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Le carrozze con i servi, i bambini e Bendicò andarono direttamente al palazzo, ma, come voleva un antichissimo uso, gli altri prima di mettere il piede in casa dovevano assistere a un Tè Deum alla Chiesa Madre. Questa era, del resto, a due passi e ci si diresse li in corteo, polverosi ma imponenti i nuovi arrivati, luccicanti ma umili le autorità. Precedeva don Ciccio Ginestra che con il prestigio della 45

divisa faceva far largo ai passanti; seguiva il Principe a braccio della moglie e sembrava un leone sazio e mansueto; dietro, Tancredi con alla sua destra Concetta cui quel procedere verso una chiesa a fianco del cugino produceva un gran turbamento e una dolcissima voglia di piangere; stato d’animo che non era punto alleviato da una forte pressione che il premuroso giovanotto esercitava sul braccio di lei, al solo scopo, ohibò, di farle scansare le buche e le bucce che costellavano la via. Dietro ancora, in disordine, gli altri. L’organista era scappato via in fretta per avere il tempo di depositare Teresina a casa e di trovarsi al proprio tonante posto al momento dell’ingresso in chiesa. Le campane imperversavano sempre, e sulle pareti delle case le iscrizioni di “Viva Garibbaldi”

“Viva Re Vittorio” e “Morte al re Borbone” che un pennello inesperto aveva tracciato due mesi prima, sbiadivano e sembravano voler rientrare nel muro. I mortaretti sparavano mentre si saliva la scalinata e quando il piccolo corteo entrò in Chiesa, don Ciccio Tumeo, giunto col fiato grosso ma in tempo, attaccò con passione “Amami, Alfredo.”

Il duomo era stipato di gente curiosa, fra le sue tozze colonne di marmo rosso; la famiglia Salina sedette nel coro e durante la breve cerimonia Don Fabrizio si esibì alla folla, stupendo; la Principessa era sul punto di venir meno per il caldo e la stanchezza, e Tancredi col pretesto di cacciar via le mosche sfiorò più d’una volta il capo biondo di Concetta. Tutto era in ordine e dopo il fervorino di monsignor Trottolino tutti s’inchinarono dinanzi all’altare, si avviarono verso la porta e uscirono nella piazza abbrutita dal sole.

Al basso della scalinata le autorità si congedarono e la Principessa che aveva avuto bisbigliate le disposizioni durante la cerimonia, invitò a pranzo per quella stessa sera il Sindaco, l’Arciprete e il Notaio. L’Arciprete era scapolo per professione ed il Notaio per vocazione e così la questione delle consorti per essi non poteva porsi; languidamente l’invito al sindaco venne esteso alla di lui moglie: era questa una specie di contadina, bellissima, ma giudicata dal marito stesso, per più d’un verso, impresentabile; nessuno quindi si sorprese quando egli disse che era indisposta; ma grande fu la meraviglia quando aggiunse: “Se le Loro Eccellenze lo permettono verrò con mia figlia, con Angelica, che da un mese non fa che parlare del piacere che avrebbe a esser da loro conosciuta, da grande.” Il consenso, naturalmente venne dato; e don Fabrizio che aveva visto Tumeo sogguardare da dietro le spalle degli altri, gli gridò: “E anche voi, si capisce, don Ciccio, e venite con Teresina.” E rivolto agli altri aggiunse: “E dopo pranzo, alle 46

nove e mezza, saremo felici di vedere tutti gli amici.” Donnafugata commentò a lungo queste ultime parole. Il Principe che aveva trovato il paese immutato venne invece trovato molto mutato lui che mai prima avrebbe adoperato parole tanto cordiali; e da quel momento, invisibile, cominciò il, declino del suo prestigio.

Il palazzo Salina era attiguo alla Chiesa Madre. La sua breve facciata con sette balconi sulla piazza non lasciava supporre la sua smisuratezza che si estendeva indietro per duecento metri: erano dei fabbricati di stili differenti, armoniosamente uniti però intorno a tre vasti cortili e terminanti in un ampio giardino tutto cintato. All’ingresso principale sulla piazza i viaggiatori furono sottoposti a nuove manifestazioni di benvenuto. Don Onofrio Rotolo, l’amministratore locale, non aveva partecipato, non partecipava mai, alle accoglienze ufficiali all’ingresso del paese. Educato alla rigidissima scuola della principessa Carolina, egli considerava il vulgus come non esistente ed il Principe come residente all’estero sinché non avesse varcato la soglia del proprio palazzo; e perciò stava lì, a due passi fuori dal portone, piccolissimo, vecchissimo, barbutissimo, fiancheggiato dalla moglie assai più giovane di lui e poderosa, spalleggiato dai servi e dagli otto “campieri” col Gattopardo d’oro sul berretto e nelle mani otto schioppi di non costante innocuità. “Sono felice di dare alle Loro Eccellenze il benvenuto nella Loro casa. Riconsegno il palazzo nello stato preciso in cui è stato lasciato.”

Don Onofrio era una delle rare persone stimate dal Principe e forse la sola che non lo avesse mai derubato. L’onestà sua confinava con la mania e di essa si narravano episodi spettacolosi come quello del bicchierino di rosolio lasciato semipieno dalla principessa al momento di una partenza e ritrovato un anno dopo nell’identico posto col contenuto evaporato e ridotto allo stato di gromma zuccherina, ma non toccato. “Perché questa è una parte infinitesimale del patrimonio del Principe e non si deve disperdere.”

Finiti i convenevoli con don Onofrio e donna Maria, la Principessa che si reggeva ormai soltanto sui nervi, andò di filato a letto, le ragazze e Tancredi corsero verso le calde ombre del giardino, Don Fabrizio e l’amministratore fecero il giro del grande appartamento. Tutto era in perfetto ordine: i quadri nelle loro cornici pesanti erano spolverati, le dorature delle rilegature antiche emettevano il loro fuoco discreto, l’alto sole faceva brillare i marmi grigi attorno ad ogni porta.

Ogni cosa era nello stato in cui si trovava da cinquant’anni. Uscito dal turbine rumoroso dei dissidi civili, don Fabrizio si sentì rinfrancato, pieno di serena 47

sicurezza e guardò quasi teneramente don Onofrio che gli trotterellava al fianco.

“Don ‘Nofrio, voi siete veramente uno di quei gnomi che custodiscono i tesori; la riconoscenza che vi dobbiamo è grande.” In un altro anno il sentimento sarebbe stato eguale ma le parole non gli erano salite alle labbra; don ‘Nofrio lo guardò grato e sorpreso. “Dovere, Eccellenza, dovere”; e per nascondere la propria emozione si grattava un orecchio con il lunghissimo unghie del mignolo sinistro.

Dopo, l’Amministratore venne sottoposto alla tortura del tè. Don Fabrizio se ne fece portare due tazze e con la morte nel cuore don ‘Nofrio dovette inghiottirne una; poi si mise a raccontare le cronache di Donnafugata: due settimane fa aveva rinnovato l’affitto del feudo Aquila a condizioni un po’ peggiori di prima; aveva dovuto affrontare delle spese per la riparazione dei solai delle foresterie; ma vi erano in cassa, a disposizione di Sua Eccellenza, 3275 onze al netto di ogni spesa, tassa e del proprio stipendio.

Poi vennero le notizie private che si adunavano attorno al grande fatto dell’annata: la continua rapida ascesa della fortuna di don Calogero Sedàra: sei mesi fa era scaduto il mutuo concesso al barone Tumino ed egli si era incamerata la terra: mercé mille onze prestate possedeva adesso una nuova proprietà che ne rendeva cinquecento all’anno; in Aprile aveva potuto acquistare due “salme” di terreno per un pezzo di pane, ed in quella piccola proprietà vi era una cava di pietra ricercatissima che egli si proponeva di sfruttare; aveva concluso vendite di frumento quanto mai profittevoli nei momenti di disorientamento e di carestia che avevano seguito lo sbarco. La voce di don ‘Nofrio si riempì di rancore: “Ho fatto un conto sulla punta delle dita: le rendite di don Calogero eguaglieranno fra poco quelle di Vostra Eccellenza qui a Donnafugata; e questa in paese è la minore delle sue proprietà.”

Insieme alla ricchezza cresceva anche la sua influenza politica; era divenuto il capo dei liberali a Donnafugata ed anche nei borghi vicini; quando ci sarebbero state le elezioni era sicuro di essere inviato deputato a Torino. “E che aria si danno! non lui che è troppo intelligente per farlo, ma sua figlia, per esempio, che è ritornata dal collegio di Firenze e che va in giro per il paese con la sottana rigonfia e i nastri di velluto che le pendono giù dal cappellino.”

Il Principe taceva: la figlia, sì, quell’Angelica che sarebbe venuta a pranzo stasera; era curioso di rivedere quella pastorella agghindata; non era vero che nulla era mutato; don Calogero ricco quanto lui! Ma queste cose, in fondo, erano previste, erano il prezzo da pagare.

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Il silenzio del Principe turbò don ‘Nofrio; immaginava di averlo scontentato narrandogli i pettegolezzi paesani. “Eccellenza, ho pensato a far preparare un bagno; dev’essere pronto adesso.” Don Fabrizio si accorse improvvisamente di essere stanco: erano quasi le tre ed erano nove ore che si trovava in giro sotto il sole torrido e dopo quella nottata; sentiva il suo corpo pieno di polvere fin nelle più remote pieghe. “Grazie, don ‘Nofrio, di averci pensato; e di tutto il resto. Ci rivedremo questa sera a pranzo.”

Salì la scala interna; passò per il salone degli arazzi, per quello azzurro, per quello giallo; le persiane abbassate filtravano la luce, nel suo studio la pendola di Boulle batteva sommessa. “Che pace, mio Dio, che pace!” Entrò nello stanzino del bagno: piccolo, imbiancato a calce, col suo pavimento di ruvidi mattoni nel cui centro vi era l’orifizio per lo scolo dell’acqua. La vasca era una sorta di truogolo ovale, immenso, in lamierino verniciato giallo fuori e bianco dentro, issato su quattro robusti piedi di legno. Dalla finestra senza riparo il sole entrava brutalmente.(1)

(1) Appeso a un chiodo del muro un accappatoio; su una delle sedie di corda labiancheria di ricambio; su un’altra un vestito che recava ancora le pieghe prese nelbaule. Accanto al bagno un grosso pezzo di sapone rosa, uno spazzolone, unfazzoletto annodato contenente della crusca che bagnata avrebbe emesso un latteodoroso, una enorme spugna, una di quelle che gli inviava l’amministratore diSalina.

Don Fabrizio chiamò: entrarono due servitori recanti ciascuno una coppia di secchi sciabordanti, l’uno di acqua fredda, l’altro di acqua bollente; fecero il via vai diverse volte, il truogolo si riempi; lui ne provò la temperatura con la mano: andava bene. Fece uscire i servi, si svesti, s’immerse. Sotto la mole spropositata l’acqua fu sul punto di traboccare. S’insaponò, si strigliò: il tepore gli faceva bene, lo rilassava. Stava quasi per addormentarsi quando si bussò alla porta: Domenico, il cameriere, entrò timoroso. “Padre Pirrone chiede di vedere subito Vostra Eccellenza. Aspetta qui accanto che Vostra Eccellenza esca dal bagno.” Il Principe fu sorpreso; se era successo un guaio era meglio conoscerlo subito.

“Niente affatto; fatelo entrare adesso.”

Don Fabrizio si era allarmato della fretta del Gesuita; e un po’ per questo e un po’ per rispetto dell’abito sacerdotale si affrettò a uscire dal bagno: contava di poter mettersi l’accappatoio prima che padre Pirrone entrasse; ma ciò non gli riuscì, e il prete entrò proprio nell’istante in cui egli non più velato dall’acqua 49

saponacea, non ancora rivestito dall’effimero sudario, si ergeva interamente nudo, come l’Ercole Farnese, e per di più fumante, mentre giù dal collo, dalle braccia, dallo stomaco, dalle cosce l’acqua gli scorreva a rivoli, come il Rodano, il Reno e il Danubio traversano e bagnano i gioghi alpini. Il panorama del Principone allo stato adamitico era inedito per Padre Pirrone. Allenato dal sacramento della Penitenza alle nudità degli animi, lo era assai meno a quella dei corpi; ed egli che non avrebbe battuto ciglio ascoltando la confessione, poniamo, di una tresca incestuosa, si turbò alla vista di quella innocente nudità titanica. Balbettò una scusa e accennò a ritornare indietro; ma Don Fabrizio, irritato per non aver fatto in tempo a coprirsi rivolse naturalmente contro di lui la propria stizza: “Padre, non fate lo sciocco; piuttosto datemi l’accappatoio e, se non vi dispiace, aiutatemi ad asciugarmi.” Subito dopo un battibecco passato gli tornò in mente. “E date retta a me, Padre, prendete un bagno anche voi.” Sodisfatto di aver potuto dare un ammonimento igienico a chi gliene impartiva tanti morali, si rasserenò. Col lembo superiore del panno finalmente ottenuto si asciugava i capelli, le basette ed il collo, mentre col lembo inferiore l’umiliato Padre Pirrone gli strofinava i piedi.

Quando la vetta e le falde del monte furono asciutte: “Adesso sedetevi, Padre, e ditemi perché volevate parlarmi così di furia.” Mentre il Gesuita sedeva egli incominciò per proprio conto alcuni prosciugamenti più intimi. “Ecco, Eccellenza: sono stato incaricato di una missione delicata. Una persona sommamente cara a voi ha voluto aprire a me il suo animo e affidarmi l’incarico di far conoscere i suoi sentimenti, fiduciosa, forse a torto, che la stima della quale sono onorato...” Le esitazioni di Padre Pirrone si stemperavano in frasi interminabili. Don Fabrizio perdette la pazienza: “Insomma, Padre, di chi si tratta? Della Principessa?” E col braccio alzato sembrava minacciare; di fatto si asciugava un’ascella.

“La Principessa è stanca; dorme e non la ho vista. Si tratta della signorina Concetta.” Pausa. “Essa è innamorata.” Un uomo di quarantacinque anni può credersi ancora giovane fino al momento in cui si accorge di avere dei figli in età di amare. Il Principe si senti invecchiato di colpo; dimenticò le miglia che percorreva cacciando, i “Gesummaria” che sapeva provocare, la propria freschezza attuale al termine di un viaggio lungo e penoso; di colpo vide sé stesso come una persona canuta che accompagna uno stuolo di nipotini a cavallo alle capre di Villa Giulia.

“E quella stupida perché è andata a raccontare queste cose a voi? Perché non è venuta da me?” Non chiese neppure di chi fosse innamorata Concetta: era 50

superfluo. “Vostra Eccellenza cela troppo bene il cuore paterno sotto l’autorità del padrone; è naturale allora che quella povera figliola si intimorisca e ricorra al devoto ecclesiastico di casa.”

Don Fabrizio s’infilava i lunghi mutandoni e sbuffava: prevedeva lunghi colloqui, lagrime, seccature senza limiti; quella smorfiosa gli guastava il primo giorno a Donnafugata.

“Capisco, Padre, capisco. A casa mia non mi comprende nessuno. È la mia disgrazia.” Rimaneva seduto su uno sgabello col vello biondo del petto imperlato di goccioline. Rivoletti d’acqua serpeggiavano sui mattoni, la stanza era carica di odor latteo di crusca, di odor di mandorla del sapone. “E che cosa dovrei dire, io, secondo voi?” Il Gesuita sudava nel calore da stufa e, adesso che la confidenza era stata trasmessa, avrebbe voluto andar via; ma il sentimento della propria responsabilità lo trattenne. “Il desiderio di fondare una famiglia cristiana appare graditissimo agli occhi della Chiesa. La presenza del Signore alle nozze di Cana...”

“Non divaghiamo. Io intendo parlare di questo matrimonio, non del matrimonio in generale. Tancredi ha fatto delle proposte precise? e quando?”

Durante cinque anni Padre Pirrone aveva tentato d’insegnare il latino al ragazzo; durante sette anni ne aveva subito le bizze e gli scherzi; come tutti ne aveva sentito il fascino; ma i recenti atteggiamenti politici di Tancredi lo avevano offeso; il vecchio affetto lottava in lui col nuovo rancore. Adesso non sapeva cosa dire. “Proposte vere e proprie, no. Ma la signorina Concetta non ha dubbi: le attenzioni, gli sguardi, le mezzeparole di lui, tutte cose che divengono sempre più frequenti, hanno convinto quell’anima santa; essa è sicura di essere amata; ma, figlia rispettosa e ubbidiente, voleva chiedervi, per mio mezzo, che cosa dovrà rispondere quando queste proposte verranno. Essa sente che sono imminenti.”

Don Fabrizio fu un poco rassicurato: da dove mai quella ragazzina avrebbe dovuto attingere una esperienza che le permettesse di veder chiaro nelle intenzioni di un giovanotto? e di un giovanotto come Tancredi, per di più! Si trattava probabilmente di semplici fantasie, di uno di quei “sogni d’oro” che sconvolgono i guanciali degli educandati. Il pericolo non era vicino.

Pericolo. La parola gli risonò in mente con tanta nettezza che se ne sorprese.

Pericolo. Ma pericolo per chi? Egli amava molto Concetta: di lei gli piaceva la perpetua sottomissione, la placidità con la quale si piegava ad ogni esosa manifestazione della volontà paterna; sottomissione e placidità, del resto, da lui sopravalutata. La naturale tendenza che egli possedeva a rimuovere ogni 51

minaccia alla propria calma gli aveva fatto trascurare di osservare il bagliore ferrigno che traversava gli occhi della ragazza quando le bizzarrie alle quali ubbidiva erano davvero troppo vessatorie. Il Principe amava molto questa sua figlia; ma amava ancor più Tancredi. Conquistato da sempre dall’affettuosità beffarda del ragazzo, da pochi mesi aveva cominciato ad ammirare anche l’intelligenza di lui: quella rapida adattabilità, quella penetrazione mondana, quell’arte innata delle sfumature che gli dava il modo di parlare il linguaggio demagogico di moda pur lasciando capire agli iniziati che ciò non era che un passatempo al quale lui, il Principe di Falconeri, si abbandonava per un momento, tutte queste cose lo avevano divenite; e per le persone del carattere e della classe di Don Fabrizio la facoltà di esser divertiti costituisce i quattro quinti dell’affetto. Tancredi, secondo lui, aveva dinanzi a sé un grande avvenire; egli avrebbe potuto essere l’alfiere di un contrattacco che la nobiltà, sotto mutate uniformi, poteva portare contro il nuovo ordine politico. Per far questo gli mancava soltanto una cosa: i soldi; di questi Tancredi non ne aveva, niente. E per farsi avanti in politica, adesso che il nome avrebbe contato di meno, di soldi ne occorrevano tanti: soldi per comperare i voti, soldi per far favori agli elettori, soldi per un treno di casa che abbagliasse. Treno di casa... e Concetta con tutte le sue virtù passive sarebbe stata capace di aiutare un marito ambizioso e brillante a salire le sdrucciolevoli scale della nuova società? Timida, riservata, ritrosa come era? Sarebbe rimasta sempre la bella educanda che era adesso, cioè una palla di piombo al piede del marito.

“La vedete voi, Padre, Concetta ambasciatrice a Vienna o a Pietroburgo?” La testa di Padre Pirrone fu frastornata da questa domanda. “Ma che c’entra questo?

Non capisco.” Don Fabrizio non si curò di spiegare e si ringolfò nei suoi pensieri.

Soldi? Concetta avrebbe avuto una dote, certo. Ma la fortuna di casa Salina doveva essere divisa in otto parti, in parti non eguali, delle quali quella delle ragazze sarebbe stata la minima. Ed allora? Tancredi aveva bisogno di ben altro: di Maria Santa Pau, per esempio, con i quattro feudi già suoi e tutti quegli zii preti e risparmiatori; di una delle ragazze Sutèra, tanto bruttine ma tanto ricche.

L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta. Lo sapeva lui che cos’era l’amore... e Tancredi poi, davanti al quale le donne sarebbero cadute come pere cotte...

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