Segno che una di quelle case sbarrate racchiudeva un’agonia; era il Santo Viatico.
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Don Fabrizio scese, s’inginocchiò sul marciapiede, le signore fecero il segno della croce, lo scampanellare dileguò nei vicoli che precipitavano verso S. Giacomo, la calèche con i suoi occupanti gravati di un ammonimento salutare s’incamminò di nuovo verso la meta ormai vicina. Si giunse, si discese nell’androne; la vettura andò a scomparire nell’immensità del cortile dal quale giungevano scalpiceli e balugini degli equipaggi venuti prima. Lo scalone era di materiale modesto ma di proporzioni nobilissime; sui lati d’ogni scalino primitivi fiori spandevano u loro rozzo profumo; nel pianerottolo che divideva le due fughe, le livree amaranto di due servi immobili sotto la cipria, Ponevano una nota di colore vivace nel grigio perlaceo dell’ambiente. Da due finestrotti alti e con grate dorate giungevano risa e mormori! infantili: i nipotini dei Ponteleone, esclusi dalla festa, si rifacevano beffeggiando gli ospiti. Le signore Spianavano le pieghe delle sete, Don Fabrizio col gibus sottobraccio le sorpassava di tutta la testa benché fosse uno scalino indietro. Alla porta del primo salone s’incontrarono i padroni di casa: lui, Don Diego, canuto e panciuto che gli occhi arcigni soltanto salvavano dall’apparenza plebea; lei, donna Margherita, che di fra il corruscare del diadema e della triplice collana di smeraldi mostrava il volto suo adunco di vecchio canonico.
“Siete venuti presto! tanto meglio! ma state tranquilli, i vostri invitati non sono ancora comparsi.” Una nuova pagliuzza infastidì le unghiette sensibili del Gattopardo. “Anche Tancredi è già qui.”
Infatti nell’angolo opposto del salone il nipote, nero e sottile come una biscia, teneva circolo a tre o quattro giovanotti e li faceva sbellicare dalle risa per certe sue storielle certamente arrischiate, ma teneva gli occhi, inquieti come sempre, fissi alla porta d’ingresso. Le danze erano di già cominciate e attraverso tre, quattro, cinque, sei saloni giungevano dalla sala da ballo le note dell’orchestrina.
“Ed aspettiamo anche il colonnello Pallavicino, quello che si è condotto tanto bene ad Aspromonte.”
Questa frase del principe di Ponteleone sembrava semplice ma non lo era. In superficie era una costatazione priva di senso politico tendente solo ad elogiare il tatto, la delicatezza, la commozione, la tenerezza quasi, con la quale una pallottola era stata cacciata nel piede del Generale; ed anche le scappellate, inginocchiamenti e baciamani che la avevano accompagnata, rivolti al ferito Eroe giacente sotto un castagno del monte calabrese e che sorrideva anche lui, di commozione e non già per ironia come gli sarebbe stato lecito (perché Garibaldi ahimè! era sprovvisto di umorismo). In uno strato intermedio della psiche 145
principesca la frase aveva un significato tecnico e intendeva elogiare il Colonnello per aver ben preso le proprie disposizioni, schierato opportunamente i suoi battaglioni ed aver potuto compiere, contro lo stesso avversario ciò che a Calatafimi era tanto incomprensibilmente fallito a Landi. In fondo al cuore del Principe, poi, il Colonnello si era “condotto bene” perché era riuscito a fermare, sconfiggere, ferire e catturare Garibaldi e ciò facendo aveva salvato il compromesso faticosamente raggiunto fra vecchio e nuovo stato di cose.
Evocato, creato quasi dalle parole lusinghiere e dalle ancor più lusinghiere cogitazioni, il Colonnello comparve alla scala. Procedeva fra un tintinnio di pendagli, catenelle, speroni e decorazioni, nella ben imbottita divisa a doppiopetto, cappello piumato sotto il braccio, sciabola ricurva poggiata sul polso sinistro; era uomo di mondo e di maniere rotondissime, specializzato, come tutta l’Europa ormai sapeva, in baciamani densi di significato; ogni signora sulle cui dita si posarono quella sera i mustacchi suoi odorosi fu posta in grado di rievocare con conoscenza di causa, l’attimo storico che le stampe popolari avevano di già esaltato.
Dopo aver sostenuto la doccia di lodi riversata su di lui dai Ponteleone, dopo aver stretto le due dita tesegli da Don Fabrizio, Pallavicino fu sommerso nello spumeggiare profumato di un gruppo di signore; i suoi tratti coscientemente virili emergevano al disopra delle spalle candide e giungevano sue frasi staccate:
“Piangevo, contessa, piangevo come un bimbo” oppure “Lui era bello e sereno come un Arcangelo.” La sua sentimentalità maschia rapiva quelle dame che le schioppettate dei suoi bersaglieri avevano di già rassicurato.
Angelica e don Calogero tardavano e di già i Salina pensavano a inoltrarsi negli altri saloni, quando Tancredi piantò in asso il proprio gruppo e si diresse come un razzo verso l’ingresso: gli attesi erano giunti. Al disopra dell’ordinato turbinìo della crinolina rosea le bianche spalle di Angelica ricadevano verso le braccia forti e dolci; la testa si ergeva piccola e sdegnosa sul collo liscio di gioventù e adorno di perle volutamente modeste. Quando dall’apertura del lungo guanto glacé essa fece uscìre la mano non piccola ma di taglio perfetto, si vide brillare lo zaffiro napoletano. Don Calogero era nella di lei scia, sorcetto custode di una fiammeggiante rosa; negli abiti di lui non vi era eleganza ma decenza si, questa volta; solo suo errore fu quello di portare all’occhiello la croce della Corona d’Italia conferitagli di recente; essa, per altro, comparve presto in una delle tasche clandestine del “frack” di Tancredi.
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Il fidanzato aveva di già insegnato ad Angelica l’impassibilità, questo fondamento della distinzione (“Tu puoi esser espansiva e chiassosa soltanto con me, cara; per tutti gli altri devi essere la futura principessa di Falconeri, superiore a molti, pari a chiunque”), e quindi il saluto di lei alla padrona di casa fu una non spontanea ma riuscitissima mescolanza di modestia verginale, alterigia neo-aristocratica e grazia giovanile.
I palermitani sono dopo tutto degli italiani, sensibili quindi quanti altri mai al fascino della bellezza ed al prestigio del denaro; inoltre Tancredi essendo notoriamente squattrinato era giudicato, per quanto attraente, un partito non desiderabile (a torto, del resto, come si vide poi quando fu troppo tardi); egli era quindi più apprezzato dalle signore sposate che dalle ragazze da marito. Questi meriti e demeriti congiunti fecero si che l’accoglienza ricevuta da Angelica fosse di un calore imprevisto; a qualche giovanotto, a dir vero, avrebbe potuto rincrescere di non aver dissepolto per sé una così bella anfora colma di monete; ma Donnafugata era feudo di Don Fabrizio egli aveva rinvenuto lì quel tesoro e lo aveva passato all’amato Tancredi non si poteva rammaricarsene più di quanto ci si sarebbe amareggiati se avesse scoperto una miniera di zolfo in una sua terra: era roba sua, non c’era da dire. Anche queste labili opposizioni, d’altronde, dileguavano dinanzi al raggiare di quegli occhi; a un ceno momento vi fa una vera calca di giovanotti che volevano farsi presentare e richiedere un ballo: a ciascuno Angelica dispensava un sorriso della sua bocca di fragola, a ciascuno mostrava il proprio carnet nel quale a ogni polka, mazurka e valzer seguiva la firma possessiva: Falconeri. Da parte delle signorine le proposte di “darsi del tu”
fioccavano e dopo un’ora Angelica si trovava a suo agio fra persone che del selvaggiume della madre e della taccagneria del padre non avevano la minima idea. Il contegno di lei non si smentì neppure un minuto: mai la si vide errare sola con la testa fra le nuvole, mai le braccia le si scostarono dal busto; mai la sua voce si alzò al disopra del “diapason” (del resto abbastanza alto) delle altre signore. Poiché Tancredi le aveva detto il giorno prima “Vedi, cara, noi (e quindi anche tu, adesso) teniamo alle nostre case ed al nostro mobilio più che a qualsiasi altra cosa; nulla ci offende più della noncuranza rispetto a questo; quindi guarda tutto e loda tutto; del resto palazzo Ponteleone lo merita; ma poiché non sei più una provincialotta che si sorprende di ogni cosa, mescolerai sempre una qualche riserva alla lode; ammira si ma paragona sempre con qualche archetipo visto prima, e che sia illustre.” Le lunghe visite al palazzo di 147
Donnafugata avevano insegnato molto ad Angelica, e così quella sera ammirò ogni arazzo ma disse che quelli di palazzo Pitti avevano le bordure più belle; lodò una Madonna del Dolci ma fece ricordare che quella del Granduca aveva una malinconia meglio espressa; e financo della fetta di torta che un premuroso giovin signore le portò disse che era eccellente e buona quasi come quella di “monsù Gaston,” il cuoco dei Salina. E poiché “monsù Gaston” era il Raffaello fra i cuochi e gli arazzi di Pitti i “monsù Gaston” fra le tappezzerie, nessuno poté trovarvi da ridire, anzi tutti furono lusingati dal paragone ed essa cominciò già da quella sera ad acquistare la fama di cortese ma inflessibile intenditrice di arte che doveva, abusivamente, accompagnarla in tutta la sua lunga vita. Mentre Angelica mieteva allori, Maria-Stella spettegolava su di un divano con due vecchie amiche e Concetta e Carolina raggelavano con la loro timidità i giovanotti più cortesi, Don Fabrizio lui, errava per i saloni: baciava la mano delle signore che incontrava, indolenziva le spalle degli uomini che voleva festeggiare, ma sentiva che il cattivo umore lo invadeva lentamente. Anzitutto, la casa non gli piaceva: i Ponteleone da settanta anni non avevano rinnovato l’arredamento ed esso era ancora quello del tempo della regina Maria-Carolina, e lui che credeva di avere dei gusti moderni s’indignava. “Ma, Santo Dio, con i redditi di Diego ci vorrebbe poco a metter fuori tutti questi ‘tremò’, questi specchi appannati! Si faccia fare un bel mobilio di palissandro e peluche, stia a vivere comodamente lui e non costringa i suoi invitati ad aggirarsi per queste catacombe. Finirò col dirglielo!” Ma non lo disse mai a Diego perché queste sue opinioni nascevano solo dal malumore e dalla sua tendenza alla contradizione, erano presto dimenticate e lui stesso non mutava nulla ne a S. Lorenzo ne a Donnafugata. Intanto però bastarono ad aumentargli il disagio. Le donne che erano al ballo non gli piacevano neppure: due o tre fra quelle anziane erano state sue amanti e vedendole adesso appesantite dagli anni e dalle nuore, faticava a ricreare per sé l’immagine di loro quali erano venti anni fa e s’irritava ( pensando che aveva sciupato i propri anni migliori a inseguire (ed a raggiungere) simili sciattone. Anche le giovani però non gli dicevano gran che, meno un paio: la giovanissima duchessa di Palma della quale ammirava gli occhi grigi e la severa soavità del portamento, Tutù Làscari anche dalla quale se fosse stato più giovane avrebbe saputo trarre accordi singolarissimi. Ma le altre... era bene che dalle tenebre di Donnafugata fosse emersa Angelica per mostrare alle palermitane cosa fosse una bella donna.
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Non gli si poteva dar torto; in quegli anni la frequenza dei matrimoni fra cugini, dettati da pigrizia sessuale e da calcoli terrieri, la scarsezza di proteine nell’alimentazione aggravata dall’abbondanza di amidacei, la mancanza totale di aria fresca e di movimento, avevano riempito i salotti di una turba di ragazzine incredibilmente
basse,
inverosimilmente
olivastre,
insopportabilmente
ciangottanti; esse passavano il tempo raggrumate tra loro, lanciando solo corali richiami ai giovanotti impauriti, destinate, sembrava, soltanto a far da sfondo alle tre o quattro belle creature che come la bionda Maria-Palma, la bellissima Eleonora Giardinelli passavano scivolando come cigni su uno stagno fitto di ranocchie. Più le vedeva e più s’irritava; la sua mente condizionata dalle lunghe solitudini e dai pensieri astratti, finì a un dato momento, mentre passava per una lunga galleria sul pouf centrale della quale si era riunita una numerosa colonia di quelle creature, col procurargli una specie di allucinazione: gli sembrava di essere il guardiano di un giardino zoologico posto a sorvegliare un centinaio di scimmiette: si aspettava di vederle a un tratto arrampicarsi sui lampadari e da li, sospese per le code, dondolarsi esibendo i deretani e lanciando gusci di nocciola, stridori e digrignamenti sui pacifici visitatori.
Strano a dirsi fu una sensazione religiosa ad estraniarlo da quella visione zoologica: infatti dal gruppo di bertucce crinolinate si alzava una monotona continua invocazione sacra: “Maria! Maria!” esclamavano perpetuamente quelle povere figliole. “Maria! che bella casa!” “Maria! che bell’uomo e il colonnello Pallavicino!” “Maria! mi fanno male i piedi! “Maria! che fame che ho! quando si apre il ‘bouffet’?” Il nome della Vergine, invocato da quel coro virgineo riempiva la galleria e di nuovo cambiava le scimmiette in donne, poiché non risultava ancora che i ouistiti delle foreste brasiliane si fossero convertiti al Cattolicesimo.
Leggermente nauseato, il Principe passò nel salotto accanto: li invece stava accampata la tribù diversa e ostile degli uomini: i giovani ballavano ed i presenti erano soltanto degli anziani, tutti suoi amici. Sedette un poco fra loro: li la Regina dei Cieli non era più nominata invano; ma, in compenso, i luoghi comuni, i discorsi piatti intorbidivano l’aria. Fra questi signori Don Fabrizio passava per essere uno “stravagante”; il suo interessamento alla matematica era considerato quasi come una peccaminosa perversione, e se lui non fosse stato proprio il principe di Salina e se non lo si fosse saputo ottimo cavallerizzo, infaticabile cacciatore e medianamente donnaiolo, le sue parallassi e i suoi telescopi avrebbero rischiato di farlo mettere al bando; però già gli si parlava poco perché 149
l’azzurro freddo dei suoi occhi, intravisto fra le palpebre pesanti, faceva perdere le staffe agli interlocutori ed egli si trovava spesso isolato non già per rispetto, come credeva, ma per timore. Si alzò; la malinconia si era mutata in umor nero autentico. Aveva fatto male a venire al ballo: Stella, Angelica, le figliuole se la sarebbero cavata benissimo da sole, e lui in questo momento sarebbe beato nello studiolo attiguo alla terrazza in via Salina, ad ascoltare il chioccolio della fontana ed a cercar di acchiappare le comete per la coda. “Tant’è, adesso ci sono; andarsene sarebbe scortese. Andiamo a guardare i ballerini.” La sala da ballo era tutta oro: liscio sui cornicioni cincischiato nelle inquadrature delle porte, damaschinato chiaro quasi argenteo su meno chiaro nelle porte stesse e nelle imposte che chiudevano le finestre e le annullavano conferendo così all’ambiente un significato orgoglioso di scrigno escludente qualsiasi riferimento all’esterno non degno. Non era la doratura Cacciata che adesso i decoratori sfoggiano, ma un oro consunta pallido come i capelli di certe bambine del Nord, impegnato a nascondere il proprio valore sotto una pudicizia ormai perduta di materia preziosa che voleva mostrare la propria bellezza e far dimenticare il proprio costo; qua e là sui pannelli nodi di fiori rococò di un colore tanto svanito da non sembrare altro che un effimero rossore dovuto al riflesso dei lampadari.
Quella tonalità solare, quel variegare di brillii e di ombre fecero tuttavia dolere il cuore di Don Fabrizio che se ne stava nero e rigido nel vano di una porta: in quella sala eminentemente patrizia gli venivano in mente immagini campagnole: il timbro cromatico era quello degli sterminati semineri attorno a Donnafugata, estatici, imploranti clemenza sotto la tirannia del sole: anche in questa sala come nei feudi a metà agosto, il raccolto era stato compiuto da tempo, immagazzinato altrove e, come là, ne rimaneva soltanto il ricordo nel colore delle stoppie; arse d’altronde e inutili. Il valzer le cui note traversavano l’aria calda gli sembrava solo una stilizzazione di quell’incessante passaggio dei venti che arpeggiano il proprio lutto sulle superfici assetate, ieri, oggi, domani, sempre, sempre, sempre. La folla dei danzatori fra i quali pur contava tante persone vicine alla sua carne se non al suo cuore, fini col sembrargli irreale, composta di quella materia della quale son tessuti i ricordi perenni che è più labile ancora di quella che ci turba nei sogni.
Nel soffitto gli Dei, reclini su scanni dorati, guardavano in giù sorridenti e inesorabili come il ciclo d’estate. Si credevano eterni: una bomba fabbricata a Pittsburgh, Penn. doveva nel 1943 provar loro il contrario.
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“Bello, principe, bello! Cose così non se ne fanno più adesso, al prezzo attuale dell’oro zecchino!” Sedàra si era posto vicino a lui, i suoi occhietti svegli percorrevano l’ambiente, insensibili alla grazia, attenti al valore monetario.
Don Fabrizio, ad un tratto, senti che lo odiava; era all’affermarsi di lui, di cento altri suoi simili, ai loro oscuri intrighi, alla loro tenace avarizia e avidità che era dovuto il senso di morte che adesso incupiva questi palazzi; si doveva a lui, al suoi compari, ai loro rancori, al loro senso d’inferiorità, al loro non esser riusciti a fiorire, se adesso anche a lui, Don Fabrizio, gli abiti neri dei ballerini ricordavano le cornacchie che planavano, alla ricerca di prede putride, al disopra del valloncelli sperduti. Ebbe voglia di rispondergli malamente, d’invitarlo ad andarsene fuori dai piedi Ma non si poteva: era un ospite, era il padre della cara Angelica. Era forse un infelice come gli altri.
“Bello, don Calogero, bello. Ma ciò che supera tutto sono i nostri due ragazzi.”
Angelica e Tancredi passavano in quel momento davanti a loro, la destra inguantata di lui posata a taglio sulla vita di lei, le braccia tese e compenetrate, gli occhi di ciascuno fissi in quelli dell’altro. Il nero del “frack” di lui, il roseo della veste di lei, frammisti, formavano uno strano gioiello. Essi offrivano lo spettacolo più patetico di ogni altro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione. Ne l’uno ne l’altra erano buoni, ciascuno pieno di calcoli, gonfio di mire segrete; ma entrambi erano cari e commoventi mentre le loro non limpide ma ingenue ambizioni erano obliterate dalle parole di giocosa tenerezza che lui le mormorava all’orecchio, dal profumo dei capelli di lei, dalla reciproca stretta di quei loro corpi destinati a morire. I due giovani si allontanavano, altre coppie passavano, meno belle, altrettanto commoventi, immerse ciascuna nella propria passeggera cecità. Don Fabrizio senti spetrarsi il cuore: il suo disgusto cedeva il posto alla compassione per questi effimeri esseri che cercavano di godere dell’esiguo raggio di luce accordato loro fra le due tenebre prima della culla, dopo gli ultimi strattoni. Come era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire? voleva dire esser vili come le pescivendole che sessant’anni fa oltraggiavano i condannati nella piazza del Mercato. Anche le scimmiette sui poufs, anche i vecchi babbei suoi amici erano miserevoli, insalvabili e cari come il bestiame che la notte mugola per le vie della 151
città, condotto al macello; all’orecchio di ciascuno di essi sarebbe giunto un giorno lo scampanellio che aveva udito tre ore fa dietro S. Domenico. Non era lecito odiare altro che l’eternità. E poi tutta la gente che riempiva i saloni, tutte quelle donne bruttine, tutti questi uomini sciocchi, questi due sessi vanagloriosi, erano il sangue del suo sangue, erano lui stesso; con essi soltanto si comprendeva, soltanto con essi era a suo agio. “Sono forse più intelligente, sono certamente più colto di loro, ma sono della medesima risma, con essi debbo solidarizzare.
Si accorse che don Calogero parlava con Giovanni Finale del possibile rialzo del prezzo dei caciocavalli e che, speranzosi di questa beatifica evenienza, i suoi occhi si erano fatti liquidi e mansueti. Poteva svignarsela senza rimorsi.
Fino a questo momento l’irritazione accumulata gli aveva dato energia; adessocon la distensione sopravvenne la stanchezza: erano di già le due. Cercò un postodove poter sedere tranquillo, lontano dagli uomini, amati e fratelli, va bene, masempre noiosi. Lo trovò presto: la biblioteca, piccola, silenziosa, illuminata e vuota.
Sedette poi si rialzò per bere dell’acqua che si trovava su un tavolinetto. “Non c’èche l’acqua a esser davvero buona” pensò da autentico siciliano; e non si asciugò legoccioline rimaste sulle labbra. Sedette di nuovo. La biblioteca gli piaceva, ci sisenti presto a suo agio; essa non si opponeva alla di lui presa di possesso perchéera impersonale come lo sono le stanze poco abitate: Ponteleone non era tipo daperdere il suo tempo li dentro. Si mise a guardare un quadro che gli stava di fronte:era una buona copia della “Morte del Giusto” di Greuze. Il vegliardo stava spirandonel suo letto, fra sbuffi di biancheria pulitissima, circondato dai nipoti afflitti e danipotino che levavano le braccia verso il soffitto. Le ragazze erano carine, procaci, ildisordine delle loro vesti suggeriva più il libertinaggio che il dolore; si capiva subitoche erano loro il vero soggetto del quadro. Nondimeno un momento Don Fabrizio sisorprese che Diego tenesse ad aver sempre dinanzi agli occhi questa scenamalinconica; poi si rassicurò pensando che egli doveva entrare in questa stanza sìe no una volta all’anno.
Subito dopo chiese a sé stesso se la propria morte sarebbe stata simile a quella: probabilmente si, a parte che la biancheria sarebbe stata meno impeccabile (lui lo sapeva, le lenzuola degli agonizzanti sono sempre sudice, ci son le bave, le deiezioni, le macchie di medicine...) e che era da sperare che Concetta, Carolina e le altre sarebbero state più decentemente vestite. Ma, in complesso, lo stesso. Come sempre la considerazione della propria morte lo 152
rasserenava tanto quanto lo aveva turbato quella della morte degli altri; forse perché, stringi stringi, la sua morte era in primo luogo quella di tutto il mondo?