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Ma Peluso si alzò, andò al banco del forno, ci girò intorno e, con il suo sorriso candido sulle labbra, tirò uno schiaffo in faccia al pizzaiolo mandandolo contro la bocca del forno.

Accorse subito il padrone del locale, un uomo sui sessanta, piccolo e pallido, e Pasquale gli spiegò con calma che non si doveva preoccupare, aveva solo fatto capire al suo dipendente una cosa che gli era poco chiara, adesso non ci sarebbero stati più problemi. Finimmo di mangiare la pizza in silenzio, a occhi bassi, a bocconi lenti, come se fosse avvelenata. E quando

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uscimmo Rino fece a Lila una gran lavata di testa che si concluse con la minaccia: continua così e non ti porto più.

Cos’era successo? Per strada i maschi che incrociavamo ci guardavano tutte, belle, belline, brutte, e non tanto i giovani, quanto gli uomini fatti.

Andava così sia nel rione che fuori del rione, e Ada, Carmela, io stessa –

specialmente dopo l’incidente coi Solara – avevamo imparato d’istinto a tenere gli occhi bassi, a far finta di non sentire le porcherie che ci dicevano e tirare avanti. Lila no. Andare a spasso con lei la domenica diventò un elemento permanente di tensione. Se qualcuno la guardava lei ricambiava lo sguardo. Se qualcuno le diceva qualcosa lei si fermava perplessa come se non credesse che parlavano a lei, e a volte rispondeva incuriosita. Tanto più che, cosa fuori del comune, quasi mai le rivolgevano quelle oscenità che quasi sempre riservavano a noi.

Un pomeriggio di fine agosto ci spingemmo fino alla Villa comunale e lì ci sedemmo a un bar perché Pasquale, che in quel periodo si comportava da grande di Spagna, volle offrire a tutti lo spumone. Avevamo di fronte una famigliola che mangiava il gelato al tavolo, come noi: padre, madre e tre figli maschi con un’età tra i dodici e i sette anni. Pareva gente perbene: il padre, un uomo grosso, sui cinquanta, aveva l’aria del professore. E posso giurare che Lila non sfoggiava niente di vistoso: non portava rossetto, aveva addosso le solite pezze che le cuciva la madre, eravamo più appariscenti noi, Carmela soprattutto. Ma quel signore – questa volta ce ne accorgemmo tutti – non riusciva a toglierle gli occhi di dosso, e Lila, per quanto cercasse di controllarsi, rispondeva allo sguardo come se non si capacitasse di essere tanto ammirata. Alla fine, mentre al nostro tavolo cresceva il nervosismo di Rino, di Pasquale, di Antonio, l’uomo, evidentemente senza rendersi conto del rischio che correva, si alzò, si piantò davanti a Lila e, rivolgendosi ai maschi compitamente, disse:

«Voi siete fortunati: avete qui una ragazza che diventerà più bella di una Venere del Botticelli. Chiedo scusa, ma l’ho detto a mia moglie, ai miei figli e ho sentito la necessità di dirlo anche a voi».

Lila scoppiò a ridere per la tensione. L’uomo sorrise a sua volta e, fattole un inchino contenuto, stava per tornare al suo tavolo quando Rino lo agguantò per la collottola, gli fece fare il percorso a ritroso di corsa, lo mise seduto a forza e, davanti alla moglie e ai figli, gli scaricò addosso una serie di insulti come li dicevamo al rione. L’uomo allora si arrabbiò, la moglie strillò mettendosi in mezzo, Antonio tirò via Rino. Altra domenica rovinata.

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Ma il peggio capitò una volta che Rino non c’era. A colpirmi non fu il fatto in sé ma la saldatura, intorno a Lila, di tensioni di provenienza diversa. La madre di Gigliola, in occasione dell’onomastico (si chiamava Rosa, se mi ricordo bene), diede una festa con persone di ogni età. Poiché il marito era il pasticciere della pasticceria Solara, furono fatte le cose molto in grande: abbondavano le sciu, i raffiuoli a cassata, le sfogliatelle, le paste di mandorla, i liquori, le bibite per i bambini e i dischi con i balli, dai più consueti a quelli all’ultima moda. Venne gente che alle nostre festicciole di ragazzi non sarebbe mai venuta. Per esempio il farmacista con la moglie e il loro figlio maggiore Gino, prossimo ad andare al ginnasio come me. Per esempio il maestro Ferraro e tutta la sua famiglia numerosa. Per esempio Maria, la vedova di don Achille, e il figlio Alfonso e la figlia Pinuccia, coloratissima, e persino Stefano.

Queste ultime presenze all’inizio causarono qualche tensione: c’erano anche Pasquale e Carmela Peluso, alla festa, i figli dell’assassino di don Achille. Ma poi tutto si mise per il meglio. Alfonso era un ragazzo gentile (sarebbe andato anche lui al ginnasio, nella mia stessa scuola) e scambiò persino qualche parola con Carmela; Pinuccia era soprattutto contenta di essere andata a una festa, sacrificata com’era ogni giorno in salumeria; Stefano aveva precocemente capito che il commercio è fondato sull’assenza di preclusioni, considerava tutti gli abitanti del rione potenziali clienti che avrebbero speso da lui i loro soldi, sfoderava in genere con chiunque il suo bel sorriso mite, e perciò si limitò a evitare d’incrociare anche solo per un attimo lo sguardo con Pasquale; Maria infine, che di norma se vedeva la signora Peluso girava la faccia dall’altra parte, ignorò del tutto i due ragazzi e parlicchiò a lungo con la madre di Gigliola. Soprattutto, a sciogliere ogni tensione, ci fu che presto si cominciò a ballare, crebbe la baraonda, nessuno fece più caso a niente.

Prima ci furono i balli tradizionali e poi si passò a un ballo nuovo, il rock’n’roll, per il quale tutti, dai vecchi ai bambini, avevano una grandissima curiosità. Io, accaldata, mi ritirai in un angolo. Lo sapevo ballare, certo, il rock’n’roll, l’avevo ballato spesso a casa mia con Peppe, mio fratello, e a casa di Lila, la domenica, con lei, ma mi sentivo troppo goffa per quei movimenti scattanti e agili e, sebbene a malincuore, decisi di stare a guardare.

Anche Lila del resto non mi era sembrata particolarmente brava: si muoveva in modo un po’ ridicolo, glielo avevo perfino detto, e lei aveva preso la critica come una sfida e si era accanita ad allenarsi da sola, visto che anche

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Rino si rifiutava di ballarlo. Ma, perfezionista com’era in tutte le cose, quella sera decise anche lei con mia soddisfazione di starsene da parte accanto a me a guardare come ballavano bene Pasquale e Carmela Peluso.

A un certo momento, però, le si avvicinò Enzo. Il bambino che ci aveva lanciato le pietre, che a sorpresa aveva gareggiato con Lila in aritmetica, che le aveva regalato una volta un serto di sorbe, negli anni era stato come risucchiato in un organismo di bassa statura ma potente, abituato alla fatica dura. Sembrava, a vederlo, più vecchio anche di Rino che tra noi era il più grande. Si vedeva bene in ogni suo tratto che si alzava prima dell’alba, che aveva a che fare con la camorra del mercato ortofrutticolo, che andava in tutte le stagioni, col freddo, con la pioggia, a vendere frutta e ortaggi con la carretta, girando per le strade del rione. Nel viso di biondo, però, tutto chiaro, sopracciglia e ciglia bionde, occhi blu, c’era ancora un residuo del bambino ribelle con cui avevamo avuto a che fare. Per il resto, Enzo era di pochissime parole tranquille, tutte in dialetto, a nessuna di noi sarebbe venuto in mente di scherzarci, farci conversazione. Fu lui a prendere l’iniziativa. Chiese a Lila perché non ballava. Lei rispose: perché questo ballo non lo so fare ancora bene. Lui stette zitto per un po’, poi disse: nemmeno io. Ma quando fu messo un altro rock’n’roll la prese per un braccio con naturalezza e la sospinse in mezzo alla sala. Lila, che se solo uno la sfiorava senza il suo permesso schizzava di lato come se fosse stata punta da una vespa, non reagì, tanta evidentemente era la voglia di ballare. Lo guardò anzi con gratitudine e si abbandonò alla musica.

Si vide subito che Enzo non ci sapeva fare granché. Si muoveva poco, in modo serio e compassato, ma era molto attento a Lila, desiderava palesemente farle piacere, permetterle di esibirsi. E lei, pur non essendo brava come Carmen, riuscì al solito a guadagnarsi l’attenzione di tutti. Anche a Enzo piace, mi dissi desolata. E – me ne accorsi subito – persino a Stefano, il salumiere: la guardò tutto il tempo come si guarda una diva al cinema.

Ma proprio mentre Lila ballava arrivarono i fratelli Solara.

Mi bastò vederli per agitarmi. Andarono a salutare il pasticciere e la moglie, diedero una pacca di simpatia a Stefano e poi si misero a guardare i ballerini anche loro. Prima, al modo dei padroni del rione quali si sentivano, guardarono pesantemente Ada, che girò lo sguardo; poi parlottarono tra loro e si indicarono Antonio, gli fecero un esagerato cenno di saluto che lui fece finta di non vedere; infine notarono Lila, la fissarono a lungo, si dissero qualcosa all’orecchio, Michele fece un vistoso segno di assenso.

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Non li persi di vista e mi ci volle poco a capire che soprattutto Marcello –

Marcello che piaceva a tutte – pareva non essere affatto arrabbiato per la storia del trincetto. Anzi. In pochi secondi fu del tutto catturato dal corpo flessuoso ed elegante di Lila, dal suo viso anomalo per il rione e forse per tutta la città di Napoli. La guardò senza mai distogliere lo sguardo, come se avesse perso quel poco di cervello che aveva. Le tenne gli occhi addosso anche quando la musica finì.

Fu un attimo. Enzo fece per sospingere Lila nell’angolo dove stavo io, Stefano e Marcello si mossero insieme per invitarla a ballare; ma li precedette Pasquale. Lila gli fece un saltello grazioso di consenso, batté le mani felice.

Su una figurina di quattordicenne si protesero quattro maschi contemporaneamente, di età varie, ciascuno in modo diverso convinto della propria assoluta potenza. La puntina raschiò il disco, attaccò la musica.

Stefano, Marcello, Enzo arretrarono incerti. Pasquale cominciò a ballare con Lila e, data la bravura del ballerino, lei subito si sfrenò.

A quel punto Michele Solara, forse per amore del fratello, forse per il puro gusto di mettere disordine, decise di complicare a modo suo la situazione.

Diede di gomito a Stefano e gli disse ad alta voce:

«Ma ce l’hai il sangue nelle vene o no? Quello è il figlio di chi ha ammazzato tuo padre, quello è un comunista di merda, e tu stai qua a guardare come balla con la guagliona con cui volevi ballare tu?».

Pasquale sicuramente non sentì, perché la musica era alta ed era impegnato a fare acrobazie con Lila. Ma io sentii, e sentì Enzo che stava accanto a me, e naturalmente sentì Stefano. Aspettammo che accadesse qualcosa ma non accadde nulla. Stefano era un ragazzo che sapeva il fatto suo. La salumeria andava più che bene, stava progettando di comprare un locale confinante per ampliarla, si sentiva insomma fortunato, anzi era sicurissimo che la vita gli avrebbe dato tutto quello che desiderava. Disse a Michele col suo sorriso accattivante:

«Lasciamolo ballare, balla bene» e continuò a guardare Lila come se l’unica cosa che gli importasse in quel momento fosse lei. Michele fece una smorfia disgustata e andò a cercare il pasticciere e la moglie.

Cosa voleva fare, adesso? Vidi che parlava coi padroni di casa in maniera agitata, indicava Maria in un angolo, indicava Stefano e Alfonso e Pinuccia, indicava Pasquale che ballava, indicava Carmela che si esibiva con Antonio.

Appena la musica cessò la madre di Gigliola prese cordialmente Pasquale sottobraccio, lo portò in un angolo, gli disse qualcosa all’orecchio.

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«Vai» disse Michele al fratello ridendo, «via libera». E Marcello Solara tornò alla carica con Lila.

Ero sicura che gli avrebbe detto di no, sapevo quanto lo detestasse. Ma non andò così. La musica riattaccò e lei, con la voglia di danza in ogni muscolo, prima cercò con lo sguardo Pasquale, poi, non vedendolo, afferrò la mano di Marcello come se fosse solo una mano, come se oltre non ci fosse un braccio, tutto il corpo di lui, e sudata ricominciò a fare ciò che in quel momento per lei contava di più: ballare.

Guardai Stefano, guardai Enzo. Tutto era carico di tensione. Mentre il cuore mi batteva forte per l’ansia, Pasquale, torvo, andò da Carmela e le disse qualcosa con modi bruschi. Carmela protestò a bassa voce, lui a bassa voce la zittì. Si avvicinò a loro Antonio, confabulò con Pasquale. Insieme guardarono in cagnesco Michele Solara che stava di nuovo parlottando con Stefano, Marcello che ballava con Lila tirandola, sollevandola, sbattendola. Poi Antonio andò a tirar via dalle danze Ada. La musica finì, Lila tornò accanto a me. Le dissi:

«Sta succedendo qualcosa, ce ne dobbiamo andare».

Lei rise, esclamò:

«Pure se viene un terremoto mi faccio un altro ballo» e guardò Enzo che se ne stava appoggiato a una parete. Ma intanto tornò a invitarla Marcello e lei si lasciò trascinare di nuovo nella danza.

Pasquale venne da me, mi disse cupo che ce ne dovevamo andare.

«Aspettiamo che Lila finisca il ballo».

«No, subito» disse lui con un tono che non ammetteva repliche, duro, sgarbato. Quindi andò diritto verso Michele Solara, lo urtò forte con una spalla. Quello rise, gli disse qualcosa di osceno a mezza bocca. Pasquale proseguì verso la porta di casa, seguito da Carmela, riluttante, e da Antonio che si tirava dietro Ada.

Io mi girai per vedere cosa faceva Enzo, ma lui rimase appoggiato al muro a guardare Lila che ballava. La musica finì. Lila si mosse verso di me, braccata da Marcello che aveva occhi lucidi di benessere.

«Ce ne dobbiamo andare» quasi strillai, nervosissima.

Dovetti mettere una tale angoscia nella voce che lei finalmente si guardò intorno come se si svegliasse.

«Va bene, andiamocene» disse perplessa.

Mi avviai verso la porta senza aspettare oltre, la musica riattaccò. Marcello Solara afferrò Lila per un braccio, le disse tra la risatella e la supplica:

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