Mi guardò con uno sguardo perplesso.
«Sì».
«E ci vai a trovare tuo padre a Poggioreale?».
Diventò serio:
«Quando posso».
«Ciao».
«Ciao».
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10.
La maestra Oliviero, quello stesso pomeriggio, si presentò a casa mia senza preavviso, gettando nella più totale angoscia mio padre e inasprendo mia madre. Si fece giurare da entrambi che mi avrebbero iscritto al liceo classico più vicino. Si offrì di trovarmi lei stessa i libri che mi sarebbero serviti. Riferì a mio padre, ma guardando me con severità, che mi aveva vista da sola con Pasquale Peluso, una compagnia del tutto inadeguata a me che ero di belle speranze.
I miei genitori non osarono contraddirla. Le giurarono anzi solennemente che mi avrebbero mandata in quarto ginnasio e mio padre disse nero: «Lenù, non t’azzardare mai più a parlare con Pasquale Peluso». Prima di accomiatarsi la maestra mi chiese di Lila, sempre in presenza dei miei genitori. Le risposi che aiutava il padre e il fratello, teneva in ordine i conti e il negozio. Ebbe una smorfia di dispetto, mi domandò:
«Lo sa che hai preso nove in latino?».
Feci cenno di sì.
«Dille che adesso studierai pure il greco. Diglielo».
Si accomiatò dai miei genitori tutta impettita.
«Questa ragazza» esclamò, «ci darà grandissime soddisfazioni».
La sera stessa, mentre mia madre, furiosa, diceva che ora bisognava mandarmi per forza nella scuola dei signori, altrimenti la Oliviero l’avrebbe sfinita dandole il tormento e avrebbe pure bocciato chissà quante volte la piccola Elisa per rappresaglia; mentre mio padre, come se fosse quello il problema principale, minacciava di spezzarmi tutt’e due le gambe se avesse saputo che ero stata ancora a tu per tu con Pasquale Peluso, si sentì un grido altissimo che ci tolse la parola. Era Ada, la figlia di Melina, che invocava aiuto.
Corremmo alle finestre, c’era un gran trambusto nel cortile. Si capì che Melina, la quale dopo il trasloco dei Sarratore si era in genere comportata bene – un po’ malinconica certo, un po’ svagata, ma nella sostanza le stranezze erano diventate rare e innocue, tipo cantare a voce altissima mentre
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lavava le scale delle palazzine o gettare secchiate d’acqua sporca in strada senza badare a chi passava –, stava avendo una crisi nuova di follia, una sorta di pazzia della felicità. Rideva, saltava sul letto di casa e si tirava su la gonna mostrando le cosce scarne e le mutande ai figli spaventati. Questo mia madre capì, interrogando dalla finestra le donne affacciate alle finestre. Io vidi che anche Nunzia Cerullo e Lila accorrevano per vedere cosa stava succedendo e provai a infilare la porta per raggiungerle, ma mia madre me lo impedì. Si ravviò i capelli e, col suo passo claudicante, andò lei a valutare la situazione.
Al ritorno era indignata. Qualcuno aveva recapitato a Melina un libro. Un libro, sì, un libro. A lei, che aveva al massimo la seconda elementare e non ne aveva mai letto uno in vita sua. Il libro portava in copertina il nome di Donato Sarratore. Dentro, sulla prima pagina, aveva una dedica a penna per Melina e c’erano segnate pure, con l’inchiostro rosso, le poesie che aveva scritto per lei.
Mio padre, a sentire quella stranezza, insultò in modo molto osceno il ferroviere-poeta. Mia madre disse che qualcuno si sarebbe dovuto incaricare di spaccare a quell’uomo di merda la testa di merda che aveva. Sentimmo per tutta la notte Melina che cantava di felicità, sentimmo le voci dei figli, specialmente Antonio e Ada, che provavano a calmarla ma non ci riuscivano.
Io invece ero travolta dalla meraviglia. Nella stessa giornata avevo attirato l’attenzione di un giovane tenebroso come Pasquale, mi si era spalancata davanti una nuova scuola e avevo scoperto che una persona fino a qualche tempo prima residente nel rione, proprio nella palazzina di fronte alla nostra, aveva pubblicato un libro. Cosa, quest’ultima, che dimostrava come Lila avesse avuto ragione a pensare che potesse succedere anche a noi. Certo, lei ormai ci aveva rinunciato, ma io forse, a forza di andare in quella scuola difficile che si chiamava ginnasio, corroborata nel caso dall’amore di Pasquale, avrei potuto scriverne uno da sola, come aveva fatto Sarratore.
Chissà, se tutto fosse andato per il meglio sarei diventata ricca prima di Lila coi suoi disegni di scarpe e la sua fabbrica di calzature.
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11.
Il giorno dopo andai segretamente all’appuntamento con Pasquale Peluso.
Lui arrivò trafelato coi panni del lavoro, tutto sudato, chiazze bianche di calce dappertutto. Per strada gli raccontai la storia di Donato e Melina. Gli dissi che in quegli ultimi avvenimenti c’era la prova che Melina non era pazza, che Donato s’era veramente innamorato di lei e l’amava ancora. Ma già mentre parlavo, già mentre Pasquale mi dava ragione manifestando sensibilità per le cose d’amore, mi resi conto che, di quegli ultimi sviluppi, ciò che continuava ad accendermi più di ogni altra cosa era che Donato Sarratore aveva nientemeno pubblicato un libro. Quell’impiegato delle Ferrovie era diventato autore di un volume che il maestro Ferraro avrebbe potuto mettere benissimo nella biblioteca e darlo in prestito. Dunque, dissi a Pasquale, tutti noi avevamo conosciuto non un tipo qualsiasi, fragile per come si faceva mettere i piedi in testa dalla moglie Lidia, ma un poeta. Dunque, sotto i nostri occhi era nato un suo tragico amore, e a ispirarglielo era stata una persona che conoscevamo benissimo, vale a dire Melina. Mi eccitai molto, il cuore mi batteva forte. Ma mi accorsi che su quel tema Pasquale non riusciva a seguirmi, diceva sì solo per non contraddirmi. E infatti dopo un po’ cominciò a svicolare, passò a farmi domande su Lila: com’era stata a scuola, che pensavo di lei, se eravamo molto amiche. Risposi volentieri: era la prima volta che qualcuno m’interrogava sulla mia amicizia con lei e ne parlai per tutto il tragitto con grande entusiasmo. Fu anche la prima volta che sentii come, dovendo cercare le parole per un tema per il quale non avevo parole pronte, tendessi a ridurre il rapporto tra me e Lila ad affermazioni tutte sopratono e di esclamativa positività.
Quando arrivammo al negozio dello scarparo ne stavamo ancora parlando.
Fernando era andato a casa a fare la controra, ma Lila e Rino stavano l’uno accanto all’altro con facce cupe, chini su qualcosa che guardavano con ostilità, e appena ci videro oltre la porta a vetri misero tutto via. Consegnai alla mia amica i regali del maestro Ferraro, mentre Pasquale prendeva in giro l’amico aprendogli sotto il naso il suo premio e dicendogli: «Poi quando ti sei
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letto la storia di questa Bruges la morta mi dici se t’è piaciuto e casomai me lo leggo pure io». Risero molto tra loro e ogni tanto si sussurravano frasi all’orecchio su Bruges, frasi sicuramente oscene. Notai però a un certo punto che, pur scherzando con Rino, Pasquale lanciava sguardi furtivi a Lila. Perché la guardava così, cosa cercava, cosa ci vedeva? Erano sguardi lunghi e intensi di cui lei pareva non accorgersi nemmeno, mentre – mi sembrò – più ancora di me ci stava facendo caso Rino, che presto trascinò fuori in strada Pasquale come per evitare che sentissimo che cosa li divertiva di Bruges, in realtà infastidito da come l’amico gli guardava la sorella.
Io accompagnai Lila nel retrobottega sforzandomi di vederle addosso ciò che aveva attratto l’attenzione di Pasquale. Mi sembrò sempre la stessa ragazzina esile, pelle e ossa, esangue, a parte forse il taglio più grande degli occhi e una piccola ondulazione del petto. Lei sistemò i libri tra altri libri che aveva, in mezzo alle scarpe vecchie e a certi quaderni con le copertine molto malconce. Accennai alle pazzie di Melina, ma soprattutto cercai di trasmetterle tutto il mio entusiasmo perché finalmente potevamo dire che conoscevamo uno che aveva appena pubblicato un libro, Donato Sarratore.
Le mormorai in italiano: «Pensa, suo figlio Nino era a scuola con noi; pensa, tutta la famiglia Sarratore forse diventerà ricca». Lei fece un mezzo sorriso scettico.
«Con questo?» disse. Allungò una mano e mi mostrò il libro di Sarratore.
Glielo aveva dato Antonio, il figlio grande di Melina, per levarlo per sempre dalla vista e dalle mani della madre. Lo presi, esaminai il volumetto.
S’intitolava Prove di sereno. Aveva una copertina rossastra con un disegno di sole splendente in cima a una montagna. Fu emozionante leggere proprio sopra il titolo: Donato Sarratore. Lo aprii, recitai ad alta voce la dedica a penna: A Melina che ha nutrito il mio canto. Donato. Napoli, 12 giugno 1958. Mi emozionai, sentii un brivido dietro la nuca, alla radice dei capelli.
Dissi:
«Nino avrà una macchina più bella di quella dei Solara».