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13.
Adesso dunque sanguinava anche lei. I movimenti segreti del corpo, che avevano raggiunto me per prima, erano arrivati come l’onda di un terremoto anche a lei e l’avrebbero cambiata, stava già cambiando. Pasquale – pensai –
se n’è accorto prima di me. Lui e probabilmente altri ragazzi. Perse velocemente aura il fatto che sarei andata al ginnasio. Per giorni non riuscii a pensare ad altro che all’incognita dei mutamenti che avrebbero investito Lila.
Sarebbe diventata bella come Pinuccia Carracci o Gigliola o Carmela?
Sarebbe imbruttita come me? Tornai a casa e mi studiai allo specchio.
Com’ero davvero? Come sarebbe stata, presto o tardi, lei?
Presi a curarmi di più. Una domenica pomeriggio, in occasione del solito passeggio dallo stradone ai giardinetti, indossai il mio vestito della festa, un abito azzurro con una scollatura quadrata, e misi anche il braccialetto d’argento di mia madre. Quando m’incontrai con Lila provai un segreto piacere a vederla com’era tutti i giorni, i capelli nerissimi in disordine, un vestitino liso e scolorito. Non c’era niente che la differenziasse dalla solita Lila, una bambina nervosa e scarna. Mi sembrò solo più slanciata, da piccolina che era s’era fatta alta quasi quanto me, forse solo un centimetro in meno. Ma cos’era mai quel cambiamento? Io avevo un seno grande, forme di donna.
Arrivammo fino ai giardinetti, tornammo indietro, rifacemmo la strada fino ai giardinetti. Era presto, non c’era ancora il brusio della domenica, i venditori di nocelle e mandorle tostate e lupini. Lila tornò a chiedermi cautamente del ginnasio. Le dissi quel poco che sapevo ma gonfiandolo il più possibile. Volevo che se ne incuriosisse, che desiderasse almeno un poco partecipare a quella mia avventura dall’esterno, che sentisse di perdere qualcosa di me come io temevo sempre di perdere molto di lei. Camminavo dal lato della strada, lei all’interno. Parlavo, ascoltava con molta attenzione.
Poi ci affiancò il Millecento dei Solara, alla guida c’era Michele, a lato c’era Marcello. Quest’ultimo cominciò a dirci spiritosaggini. A dirle proprio a entrambe, non solo a me. Canterellava in dialetto frasi tipo: ma che belle
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signorine, non vi stancate di andare avanti e indietro, guardate che Napoli è grande, la più bella città del mondo, bella come voi, salite, mezzora solo e vi riportiamo qua.
Non avrei dovuto farlo ma lo feci. Invece di tirare diritto come se non esistessero né lui né l’auto né suo fratello; invece di continuare a chiacchierare con Lila ignorandolo, per un bisogno di sentirmi attraente e fortunata e prossima ad andare nella scuola dei signori, dove avrei trovato con tutta probabilità ragazzi con un’automobile più bella di quella dei Solara, mi girai e dissi in italiano:
«Grazie, ma non possiamo».
Allora Marcello allungò una mano. Gliela vidi larga e corta, sebbene fosse un giovane alto, ben fatto. Le cinque dita valicarono il finestrino e vennero a prendermi per il polso, mentre la sua voce diceva:
«Michè, frena, tu vedi che bel braccialetto ha la figlia dell’usciere? ».
La macchina si fermò. Le dita di Marcello intorno al polso mi aggricciarono la pelle, tirai via il braccio per il ribrezzo. Il braccialetto si spezzò, cadde tra il marciapiede e l’auto.
«Madonna, guarda che m’hai fatto» esclamai pensando a mia madre.
«Calma» disse lui e aprì lo sportello, uscì dall’auto. «Adesso te l’aggiusto».
Era allegro, cordiale, provò di nuovo a prendermi il polso come per stabilire una familiarità che mi calmasse. Fu un attimo. Lila, la metà di lui, lo spinse contro l’automobile e gli cacciò il trincetto sotto la gola.
Disse con calma, in dialetto:
«Toccala un’altra volta e ti faccio vedere cosa succede».
Marcello s’immobilizzò incredulo. Michele venne fuori subito dall’auto dicendo con tono rassicurante:
«Non ti fa niente, Marcè, ’sta zoccola non ha il coraggio».
«Vieni» disse Lila, «vieni, così capisci se non ho il coraggio».
Michele girò intorno all’auto mentre io cominciavo a piangere. Da dov’ero vedevo bene che la punta del trincetto aveva già tagliato la pelle di Marcello, un graffio da cui veniva un filo esile di sangue. Ho in mente con chiarezza la scena: faceva ancora molto caldo, pochi passanti, Lila era su Marcello come se gli avesse visto un brutto insetto in faccia e volesse cacciarglielo via. M’è rimasta in testa l’assoluta certezza di allora: non avrebbe esitato a tagliargli la gola. Se ne accorse anche Michele.
«Va bene, brava» disse, e sempre con la stessa calma, quasi divertito, tornò
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in macchina. «Sali, Marcè, chiedi scusa alle signorine e andiamo».
Lila staccò lentamente la punta della lama dalla gola di Marcello. Lui le fece un sorriso timido, aveva lo sguardo disorientato.
«Un momento» disse.
S’inginocchiò sul marciapiede, davanti a me, come se si volesse scusare sottoponendosi alla forma massima dell’umiliazione. Frugò sotto l’automobile, recuperò il braccialetto, lo esaminò e lo riparò stringendo con le unghie l’anellino d’argento che aveva ceduto. Me lo diede guardando non me ma Lila. Fu a lei che disse: «Scusa». Poi salì in automobile e l’auto partì.
«Mi sono messa a piangere per il braccialetto, non per la paura» dissi.
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14.
I confini del rione sbiadirono nel corso di quell’estate. Una mattina mio padre mi portò con sé. Volle che, con l’occasione dell’iscrizione al liceo, capissi bene che mezzi avrei dovuto prendere e che strade avrei dovuto fare per andare a ottobre nella nuova scuola.
Era una bella, chiarissima giornata ventosa. Mi sentii amata, coccolata, all’affetto che avevo per lui si aggiunse presto un crescendo di ammirazione.
Conosceva benissimo lo spazio enorme della città, sapeva dove prendere la metropolitana o un tram o un autobus. Per strada si comportava con una socievolezza, una cortesia lenta, che in casa non aveva quasi mai.
Familiarizzava con chiunque, nei mezzi pubblici, negli uffici, e riusciva sempre a far sapere all’interlocutore che lui lavorava al comune e che volendo avrebbe potuto velocizzare pratiche, aprire porte.
Passammo insieme l’intera giornata, l’unica della nostra vita, altre non me ne ricordo. Si dedicò molto a me, come se volesse trasmettermi in poche ore tutto quello che di utile aveva imparato nel corso della sua esistenza. Mi mostrò piazza Garibaldi e la stazione che stavano costruendo: secondo lui era così moderna che arrivavano i giapponesi dal Giappone apposta per studiarsela e rifarla identica a casa loro, soprattutto i pilastri. Ma mi confessò che la stazione precedente gli piaceva di più, c’era più affezionato. Pazienza.