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“Mia figlia chiede scusa; non era ancora del tutto pronta. Vostra Eccellenza sa come sono le femmine in queste occasioni” aggiunse esprimendo in termini quasi vernacoli un pensiero di levità parigina. “Ma sarà qui fra un attimo; da casa nostra sono due passi, come sapete.”

L’attimo durò cinque minuti; poi la porta si apri ed entrò Angelica. La prima impressione fu di abbagliata sorpresa. I Salina rimasero col fiato in gola; Tancredi senti addirittura come gli pulsassero le vene delle tempie. Sotto l’impeto della sua bellezza gli uomini rimasero incapaci di notare, analizzandoli, i non pochi difetti che questa bellezza aveva; molte dovevano essere le persone che di questo lavorio critico non furono capaci mai. Era alta e ben fatta, in base a generosi criteri; la carnagione sua doveva possedere il sapore della crema fresca alla quale rassomigliava, la bocca infantile quello delle fragole. Sotto la massa dei capelli color di notte avvolti di soavi ondulazioni, gli occhi verdi albeggiavano, immoti come quelli delle statue e, com’essi, un po’ crudeli. Procedeva lenta, facendo roteare intorno a sé l’ampia gonna bianca e recava nella persona la pacatezza, l’invincibilità della donna di sicura bellezza. Molti mesi dopo soltanto si seppe che al momento di quel suo ingresso trionfale essa era stata sul punto di svenire per l’ansia.

Non si curò di Don Fabrizio che accorreva verso di lei, oltrepassò Tancredi che sorrideva trasognato; dinanzi alla poltrona della Principessa la sua groppa stupenda disegnò un lieve inchino e questa forma di omaggio inconsueta in Sicilia le conferì un istante il fascino dell’esotismo in aggiunta a quello della bellezza paesana. “Angelica mia, da quanto tempo non ti avevo vista. Sei molto cambiata; e non in peggio.” La Principessa non credeva ai propri occhi; ricordava la tredicenne poco curata e bruttina di quattro anni prima e non riusciva a farne combaciare l’immagine con quella dell’adolescente voluttuosa che le stava davanti. Il Principe non aveva ricordi da riordinare; aveva soltanto previsioni da capovolgere; il colpo inferto al suo orgoglio dal frack del padre si ripeteva adesso 56

nell’aspetto della figlia; ma questa volta non si trattava di panno nero ma di matta pelle lattea; e tagliata bene, come bene! Vecchio cavallo da battaglia com’era, lo squillo della grazia femminile lo trovò pronto ed egli si rivolse alla ragazza con tutto il grazioso ossequio che avrebbe adoperato parlando alla duchessa di Bovino o alla principessa di Lampedusa. “E’ una fortuna per noi, signorina Angelica, di avere accolto un fiore tanto bello nella nostra casa; e spero che avremo il piacere di rivedervelo spesso.” “Grazie, principe; vedo che la Sua bontà per me è uguale a quella che ha sempre dimostrato al mio caro papa.” La voce era bella, bassa di tono, un po’ troppo sorvegliata forse; il collegio fiorentino aveva cancellato lo strascichio dell’accento girgentano; di siciliano, nelle parole, rimaneva soltanto l’asprezza delle consonanti che del resto si armonizzava benissimo con la sua venustà chiara ma greve. A Firenze anche le avevano appreso ad omettere l’‘Eccellenza.’

Rincresce di poter dir poco di Tancredi: dopo che si fu fatto presentare da don Calogero, dopo aver a stento resistito al desiderio di baciare la mano di Angelica, dopo aver manovrato il faro del suo occhio azzurro, era rimasto a chiacchierare con la signora Rotolo, e non capiva nulla di quanto udiva. Padre Pirrone in un angolo buio se ne stava a meditare e pensava alla Sacra Scrittura che quella sera gli si presentava soltanto come una successione di Dalile, Giuditte ed Ester.

La porta centrale del salotto si apri e “Prann’ pronn’“ declamò il maestro di casa; suoni misteriosi mediante i quali si annunziava che il pranzo era pronto; e il gruppo eterogeneo si avviò verso la stanza da pranzo.

Il Principe aveva troppa esperienza per offrire a degli invitati siciliani in un paese dell’interno, un pranzo che si iniziasse con un potage, e infrangeva tanto più facilmente le regole dell’alta cucina in quanto ciò corrispondeva ai propri gusti. Ma le informazioni sulla barbarica usanza forestiera di servire una brodaglia come primo piatto erano giunte con troppa insistenza ai maggiorenti di Donnafugata perché un residuo timore non palpitasse in loro all’inizio di ognuno di quei pranzi solenni. Perciò quando tre servitori in verde, oro e cipria entrarono recando ciascuno uno smisurato piatto d’argento che conteneva un torreggiante timballo di maccheroni, soltanto quattro su venti persone si astennero dal manifestare una lieta sorpresa: il Principe e la Principessa perché se l’aspettavano, Angelica per affettazione e Concetta per mancanza di appetito.

Tutti gli altri (Tancredi compreso, rincresce dirlo) manifestarono il loro sollievo in modi diversi, che andavano dai flautati grugniti estatici del notaio allo strilletto 57

acuto di Francesco Paolo. Lo sguardo circolare minaccioso del padrone di casa troncò del resto subito queste manifestazioni indecorose.

Buone creanze a parte, però, l’aspetto di quei babelici pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi impigliate nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.

L’inizio del pasto fu, come sempre avviene in provincia, raccolto. L’Arciprete si fece il segno della croce e si lanciò a capofitto senza dir parola; l’organista assorbiva la succolenza . del cibo ad occhi chiusi: era grato al Creatore che la propria abilità nel fulminare lepri e beccacce gli procurasse talvolta simili estasi, e pensava che col solo prezzo di uno di quei timballi lui e Teresina avrebbero campato un mese; Angelica, la bella Angelica, dimenticò i migliaccini toscani e parte delle proprie buone maniere e divorava con l’appetito dei suoi diciassette anni e col vigore che la forchetta tenuta a metà dell’impugnatura le conferiva.

Tancredi, tentando di unire la galanteria alla gola, si provava a vagheggiare il sapore dei baci di Angelica, sua vicina, nel gusto delle forchettate aromatiche, ma si accorse che l’esperimento era disgustoso e lo sospese, riservandosi di risuscitare queste fantasie al momento del dolce; Don Fabrizio, benché rapito nella contemplazione di Angelica che gli stava di fronte, ebbe modo di notare, unico a tavola che la demi-glacé era troppo carica e si ripromise di dirlo al cuoco l’indomani; gli altri mangiavano senza pensare a nulla e non sapevano che il cibo sembrava loro tanto squisito anche perché un’aura sensuale era penetrata nella casa.

Tutti erano tranquilli e contenti. Tutti, tranne Concetta. Essa aveva si abbracciato e baciato Angelica, aveva anche respinto il “lei” che quella le dava e preteso il “tu” della loro infanzia ma lì, sotto il corpetto azzurro pallido, il cuore le veniva attanagliato; in lei si ridestava il violento sangue Salina e sotto la fronte liscia si ordivano fantasie di venefici. Tancredi sedeva fra lei ed Angelica e con la compitezza puntigliosa di chi si sente in colpa divideva equamente sguardi, complimenti e facezie fra le sue due vicine; ma Concetta sentiva, animalescamente sentiva, la corrente di desiderio che scorreva dal cugino verso 58

l’intrusa, e il cipiglietto di lei fra la fronte e il naso s’inaspriva; desiderava uccidere quanto desiderava morire. Poiché era donna si aggrappava ai particolari: notava la grazia volgare del mignolo destro di Angelica levato in alto mentre la mano teneva il bicchiere; notava un neo rossastro sulla pelle del collo, notava il tentativo represso a metà di togliere con la mano un pezzette di cibo rimasto fra i denti bianchissimi; notava ancor più vivacemente una cena durezza di spirito; ed a questi particolari che in realtà erano insignificanti perché bruciati dal fascino sensuale si aggrappava fiduciosa e disperata come un muratore precipitato si aggrappa a una grondaia di piombo; sperava che Tancredi li notasse anch’egli e si disgustasse dinanzi a queste tracce palesi della differenza di educazione. Ma Tancredi li aveva di già notati e ahimè! senza alcun risultato. Si lasciava trascinare dallo stimolo fisico che la femmina bellissima procurava alla sua gioventù focosa ed anche dalla eccitazione diciamo così contabile che la ragazza ricca suscitava nel suo cervello di uomo ambizioso e povero.

Alla fine del pranzo la conversazione era generale: don Calogero raccontava in pessima lingua ma con intuito sagace alcuni retroscena della conquista garibaldina della provincia; il notaio parlava alla Principessa del villino “fuori città” (cioè a cento metri da Donnafugata) che si faceva costruire; Angelica eccitata dalle luci, dal cibo, dallo chablis, dall’evidente consenso che essa trovava in tutti i maschi attorno alla tavola, aveva chiesto a Tancredi di narrarle alcuni episodi dei “gloriosi fatti d’arme” di Palermo; aveva posato un gomito sulla tovaglia e poggiato la guancia sulla mano; il sangue le affluiva alle gote ed essa era

pericolosamente

gradevole

da

guardare;

l’arabesco

disegnato

dall’avambraccio, dal gomito, dalle dita, dal guanto bianco pendente venne trovato squisito da Tancredi e disgustoso da Concetta. Il giovane, pur continuando ad ammirare, narrava la guerra facendo apparire tutto lieve e senza importanza: la marcia notturna su Gibilrossa, la scenata fra Bixio e La Masa, l’assalto a porta di Termini. “Io non avevo ancora questo impiastro sull’occhio e mi son divertito un mondo, signorina, mi creda. Le più grandi risate le abbiamo fatte la sera del 28 Maggio, pochi minuti prima che io fossi ferito. Il Generale aveva bisogno di avere un posto di vedetta in cima al Monastero dell’Origliene: picchia, picchia, impreca, nessuno apre; era un convento di clausura. Tassoni, Aldrighetti, io e qualche altro tentiamo di sfondare la porta con il calcio dei nostri moschetti. Niente. Allora corriamo a prendere una trave di una casa bombardata vicina e finalmente, con un baccano d’inferno la porta viene giù. Entriamo: tutto 59

deserto; ma da un angolo del corridoio si odono strilli disperati: un gruppo di suore si era rifugiato nella cappella ed esse stavano li ammucchiate vicino all’altare; chissà cosa te-mes-se-ro da quella diecina di giovani esasperati. Era buffo vederle, brutte e vecchie come erano, nelle loro tonache nere, con gli occhi sbarrati, pronte e disposte al... martirio. Guaivano come cagne. Tassoni, quel bei tipo, gridò: “Niente datare, sorelle, abbiamo da badare ad altro; ritorneremo quando ci farete trovare le novizie!’ E noi tutti a ridere che si voleva mettere la pancia in terra. E le lasciammo li con la bocca asciutta per andare a far fuoco contro i regi dai terrazzini di sopra.”

Angelica, ancora appoggiata, rideva, mostrando tutti i suoi denti di lupatta. Lo scherzo le sembrava delizioso; quella possibilità di stupro la turbava, la bella gola palpitava. “Che bei tipi dovevate essere! Come avrei voluto trovarmi con voi!”

Tancredi sembrava trasformato: la foga del racconto, la forza del ricordo, entrambe innestate sulla eccitazione che produceva in lui l’aura sensuale della ragazza, lo mutarono un istante da quel giovanotto ammodo che in realtà era in un soldataccio brutale.

“Se ci fosse stata lei, signorina, non avremmo avuto bisogno di aspettare le novizie.”

A casa sua, Angelica, aveva udito molte parole grosse; questa era però la prima volta (e non l’ultima) che si trovava ad esser l’oggetto di un doppio senso lascivo; la novità le piacque, la sua risata salì di tono: si fece stridula.

In quel momento tutti si alzavano da tavola; Tancredi si chinò per raccattare il ventaglio di piume che Angelica aveva lasciato cadere; rialzandosi vide Concetta col volto di brace, con due piccole lagrime sull’orlo delle ciglia: “Tancredi, queste brutte cose si dicono al confessore, non si raccontano alle signorine, a tavola; per lo meno quando ci sono anch’io.” E gli volse le spalle.

Prima di andare a letto Don Fabrizio si fermò un momento sul balconcino dello spogliatoio. Il giardino dormiva sprofondato nell’ombra, sotto; nell’aria inerte gli alberi sembravano di piombo fuso; dal campanile incombente giungeva il sibilo fiabesco dei gufi. Il cielo era sgombro di nuvole: quelle che avevano salutato a sera se ne erano andate chissà dove, verso paesi meno colpevoli nei cui riguardi la collera divina aveva decretato condanna minore. Le stelle apparivano torbide e i loro raggi faticavano a penetrare la coltre di afa.

L’anima di Don Fabrizio si slanciò verso di loro, verso le intangibili, le irraggiungibili, quelle che donano gioia senza poter nulla pretendere in cambio, 60

quelle che non barattano; come tante altre volte fantasticò di poter presto trovarsi in quelle gelide distese, puro intelletto armato di un taccuino per calcoli; per calcoli difficilissimi ma che sarebbero tornati sempre. “Esse sono le sole pure, le sole persone per bene” pensò con le sue formule mondane. “Chi pensa a preoccuparsi della dote delle Pleiadi, della carriera politica di Sirio, delle attitudini all’alcova di Vega?” La giornata era stata cattiva; lo avvertiva adesso non soltanto dalla pressione alla bocca dello stomaco, glielo dicevano anche le stelle: invece di vederle atteggiarsi nei loro usati disegni, ogni volta che alzava gli occhi scorgeva lassù un unico diagramma: due stelle sopra, gli occhi; una sotto, la punta del mento; lo schema beffardo di un volto triangolare che la sua anima proiettava nelle costellazioni quando era sconvolta. Il frack di don Calogero, gli amori di Concetta, l’infatuazione evidente di Tancredi, la propria pusillanimità, financo la minacciosa bellezza di quell’Angelica. Brutte cose, pietruzze in corsa che precedono la frana. E quel Tancredi! aveva ragione, d’accordo, e lo avrebbe anche aiutato; ma non si poteva negare che fosse un tantino ignobile. E lui stesso era come Tancredi. “Basta, dormiamoci su.”

Bendicò nell’ombra gli strisciava il testone sul ginocchio. “Vedi, tu Bendicò, sei un po’ come loro, come le stelle: felicemente incomprensibile, incapace di’

produrre angoscia.” Sollevò la testa del cane quasi invisibile nella notte. “E poi con quei tuoi occhi al medesimo livello del naso, con la tua assenza di mento è impossibile che la tua testa evochi nel cielo spettri maligni.”

Abitudini secolari esigevano che il giorno seguente all’arrivo la famiglia Salinaandasse al Monastero di Santo Spirito a pregare sulla tomba della beata Corbèra,antenata del Principe, che aveva fondato il convento, lo aveva dotato, santamentevi era vissuta e santamente vi era morta.

Il monastero era soggetto ad una rigida regola di clausura e l’ingresso ne era sbarrato agli uomini. Appunto per questo Don Fabrizio era particolarmente lieto di visitarlo, perché per lui, discendente diretto della fondatrice, la esclusione non vigeva e di questo suo privilegio che divideva soltanto col Re di Napoli, era geloso e infantilmente fiero.

Questa facoltà di canonica prepotenza era la causa principale ma non l’unica della sua predilezione per Santo Spirito. In quel luogo tutto gli piaceva, cominciando dall’umiltà del parlatorio rozzo con la sua volta a botte centrata dal Gattopardo, con le duplici grate per le conversazioni, con la piccola ruota di legno per fare entrare e uscire i messaggi, con la porta ben squadrata che il Re e lui, 61

soli maschi nel mondo, potevano lecitamente varcare. Gli piaceva l’aspetto delle suore con la loro larga bavetta di candidissimo lino a piegoline minute spiccante sulla rude tonaca nera; si edificava nel sentir raccontare per la ventesima volta dalla Badessa gli ingenui miracoli della Beata, nel vedere com’essa gli additasse l’angolo del giardino malinconico dove la santa monaca aveva sospeso nell’aria un grosso sasso che il Demonio, innervosito dalla di lei austerità, le aveva scagliato addosso; si stupiva sempre vedendo incorniciate sulla parete di una cella le due lettere famose e indecifrabili, quella che la Beata Corbèra aveva scritto al Diavolo per esortarlo al bene e la risposta di lui che esprimeva, pare, il rammarico di non poter obbedirle; gli piacevano i mandorlati che le monache confezionavano su ricette centenarie, gli piaceva ascoltare l’Uffizio nel coro, ed era financo contento di versare a quella comunità una parte non trascurabile del proprio reddito, così come voleva l’atto di fondazione.

Quella mattina quindi non vi era che gente contenta nelle due vetture che si dirigevano verso il monastero, appena fuori del paese. Nella prima stavano il Principe con la Principessa e le figlie Carolina e Concetta; nella seconda Tancredi, la figlia Caterina e Padre Pirrone i quali, beninteso, si sarebbero fermati extra muros ed avrebbero atteso nel parlatorio durante la visita, confortati dai mandorlati che sarebbero apparsi attraverso la ruota. Concetta appariva un po’

distratta ma serena, e il Principe volle sperare che le fanfaluche di ieri fossero passate.

L’ingresso in un convento di clausura non è cosa breve, anche per chi possegga il più sacro dei diritti. Le religiose tengono a far mostra di una certa riluttanza, formale sì ma prolungata, che del resto conferisce maggiore sapore alla già scontata ammissione; benché la visita fosse attesa si dovette quindi aspettare un bei po’ nel parlatorio. Fu verso la fine di quest’attesa che Tancredi improvvisamente disse al Principe: “Zio, non potresti fare entrare anche me?

Dopo tutto sono per metà Salina, e qui non ci sono stato mai.” Il Principe fu in fondo lieto della richiesta, ma scosse risolutamente il capo. “Ma, figlio mio, lo sai: io solo posso entrare qui; per gli altri è impossibile.” Non era però facile smontare Tancredi: “Scusa, zione; ho riletto stamane l’atto di fondazione in biblioteca:

‘potrà entrare il Principe di Salina e insieme a lui due gentiluomini del suo seguito se la Badessa lo permetterà.’ Farò il gentiluomo al tuo seguito, farò il tuo scudiere, farò quel che vorrai. Chiedilo alla Badessa, tè ne prego.” Parlava con inconsueto calore; voleva forse far dimenticare a qualcuno gl’inconsiderati 62

discorsi della sera prima. Don Fabrizio era lusingato: “Se ci tieni tanto, caro, vedrò...” Ma Concetta col suo sorriso più dolce si rivolse al cugino: “Tancredi, passando abbiamo visto una trave per terra, davanti la casa di Ginestra. Vai a prenderla, farai più presto a entrare.” L’occhio azzurro di Tancredi s’incupì ed il volto gli divenne rosso come un papavero, non si sa se per vergogna o ira; voleva dire qualcosa a Don Fabrizio sorpreso, ma Concetta intervenne di nuovo, con voce cattiva adesso, e senza sorriso. “Lascia stare, papa, lui scherza; in un convento almeno c’è stato, e gli deve bastare; in questo nostro non è giusto che entri.”

Con fragore di chiavistelli tirati la porta si apriva. Entrò nel parlatorio afoso la frescura del chiostro insieme al parlottare delle monache schierate. Era troppo tardi per trattare, e Tancredi rimase a passeggiare davanti al convento, sotto il cielo infuocato.

La visita riuscì a perfezione. Don Fabrizio, per amor di quiete, aveva fatto a meno di chiedere a Concetta il significato delle sue parole; doveva trattarsi senza dubbio di una delle solite ragazzate fra cugini; ad ogni modo il bisticcio fra i due giovani allontanava seccature, conversazioni, decisioni da prendere, quindi era stato il benvenuto. Su queste premesse la tomba della Beata Corbèra fu da tutti venerata con compunzione, il caffè leggero delle monache bevuto con tolleranza e i mandorlati rosa e verdognoli sgranocchiati con soddisfazione; la Principessa ispezionò il guardaroba, Concetta parlò alle monache con la consueta ritegnosa bontà, lui, il Principe, lasciò sul tavolo del refettorio le venti “onze” che offriva ogni volta. È vero che all’uscita Padre Pirrone venne trovato solo; ma poiché disse che Tancredi era andato via a piedi essendosi ricordato di una lettera urgente da scrivere, nessuno vi fece caso.

Ritornato a palazzo il Principe salì nella libreria che era proprio al centro della facciata sotto all’orologio e al parafulmine. Dal grande balcone chiuso contro l’afa si vedeva la piazza di Donnafugata: vasta, ombreggiata dai platani polverosi. Le case di fronte ostentavano alcune facciate disegnate con brio da un architetto paesano; rustici mostri in pietra tenera, levigati dagli anni, reggevano contorcendosi i balconcini troppo piccoli; altre case, fra cui quella di Don Calogero, si ammantavano dietro pudiche facciatine Impero.

Don Fabrizio passeggiava su e giù per l’immensa stanza; ogni tanto, al passaggio, gettava un’occhiata sulla piazza: su una delle panchine da lui stesso donate al comune tre vecchietti si arrostivano al sole; una diecina di monelli 63

s’inseguivano brandendo spadoni di legno; quattro muli erano attaccati a un albero. Sotto l’infuriare del solleone lo spettacolo non poteva essere più paesano.

A uno dei suoi passaggi davanti alla finestra, però, il suo sguardo fu attratto da una figura nettamente cittadina: eretta, smilza, ben vestita. Aguzzò gli occhi: era Tancredi; lo riconobbe, benché fosse un po’ lontano, dalle spalle cascanti, dal vitino ben racchiuso nella redingote. Aveva cambiato abito: non era più in marrone come a Santo Spirito ma in blu di Prussia il “colore della mia seduzione”

come diceva lui stesso. Teneva in mano una canna dal pomo smaltato (doveva essere quella con il Liocorno dei Falconeri ed il motto Semper purus) e camminava leggero come un gatto, come qualcuno che tema d’impolverarsi le scarpe. A dieci passi indietro lo seguiva un domestico che reggeva una cesta infiocchettata contenente una diecina di pesche gialline con le guancette rosse.

Are sens