"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » Italian Books » 🤍🤍🤍✨,,L'amica geniale'' di Elena Ferrante🤍🤍🤍✨

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A me venne da ridere e anche a Pasquale. Ci guardammo, soffocammo le risate, mentre Carmela sussurrava insistente: «Perché ridete?». Non le rispondemmo: ci guardammo di nuovo e ridemmo con la mano contro la bocca. Così, con la risata che mi sentivo ancora negli occhi, con un inatteso senso di benessere, dopo che il maestro ebbe chiesto a più riprese e inutilmente se qualcuno della famiglia Cerullo era in sala, fui chiamata io, quinta in classifica, a ritirare il mio premio. Ferraro mi consegnò con molte lodi Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome. Ringraziai e chiesi in un soffio:

«Posso ritirare anche i premi della famiglia Cerullo, così glieli porto?».

Il maestro mi diede i libri-premio di tutti i Cerullo. Mentre uscivamo, mentre Carmela raggiungeva astiosa Gigliola che chiacchierava tutta felice con Alfonso e Gino, Pasquale mi disse in dialetto cose che mi fecero sempre più ridere su Rino che si consumava la vista sui libri, su Fernando lo scarparo che non dormiva la notte per leggere, sulla signora Nunzia che leggeva in piedi, accanto ai fornelli, mentre cucinava la pasta con le patate, in una mano un romanzo e in un’altra il mestolo. Era stato alle elementari nella stessa classe di Rino, nello stesso banco – mi disse, lacrime agli occhi per il divertimento – e tutt’e due insieme, lui e il suo amico, anche aiutandosi a vicenda, dopo sei o sette anni di scuola comprese le ripetenze, riuscivano a leggere al massimo: Sali e Tabacchi, Salumeria, Poste e Telegrafi. Quindi mi chiese qual era il premio del suo ex compagno di scuola.

« Bruges la morta».

«Ci stanno i fantasmi?».

«Non lo so».

«Posso venire con te quando glielo consegni? Anzi, glielo posso dare io, con le mie mani?».

Scoppiammo a ridere di nuovo.

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«Sì».

«Gli hanno dato il premio, a Rinuccio. Cose da pazzi. È Lina che si legge tutto, madonna mia com’è brava quella ragazza».

Mi consolarono molto le attenzioni di Pasquale Peluso, mi piacque che mi facesse ridere. Forse non sono così brutta, pensai, forse sono io che non so vedermi.

In quel momento mi sentii chiamare, era la maestra Oliviero.

La raggiunsi, mi guardò col suo sguardo sempre valutativo e mi disse, quasi a confermarmi la legittimità di un giudizio più generoso sul mio aspetto: «Come sei bella, come ti sei fatta grande».

«Non è vero, maestra».

«È vero, sei una stella, in salute, bella grassa. E anche brava. Ho saputo che sei stata la migliore della scuola».

«Sì».

«Adesso che farai?».

«Andrò a lavorare».

Si adombrò.

«Non se ne parla nemmeno, tu devi continuare a studiare».

La guardai sorpresa. Cosa c’era ancora da studiare? Non sapevo niente degli ordinamenti scolastici, non sapevo di preciso cosa c’era dopo la licenza media. Parole tipo liceo, università per me erano prive di sostanza, come tantissime parole che incontravo nei romanzi.

«Non posso, i miei genitori non mi mandano».

«Quanto ti ha dato in latino il professore di lettere?».

«Nove».

«Sicuro?».

«Sì».

«Allora ci parlo io coi tuoi genitori».

Feci per allontanarmi, devo dire un po’ spaventata. Se la Oliviero fosse davvero andata da mio padre e mia madre a dir loro di farmi studiare ancora, avrebbe scatenato di nuovo litigi che non avevo voglia di affrontare.

Preferivo le cose come stavano: aiutare mia madre, lavorare nella cartoleria, accettare la bruttezza e i brufoli, essere in salute, bella grassa, come diceva la Oliviero, e faticare nella miseria. Non lo faceva già Lila da almeno tre anni, a parte i suoi sogni pazzi di figlia e sorella di scarpari?

«Grazie, maestra» dissi, «arrivederci».

Ma la Oliviero mi trattenne per un braccio.

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«Non perdere tempo con quello» disse accennando a Pasquale che mi stava aspettando. «Fa il muratore, non andrà mai oltre. E poi viene da una brutta famiglia, suo padre è comunista e ha ammazzato don Achille. Non ti voglio assolutamente vedere con lui, che sicuramente è comunista come il padre».

Feci un cenno di assenso e mi allontanai senza salutare Pasquale, che prima restò interdetto, poi sentii con piacere che mi veniva dietro a dieci passi di distanza. Non era un ragazzo bello, ma nemmeno io lo ero più. Aveva i capelli molto ricci e neri, era scuro di pelle e di sole, aveva la bocca larga ed era figlio di assassino, forse anche comunista.

Mi rigirai nella testa comunista, parola per me priva di senso, ma a cui la maestra aveva subito impresso un marchio di negatività. Comunista, comunista, comunista. Mi sembrò ammaliante. Comunista e figlio di assassino.

Intanto, voltato l’angolo, Pasquale mi raggiunse. Facemmo la strada insieme fino a pochi metri da casa e, riprendendo a ridere, ci demmo un appuntamento per il giorno dopo, quando saremmo andati alla bottega dello scarparo per consegnare i libri a Lila e a Rino. Prima di separarci Pasquale mi disse anche che la domenica seguente lui, sua sorella e chiunque volesse andavano a casa di Gigliola a imparare a ballare. Mi chiese se volevo andare anch’io, casomai insieme a Lila. Restai a bocca aperta, sapevo già che mia madre non mi ci avrebbe mai mandata. Ma dissi ugualmente: va bene, ci penso. Lui allora mi tese la mano e io, che non ero abituata a un gesto di quel tipo, esitai, gli sfiorai appena la sua, dura, rasposa, e mi ritrassi.

«Fai sempre il muratore?» gli chiesi, anche se sapevo già che lo faceva.

«Sì».

«E sei comunista?».

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