"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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Lila tirò fuori la mano, si stropicciò le dita, gliela tese.

«Tocca».

Rino ci infilò una mano, disse: «È asciutta».

«È umida».

«Lo senti solo tu, l’umido. Tocca, Lenù».

Toccai.

«Un po’ è umida» dissi.

Lila ebbe una smorfia di scontento.

«Visto? La tieni un minuto in acqua ed è già umida, non va. Dobbiamo scollare e scucire tutto un’altra volta».

«Cosa cazzo vuoi che sia un po’ di umidità?».

Rino si arrabbiò. Non solo: ebbe, sotto i miei occhi, una specie di trasformazione. Diventò rosso in viso, si gonfiò intorno agli occhi e sugli zigomi, non seppe contenersi ed esplose in una serie di imprecazioni e bestemmie contro la sorella. Si lagnò che così non si finiva mai. Rimproverò a Lila che prima lo incoraggiava e poi lo scoraggiava. Gridò che lui non voleva restare per sempre dentro quello schifo di posto a fare il servo di suo padre e a vedere come si arricchivano gli altri. Afferrò il piede di ferro, fece l’atto di lanciarglielo, e se l’avesse fatto sul serio l’avrebbe uccisa.

Io me ne andai, da un lato disorientata da quella furia di un giovane in genere gentile e dall’altro fiera per quanto era risultato autorevole, definitivo, il mio parere.

Nei giorni seguenti scoprii che l’acne si stava seccando.

«Stai proprio bene, è la soddisfazione che ti dà la scuola, è l’amore» mi disse Lila e la sentii un po’ triste.

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20.

Rino, approssimandosi la festa di fine anno, fu preso dalla smania di sparare più fuochi di tutti, soprattutto più di quanti ne sparavano i Solara. Lila lo prendeva in giro, ma a volte diventava con lui piuttosto dura. Mi disse che secondo lei suo fratello, che all’inizio era scettico sulla possibilità di far molti soldi con le scarpe, adesso aveva cominciato a puntarci troppo, s’era visto già padrone del calzaturificio Cerullo e non voleva tornare ciabattino. Questo la preoccupava, era un lato di Rino che non conosceva. Le era sembrato sempre e soltanto generosamente irruento, a tratti aggressivo, ma non fanfarone. Ora invece s’atteggiava a ciò che non era. Si sentiva vicino alla ricchezza. Un padroncino. Uno in grado di dare al rione un primo segnale della fortuna che gli avrebbe portato l’anno nuovo sparando fuochi in quantità, più, assai più dei fratelli Solara, che erano diventati ai suoi occhi il modello di giovane uomo da imitare e addirittura da superare. Gente che invidiava e che sentiva come nemici da dover battere per arrivare ad assumerne il ruolo.

Lila non disse mai, come era successo per Carmela e per le altre ragazze del cortile: forse gli ho messo in testa una fantasia che non sa tenere sotto controllo. Alla fantasia credeva lei stessa, la sentiva realizzabile, e il fratello era un tassello importante di quella realizzazione. E poi gli voleva bene, era più grande di lei di ben sei anni, non lo voleva ridurre a un bambino che non sa gestire i sogni. Ma buttò lì spesso che Rino mancava di concretezza, non sapeva affrontare le difficoltà coi piedi per terra, tendeva a eccedere. Come con quella gara coi Solara, per esempio.

«Forse è geloso di Marcello» dissi una volta.

«Cioè?».

Rise facendo la finta tonta, ma me l’aveva raccontato lei stessa. Marcello Solara passava e spassava davanti alla calzoleria tutti i giorni, sia a piedi che col Millecento, e Rino se ne doveva essere accorto, tanto che aveva detto più volte alla sorella: «Non t’azzardare a dare confidenza a chillu strunz». Forse, chissà, non potendo spaccare la faccia ai Solara perché puntavano a sua sorella, voleva mostrar loro la sua forza coi fuochi d’artificio.

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«Se è così, lo vedi che ho ragione?».

«Ragione su cosa?».

«Che è diventato un fanfarone: da dove li prende i soldi per i fuochi?».

Era vero. La notte dell’ultimo dell’anno era una notte di battaglia, nel rione e in tutta Napoli. Luci abbaglianti, esplosioni. Il fumo densissimo della polvere da sparo rendeva ogni cosa nebulosa, entrava nelle case, bruciava gli occhi, dava la tosse. Ma lo scoppiettio dei trictrac, il sibilo dei razzi, il cannoneggiamento delle botte a muro aveva un costo e come al solito sparava di più chi aveva più soldi. Noi Greco non avevamo soldi, a casa mia il contributo ai fuochi di fine anno era scarso. Mio padre comprava una scatola di fitfit, una di rotelle e una di esili razzi. A mezzanotte metteva in mano a me, che ero la più grande, il ferretto delle stelline o quello delle girandole, accendeva e io stavo immobile, eccitata e spaventata, a fissare le mobili scintille, i brevi vortici di fuoco a poca distanza dalle dita. Lui intanto correva a mettere l’asta dei razzi in una bottiglia di vetro sul marmo della finestra, bruciava la miccia con la brace della sigaretta e, entusiasta, faceva partire per il cielo il sibilo luminoso. Alla fine lanciava in strada anche la bottiglia.

Anche a casa di Lila si sparava poco o niente, tant’è vero che Rino s’era subito ribellato. Fin dai dodici anni aveva preso l’abitudine di andarsene a fare la mezzanotte con persone più audaci del padre, ed erano famose le sue imprese di recuperante di botte inesplose, delle quali andava a caccia appena il caos della festa finiva. Le raccoglieva tutte insieme nella zona degli stagni, dava fuoco e si godeva la sfiammata alta, trac trac trac, l’esplosione finale.

Aveva ancora una cicatrice scura sulla mano, una macchia larga, dovuta alla volta che non s’era tirato indietro in tempo.

Tra le tante ragioni palesi e segrete di quella sfida della fine dell’anno 1958, bisogna dunque metterci anche che forse Rino voleva prendersi una rivincita sull’infanzia povera. Perciò si mise d’impegno a raccattare soldi qua e là per acquistare i fuochi. Ma si sapeva – lo sapeva anche lui malgrado la smania di grandezza che l’aveva preso – che coi Solara non c’era competizione. Come tutti gli anni, i due fratelli viaggiavano avanti e indietro da giorni nel loro Millecento, il portabagagli carico dell’esplosivo che la notte di Capodanno avrebbe ucciso uccelli, spaventato cani gatti topi, fatto tremare le palazzine dagli scantinati fino al lastrico. Rino li osservava dalla bottega con astio e intanto trafficava con Pasquale, con Antonio e soprattutto con Enzo, che aveva un po’ più soldi, per mettere su un arsenale che facesse almeno una buona figura.

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Le cose ebbero un loro piccolo, inatteso cambiamento quando Lila e io fummo mandate dalle nostre madri a fare la spesa per il cenone nella salumeria di Stefano Carracci. Il negozio era pieno di gente. Dietro il banco, oltre a Stefano e a Pinuccia, serviva anche Alfonso, che ci fece un sorriso imbarazzato. Ci disponemmo a una lunga attesa. Ma Stefano rivolse a me, inequivocabilmente a me, un cenno di saluto, e disse qualcosa all’orecchio del fratello. Il mio compagno di scuola venne fuori dal bancone e mi chiese se avevamo la lista delle cose da comprare. Gliela demmo e lui filò via. In cinque minuti la nostra spesa era pronta.

Mettemmo tutto nelle borse, pagammo il dovuto alla signora Maria e ce ne andammo. Ma avevamo fatto pochi passi quando non Alfonso, ma Stefano, proprio Stefano, mi chiamò con la sua bella voce d’uomo fatto:

«Lenù».

Ci raggiunse. Aveva un’espressione tranquilla, il sorriso cordiale. Lo guastava un po’ soltanto il camice bianco macchiato di untumi. Parlò a entrambe, in dialetto, ma guardando me:

«Volete venire a festeggiare l’anno nuovo a casa mia? Alfonso ci tiene molto».

Moglie e figli di don Achille, anche dopo l’assassinio del padre, facevano vita molto ritirata: chiesa, salumeria, casa, al massimo qualche festicciola a cui non si poteva mancare. Quell’invito era una novità. Risposi accennando a Lila:

«Siamo già impegnate, stiamo con suo fratello e tanti amici».

«Ditelo pure a Rino, ditelo ai vostri genitori: la casa è grande e per le botte andiamo sul terrazzo».

Lila s’intromise con un tono liquidatorio:

«Con noi vengono a festeggiare pure Pasquale e Carmen Peluso con la loro madre».

Doveva essere una frase che eliminava ogni ulteriore chiacchiera: Alfredo Peluso era a Poggioreale perché aveva ammazzato don Achille, e il figlio di don Achille non poteva invitare i figli di Alfredo a brindare all’anno nuovo a casa sua. Invece Stefano la guardò come se fino a quel momento non l’avesse vista, uno sguardo molto intenso, e buttò lì col tono delle cose ovvie:

«Va bene, venite tutti: ci beviamo lo spumante, balliamo, anno nuovo vita nuova».

Quelle parole mi commossero. Guardai Lila, anche lei era disorientata.

Mormorò:

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«Dobbiamo parlare con mio fratello».

«Fatemi sapere».

«E i fuochi?».

«In che senso?».

«Noi portiamo i nostri, e tu?».

Are sens