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più di un mese, dal giorno dei “moti” del Quattro Aprile, le avevano per prudenza fatte rientrare dal convento, e rimpiangevano i dormitori a baldacchino e l’intimità collettiva del Salvatore. I ragazzini si accapigliavano di già per il possesso di una immagine di S. Francesco di Paola; il primogenito, l’erede, il duca Paolo, aveva già voglia di fumare e timoroso di farlo in presenza dei genitori, andava palpando attraverso la tasca la paglia intrecciata del portasigari; nel volto emaciato si affacciava una malinconia metafisica: la giornata era stata cattiva: “Guiscardo,” il sauro irlandese, gli era sembrato giù di vena, e Fanny non aveva trovato il modo (o la voglia?) di fargli pervenire il solito bigliettino color di mammola. A che fare, allora, si era incarnato il Redentore? La prepotenza ansiosa della Principessa fece cadere seccamente il rosario nella borsa trapunta di jais mentre gli occhi belli e maniaci sogguardavano i figli servi e il marito tiranno verso il quale il corpo minuscolo si protendeva in una vana ansia di dominio amoroso.

Lui, il Principe, intanto si alzava: l’urto del suo peso da gigante faceva tremare l’impiantito e nei suoi occhi chiarissimi si riflesse, un attimo, l’orgoglio di questa effimera conferma del proprio signoreggiare su uomini e fabbricati. Adesso posava o smisurato Messale rosso sulla seggiola che gli era stata dinanzi durante la recita del Rosario, riponeva il fazzoletto sul quale aveva posato il ginocchio, e un po’ di malumore intorbidò il suo sguardo quando rivide la macchiolina di caffè che fin dal mattino aveva ardito interrompere la vasta bianchezza del panciotto.

Non che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava (nelle case abitate dai comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari; le sue dita potevano accartocciare come carta velina le monete da un ducato; e fra villa Salina e la bottega di un orefice era un frequente andirivieni per la riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli faceva spesso piegare in cerchio. Quelle dita, d’altronde, sapevano anche essere di tocco delicatissimo nel maneggiare e carezzare e di ciò si ricordava a proprio danno Maria Stella, la moglie; e le viti, le ghiere, i bottoni smerigliati dei telescopi, cannocchiali, e

“cercatori di comete” che lassù, in cima alla villa, affollavano il suo osservatorio privato si mantenevano intatti sotto lo sfioramento leggero. I raggi del sole calante di quel pomeriggio di Maggio accendevano il colorito roseo, il pelame color di miele del Principe; denunziavano essi l’origine tedesca di sua madre, di quella principessa Carolina la cui alterigia aveva congelato, trent’anni prima, la corte sciattona delle Due Sicilie. Ma nel sangue di lui fermentavano altre essenze germaniche ben più incomode per quell’aristocratico siciliano nell’anno 1860, di 12

quanto potessero essere attraenti la pelle bianchissima ed i capelli biondi nell’ambiente di olivastri e di corvini: un temperamento autoritario, una certa rigidità morale, una propensione alle idee astratte che nell’habitat molliccio della società palermitana si erano mutati in prepotenza capricciosa, perpetui scrupoli morali e disprezzo per i suoi parenti e amici che gli sembrava andassero alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano.

Primo (ed ultimo) di un casato che per secoli non aveva mai saputo fare neppure l’addizione delle proprie spese e la sottrazione dei propri debiti, possedeva forti e reali inclinazioni alle matematiche; aveva applicato queste all’astronomia e ne aveva tratto sufficienti riconoscimenti pubblici e gustosissime gioie private. Basti dire che in lui orgoglio e analisi matematica si erano a tal punto associati da dargli l’illusione che gli astri obbedissero ai suoi calcoli (come di fatto sembravano fare) e die i due pianetini che aveva scoperto (Salina e Svelto li aveva chiamati, come il suo feudo e un suo bracco indimenticato) propagassero la fama della sua casa nelle sterili plaghe fra Marte e Giove e che quindi gli affreschi della villa fossero stati più una profezia che un’adulazione.

Sollecitato da una parte dall’orgoglio e dall’intellettualismo materno, dall’altra dalla sensualità e faciloneria del padre, il povero Principe Fabrizio viveva in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeusiano e stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancora minor voglia di porvi riparo.

Quella mezz’ora fra il Rosario e la cena era uno dei momenti meno irritanti della giornata, ed egli ne pregustava ore prima la pur dubbia calma.

Preceduto da un Bendicò eccitatissimo discese la breve scala che conduceva al giardino. Racchiuso com’era questo fra tre mura e un lato della villa, la reclusione gli conferiva un aspetto cimiteriale accentuato dai monticciuoli paralleli delimitanti i canaletti d’irrigazione e che sembravano tumuli di smilzi giganti. Sul terreno rossiccio le piante crescevano in fitto disordine, i fiori spuntavano dove Dio voleva e le siepi di mortella sembravano disposte per impedire più che per dirigere i passi. Nel fondo una flora chiazzata di lichene giallonero esibiva rassegnata i suoi vezzi più che secolari; ai lati due panche sostenevano cuscini ravvoltolati e trapunti, anch’essi di marmo grigio, e in un angolo l’oro di un albero di gaggia intrometteva la propria allegria intempestiva. Da ogni zolla emanava la sensazione di un desiderio di bellezza presto fiaccato dalla pigrizia.

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Ma il giardino, costretto e macerato fra le sue barriere, esalava profumi untuosi, carnali e lievemente putridi come i liquami aromatici distillati dalle reliquie di certe sante; i garofanini sovrapponevano il loro odore pepato a quello protocollare delle rose ed a quello oleoso delle magnolie che si appesantivano negli angoli; e sotto sotto si avvertiva anche u profumo della menta misto a quello infantile della gaggìa ed a quello confetturiero della mortella, e da oltre il muro l’agrumeto faceva straripare il sentore di alcova delle prime zàgare.

Era un giardino per ciechi: la vista costantemente era offesa ma l’odorato poteva trarre da esso un piacere forte benché non delicato. Le rose Paul Neyron le cui piantine aveva egli stesso acquistato a Parigi erano degenerate: eccitate prima e rinfrollite dopo dai succhi vigorosi e indolenti della terra siciliana, arse dai lugli apocalittici, si erano mutate in una sorta di cavoli color carne, osceni, ma che distillavano un denso aroma quasi turpe che nessun allevatore francese avrebbe osato sperare. Il Principe se ne pose una sotto il naso e gli sembrò di odorare la coscia di una ballerina dell’Opera. Bendicò, cui venne offerta pure, si ritrasse nauseato e si affrettò a cercare sensazioni più salubri fra il concime e certe lucertoluzze morte.

Per il Principe, però, il giardino profumato fu causa di cupe associazioni d’idee.

“Adesso qui c’è buon odore, ma un mese fa...”

Ricordava il ribrezzo che le zaffate dolciastre avevano diffuso in tutta la villa prima che ne venisse rimossa la causa: il cadavere di un giovane soldato del 5°

Battaglione Cacciatori che, ferito nella zuffa di S. Lorenzo contro le squadre dei ribelli era venuto a morire, solo, sotto un albero di limone. Lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghia confitte nella terra, coperto dai formiconi; e di sotto le bandoliere gl’intestini violacei avevano formato pozzanghera. Era stato Russo, il soprastante, a rinvenire quella cosa spezzata, a rivoltarla, a nascondere il volto col suo fazzolettone rosso, a ricacciare con un rametto le viscere dentro lo squarcio del ventre, a coprire poi la ferita con le falde verdi del cappottone; sputando continuamente per lo schifo, non proprio addosso ma assai vicino alla salma. tutto con preoccupante perizia.

“Il fetore di queste carogne non cessa neppure quando sono morte,” diceva. Era stato tutto quanto avesse commemorato quella morte derelitta. Quando i commilitoni imbambolati lo ebbero poi portato via (e, sì, lo avevano trascinato per le spalle sino alla carretta cosicché la stoppa del pupazzo era venuta fuori di nuovo) un De Profundis per l’anima dello sconosciuto venne aggiunto al Rosario 14

serale; e non se ne parlò più, la coscienza delle donne di casa essendosi dichiarata soddisfatta.

Don Fabrizio andò a grattar via un po’ di lichene dai piedi della Flora e si mise a passeggiare su e giù. Il sole basso proiettava immane l’ombra sua sulle aiuole funeree. Del morto non si era parlato più, infatti; ed, alla fin dei conti, i soldati sono soldati appunto per morire in difesa del Re. L’immagine di quel corpo sbudellato riappariva però spesso nei ricordi come per chiedere che gli si desse pace nel solo modo possibile al Principe: superando e giustificando il suo estremo patire in una necessità generale. Perché morire per qualche d’uno o per qualche cosa, va bene, è nell’ordine; occorre però sapere o, per lo meno, esser certi che qualcuno sappia per chi o per che si è morti; questo chiedeva quella faccia deturpata; e appunto qui cominciava la nebbia.

“Ma è morto per il Re, caro Fabrizio, è chiaro” gli avrebbe risposto suo cognato Màlvica se Don Fabrizio lo avesse interrogato, quel Màlvica scelto sempre come portavoce della folla degli amici. “Per il Re, che rappresenta l’ordine, la continuità, la decenza, il diritto, l’onore; per il Re che solo difende la Chiesa, che solo impedisce il disfacimento della proprietà, mèta ultima della ‘setta’.”

Parole bellissime queste, che indicavano tutto quanto era caro al Principe sino alle radici del cuore. Qualcosa però strideva ancora. Il Re, va bene. Lo conosceva bene il Re, almeno quello che era morto da poco; l’attuale non era che un seminarista vestito da generale. E davvero non valeva molto. “Ma questo non è ragionare, Fabrizio,” ribatteva Màlvica “un singolo sovrano può non essere all’altezza, ma l’idea monarchica rimane lo stesso quella che è; essa è svincolata dalle persone.” “Vero anche questo; ma i Re che incarnano un’idea non possono, non devono scendere per generazioni al di sotto di un certo livello; se no, caro cognato, anche l’idea patisce.”

Seduto su un banco se ne stava inerte a contemplare le devastazioni che Bendicò operava nelle aiuole; ogni tanto il cane rivolgeva a lui gli occhi innocenti come per esser lodato del lavoro compiuto: quattordici garofani spezzati, mezza siepe divelta, una canaletta ostruita. Sembrava davvero un cristiano. “Buono Bendicò, vieni qui.” E la bestia accorreva, gli posava le froge terrose sulla mano, ansiosa di mostrargli che la balorda interruzione del bei lavoro compiuto gli veniva perdonata.

Le udienze, le molte udienze che Re Ferdinando gli aveva concesse, a Casetta, a Napoli, a Capodimonte, a Portici, a casa del diavolo...

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A fianco del ciambellano di servizio che lo guidava chiacchierando, con la feluca sotto il braccio e le più fresche volgarità napoletane sulle labbra, si percorrevano interminabili sale di architettura magnifica e di mobilio stomachevole (proprio come la monarchia borbonica), ci s’infilava in anditi sudicetti e scalette mal tenute e si sbucava in un’anticamera dove parecchia gente aspettava: facce chiuse di sbirri, facce avide di questuanti raccomandati. Il ciambellano si scusava, faceva superare l’ostacolo della gentaglia, e lo pilotava verso un’altra anticamera, quella riservata alla gente di Corte: un ambientino azzurro e argento; e dopo una breve attesa un servo grattava alla porta e si era ammessi alla Presenza Augusta.

Lo studio privato era piccolo e artificiosamente semplice: sulle pareti imbiancate un ritratto del Re Francesco I e uno dell’attuale Regina, dall’aspetto inacidito; al di sopra del caminetto una Madonna di Andrea del Sarto sembrava stupita di trovarsi contornata da litografie colorate rappresentanti santi di terz’ordine e santuari napoletani; su di una mensola un Bambino Gesù in cera col lumino acceso davanti; e sulla immensa scrivania carte bianche, carte gialle, carte azzurre: tutta l’amministrazione del Regno giunta alla sua fase finale, quella della firma di Sua Maestà (D.G.).

Dietro questo sbarramento di scartoffie, il Re. Già in piedi per non essere costretto a mostrare che si alzava; il Re col faccione smorto fra le fedine biondicce, con quella giubba militare di ruvido panno da sotto la quale scaturiva la cateratta violacea dei pantaloni cascanti. Faceva un passo avanti con w destra già inclinata per il baciamano che avrebbe poi rifiutato. ‘Ne’, Salina, beate quest’uocchie che tè vedono.” L’accento napoletano sorpassava di gran lunga in sapore quello del ciambellano. “Prego la Vostra Real Maestà di voler scusarmi se non indosso la divisa di Corte; sono soltanto di passaggio a Napoli e non volevo tralasciare di venire a riverire la Vostra Persona.” “Salina, tu vo’ pazziare; lo sai che a Casetta sei come a casa tua. A casa tua, sicuro” ripeteva sedendo dietro la scrivania e indugiando un attimo a far sedere l’ospite.

“E le ‘ppeccerelle che fanno?” Il Principe capiva che a questo punto occorreva piazzare l’equivoco salace e bigotto insieme. “Le ppeccerelle, Maestà? alla mia età e sotto il sacro vincolo del matrimonio?” La bocca del Re rideva mentre le mani riordinavano stizzosamente le carte. “Non mi sarei mai permesso, Salina. Io domandavo d’e ‘ppeccerelle toie, d’e Principessine. Concetta, la cara figlioccia nostra, dev’essere granne ora, ‘na signorina.”

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Dalla famiglia si passò alla scienza. “Tu, Salina, fai onore non solo a tè stesso, ma a tutto il Regno! Gran bella cosa la scienza quando non le passa p’a capa di attaccare la religione!” Dopo, però la maschera dell’amico veniva posta da patte e si assumeva quella del Sovrano Severo. “E dimmi, Salina, che si dice in Sicilia di Castelcicala?” Don Fabrizio si schermiva: ne aveva inteso dir corna tanto da patte regia come da patte liberale, ma non voleva tradire l’amico, si manteneva sulle generalità. “Gran signore, gloriosa ferita, forse un po’ anziano per le fatiche della Luogotenenza.” Il Re si rabbuiava: Salina non voleva far la spia, Salina quindi non valeva niente per lui. Appoggiate le mani alla scrivania, si preparava a dar congedo. “Aggio tanto lavoro; tutto il Regno riposa su queste spalle.” Era tempo di dare lo zuccherino; la maschera amichevole rispuntò fuori dal cassetto: “Quanno ripassi da Napoli, Salina, vieni a far vedere Concetta alla Regina. Lo saccio è troppo giovane pe’ esse presentata a Cotte, ma un pranzetto privato non ce l’impedisce nisciuno. Maccarrune e belle guaglione, come si dice. Salutarne, Salina, statte bbuono.”

Una volta però il congedo era stato cattivo. Don Fabrizio aveva già fatto il secondo inchino a ritroso quando il Re lo richiamò: “Salina, starnine a sentere. Mi hanno detto che a Palermo hai cattive frequentazioni. Quel tuo nipote Falconeri...

perché non gli rimetti la testa a posto?” “Maestà, ma Tancredi non si occupa che di donne e di carte.” Il Re perse la pazienza. “Salina, Salina, tu pazzii.

Responsabile sei tu, il tutore. Digli ca si guardasse ‘o cuollo. Salutarne.”

Ripercorrendo l’itinerario fastosamente mediocre per andare a firmare sul registro della Regina, lo scoramento l’invadeva. La cordialità plebea lo aveva depresso quanto il ghigno poliziesco. Beati quei suoi amici che volevano interpretare la familiarità come amicizia, la minaccia come possanza regale. Lui non poteva. E mentre palleggiava pettegolezzi con l’impeccabile ciambellano andava chiedendosi chi fosse destinato a succedere a questa monarchia che aveva i segni della morte sul volto. Il Piemontese, il cosiddetto Galantuomo che faceva tanto chiasso nella sua piccola capitale fuor di mano? Non sarebbe stato lo stesso? Dialetto torinese invece che napoletano; e basta.

Si era giunti al registro. Firmava: Fabrizio Corbera, Principe di Salina.

Oppure la Repubblica di don Poppino Mazzini? “Grazie. Diventerei il signor Corbera.”

E la lunga tappa del ritorno non lo calmò. Non poté consolarlo neppure l’appuntamento già preso con Cora Danòlo.

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Stando così le cose, che restava da fare? Aggrapparsi a quel che c’è senza far salti nel buio? Allora occorrevano i colpi secchi delle scariche, così come erano rintronati poco tempo fa in una squallida piazza di Palermo; ma le scariche anch’esse a cosa servivano? “Non si conchiude niente con i ‘pum! pum!’ È vero, Bendicò?”

“Ding, ding, ding!” faceva invece la campana che annunziava la cena. Bendicò correva con l’acquolina in bocca per il pasto pregustato. “Un Piemontese tale e quale!” pensava Salina risalendo la scala.

La cena a villa Salina era servita con il fasto sbrecciato che allora era lo stile del Regno delle Due Sicilie. Il numero dei commensali (quattordici erano fra padroni di casa, figli, governanti e precettori) bastava da solo a conferire imponenza alla tavola. Ricoperta da una rattoppata tovaglia finissima, essa fendeva sotto la luce di una potente “carsella” precariamente appesa sotto la

“ninfa,” sotto il lampadario di Murano. Dalle finestre entrava ancora luce ma le figure bianche sul fondo scuro delle sovrappone, simulanti dei bassorilievi, si perdevano già nell’ombra. Massiccia l’argenteria e splendidi i bicchieri recanti sul medaglione liscio fra i bugnati di Boemia le cifre F.D. (Ferdinandus dedit) in ricordo di una munificenza regale, ma i piatti, ciascuno segnato da una sigla illustre, non erano che dei superstiti delle stragi compiute dagli sguatteri e provenivano da servizi disparati. Quelli di formato più grande, Capodimonte vaghissimi con la larga bordura verde-mandorla segnata da ancorette dorate, erano riservati al Principe cui piaceva avere intorno a sé ogni cosa in scala, eccetto la moglie. Quando entrò in sala da pranzo tutti erano già riuniti, la Principessa soltanto seduta, gli altri in piedi dietro I alle loro sedie. Davanti al suo posto, fiancheggiati da una colonna di piatti, si slargavano i fianchi argentei dell’enorme zuppiera col coperchio sormontato dal Gattopardo danzante. Il Principe scodellava lui stesso la minestra, fatica grata simbolo delle mansioni altrici del pater familias. Quella sera però, come non era avvenuto da tempo, si udì minaccioso il tinnire del mescolo contro la parete della zuppiera: segno di collera grande ancor contenuta, uno dei rumori più spaventevoli che esistessero; come diceva ancora quarant’anni dopo un figlio sopravvissuto: il Principe si era accorto che il sedicenne Francesco Paolo non era al proprio posto. Il ragazzo entrò subito (“scusatemi, papa”) e sedette. Non subì rimprovero ma padre Pirrone che aveva più o meno le funzioni di cane da mandria, chinò il capo e si raccomandò a Dio. La bomba non era esplosa ma il vento del suo passaggio aveva raggelato la 18

tavola e la cena era rovinata lo stesso. Mentre si mangiava in silenzio, gli occhi azzurri del Principe, un po’ ristretti fra le palpebre semichiuse, fissavano i figli uno per uno e li ammutolivano di timore.

Invece! “Bella famiglia” pensava. Le femmine grassocce, fiorenti di salute, con le loro fossette maliziose e, fra la fronte e il naso, quel tale cipiglio, quel marchio atavico dei Salina. I maschi sottili ma forti maneggiavano le posate con sorvegliata violenza. Uno di essi mancava da due anni, quel Giovanni, il secondogenito, il più amato, il più scontroso. Un bel giorno era scomparso da casa e di lui non si erano avute notizie per due mesi. Finché non giunse una rispettosa e fredda lettera da Londra nella quale si chiedeva scusa per le ansie causate, si rassicurava sulla propria salute e si affermava, stranamente, di preferire la modesta vita di commesso in una ditta di carboni anziché l’esistenza

“troppo curata” (leggi: incatenata) fra gli agi palermitani. Il ricordo, l’ansietà per il giovinetto errante nella nebbia fumosa di quella città eretica, pizzicarono malvagiamente il cuore del Principe che soffrì molto. S’incupì ancora di più.

S’incupì tanto che la Principessa seduta accanto a lui tese la mano infantile e carezzò la potente zampacela che riposava sulla tovaglia. Gesto improvvido che scatenò una serie di sensazioni: irritazione per esser compianto, sensualità risvegliata ma non più diretta verso chi l’aveva ridestata. In un lampo al Principe appari l’immagine di Mariannina con la testa affondata nel guanciale. Alzò seccamente la voce: “Domenico” disse a un servitore “vai a dire a don Antonino di attaccare i bai al coupé; scendo a Palermo subito dopo cena.” Guardando gli occhi della moglie che si erano fatti vitrei si pentì di quanto aveva ordinato, ma poiché era impensabile il ritiro di una disposizione già data, insistette, unendo anzi la beffa alla crudeltà: “Padre Pirrone, venga con me, saremo di ritorno alle undici; potrà passare due ore a Casa Professa con i suoi amici.”

Andare a Palermo la sera, ed in quei tempi di disordini, appariva manifestamente senza scopo, se si eccettuasse quello di un’avventura galante di basso rango: il prendere poi come compagno l’ecclesiastico di casa era offensiva prepotenza. Almeno padre Pirrone lo sentì cosi, e se ne offese; ma, naturalmente, cedette.

L’ultima nespola era stata appena ingoiata che già si udiva il rotolare della vettura sotto l’androne; mentre in sala un cameriere porgeva la tuba a don Fabrizio e il tricorno al Gesuita, la Principessa ormai con le lagrime agli occhi, fece un ultimo tentativo, quanto mai vano: “Ma, Fabrizio, di questi tempi... con le 19

strade piene di soldati, piene di malandrini... può succedere un guaio.” Lui ridacchiò. “Sciocchezze, Stella, sciocchezze; cosa vuoi che succeda; mi conoscono tutti: uomini alti una canna ce ne sono pochi a Palermo. Addio.” E baciò frettolosamente la fronte ancor liscia che era al vello del suo mento. Però, sia che l’odore della pelle della Principessa avesse richiamato teneri ricordi, sia che dietro li lui il passo penitenziale di padre Pirrone avesse destato ammonimenti pii, quando giunse dinanzi al coupé si trovò di nuovo sul punto di disdire la gita. In quel momento, mentre priva la bocca per dire di rientrare in scuderia, un grido subitaneo “Fabrizio, Fabrizio mio!” giunse dalla finestra di opra, seguito da strida acutissime. La Principessa aveva una delle sue crisi isteriche. “Avanti!” disse al cocchiere, che se le stava a cassetta con la frusta in diagonale sul ventre. “Avanti, andiamo a Palermo a lasciare il Reverendo a Casa Professa.” E sbatté lo sportello prima che il cameriere potesse chiuderlo.

Non era ancora notte chiusa e incassata fra le alte mura la strada si dilungava bianchissima. Appena usciti dalla proprietà Salina si scorgeva a sinistra la villa semidiruta dei Falconeri appartenente a Tancredi, suo nipote e pupillo. Un padre scialacquatore, marito della sorella del Principe, aveva dissipato tutta la sostanza ed era poi morto. Era stata una di quelle rovine totali durante le quali si fanno fondere financo i fili d’argento dei galloni delle livree; ed alla morte della madre il Re aveva affidato la tutela dell’orfano allora quattordicenne allo zio Salina. Il ragazzo, prima quasi ignoto, era divenuto carissimo all’irritabile Principe che scorgeva in lui un’allegria riottosa, un temperamento frivolo a tratti contradetto da improvvise crisi di serietà. Senza confessarlo a sé stesso, avrebbe preferito aver lui come primogenito anziché quel buon babbeo di Paolo. Adesso a vent’anni Tancredi si dava bei tempo con i quattrini che il tutore non gli lesinava rimettendoci anche di tasca propria. “Quel ragazzaccio chissà cosa sta combinando per ora” pensava il Principe mentre si rasentava villa Falconeri cui l’enorme bougainvillea che faceva straripare oltre il cancello le proprie cascate di seta episcopale conferiva nell’oscurità un aspetto abusivo di fasto.

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