, Lila».

«Ti ricordi quante cose abbiamo fatto che ci facevano paura? Ho aspettato te apposta».

Stefano tornò senza camice, nero di capelli, nero di viso, occhi neri lucenti, camicia bianca e pantaloni scuri. Aprì l’automobile, sedette al volante, sollevò la capote. Io feci per infilarmi nell’esiguo spazio posteriore ma Lila mi bloccò, si sistemò lei dietro. Mi accomodai a disagio accanto a Stefano, lui partì subito dirigendosi verso le palazzine nuove.

La calura si disperse col vento. Mi sentii bene, inebriata dalla velocità e insieme dalle tranquille certezze sprigionate dal corpo di Carracci. Mi sembrò che Lila mi avesse spiegato tutto senza spiegarmi niente. C’era, sì, quell’automobile sportiva nuova fiammante che era stata comprata solo per portarla a fare il giro che era appena cominciato. C’era, sì, quel giovane che, pur sapendo di Marcello Solara, violava regole virili senza alcuna visibile ansia. C’ero, sì, io, tirata in fretta e furia dentro quella vicenda per nascondere con la mia presenza parole segrete tra loro, forse addirittura un’amicizia. Ma che tipo di amicizia? Di sicuro stava accadendo, con quel giro in macchina, qualcosa di rilevante, eppure Lila non aveva saputo o voluto fornirmi gli elementi necessari per capire. Che aveva in mente? Non poteva non sapere che stava avviando un terremoto peggio di quando lanciava pezzetti di carta intrisi d’inchiostro. E tuttavia era probabile che davvero non puntasse a

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niente di preciso. Lei era così, rompeva equilibri solo per vedere in quale altro modo poteva ricomporli. Sicché eccoci in corsa, capelli al vento, Stefano che guidava con soddisfatta perizia, io che gli sedevo a lato come se fossi la sua fidanzata. Pensai a come mi aveva guardato, quando mi aveva detto che sembravo un’attrice. Pensai alla possibilità di potergli piacere più di quanto ora gli piacesse la mia amica. Pensai con orrore all’eventualità che Marcello Solara gli sparasse. La sua bella persona dai gesti sicuri avrebbe perso consistenza come il rame della pentola di cui mi aveva scritto Lila.

Il giro per le palazzine nuove servì a evitare di passare davanti al bar Solara.

«A me non importa se Marcello ci vede» disse Stefano senza enfasi, «ma se importa a te va bene così».

Imboccammo il tunnel, filammo verso la Marina. Era la strada che avevamo fatto io e Lila molti anni prima, quando ci aveva colto la pioggia. Io accennai a quell’episodio, lei sorrise, Stefano volle che raccontassimo.

Raccontammo ogni cosa, ci divertimmo e intanto arrivammo ai Granili.

Are sens