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disegnato

dall’avambraccio, dal gomito, dalle dita, dal guanto bianco pendente venne trovato squisito da Tancredi e disgustoso da Concetta. Il giovane, pur continuando ad ammirare, narrava la guerra facendo apparire tutto lieve e senza importanza: la marcia notturna su Gibilrossa, la scenata fra Bixio e La Masa, l’assalto a porta di Termini. “Io non avevo ancora questo impiastro sull’occhio e mi son divertito un mondo, signorina, mi creda. Le più grandi risate le abbiamo fatte la sera del 28 Maggio, pochi minuti prima che io fossi ferito. Il Generale aveva bisogno di avere un posto di vedetta in cima al Monastero dell’Origliene: picchia, picchia, impreca, nessuno apre; era un convento di clausura. Tassoni, Aldrighetti, io e qualche altro tentiamo di sfondare la porta con il calcio dei nostri moschetti. Niente. Allora corriamo a prendere una trave di una casa bombardata vicina e finalmente, con un baccano d’inferno la porta viene giù. Entriamo: tutto 59

deserto; ma da un angolo del corridoio si odono strilli disperati: un gruppo di suore si era rifugiato nella cappella ed esse stavano li ammucchiate vicino all’altare; chissà cosa te-mes-se-ro da quella diecina di giovani esasperati. Era buffo vederle, brutte e vecchie come erano, nelle loro tonache nere, con gli occhi sbarrati, pronte e disposte al... martirio. Guaivano come cagne. Tassoni, quel bei tipo, gridò: “Niente datare, sorelle, abbiamo da badare ad altro; ritorneremo quando ci farete trovare le novizie!’ E noi tutti a ridere che si voleva mettere la pancia in terra. E le lasciammo li con la bocca asciutta per andare a far fuoco contro i regi dai terrazzini di sopra.”

Angelica, ancora appoggiata, rideva, mostrando tutti i suoi denti di lupatta. Lo scherzo le sembrava delizioso; quella possibilità di stupro la turbava, la bella gola palpitava. “Che bei tipi dovevate essere! Come avrei voluto trovarmi con voi!”

Tancredi sembrava trasformato: la foga del racconto, la forza del ricordo, entrambe innestate sulla eccitazione che produceva in lui l’aura sensuale della ragazza, lo mutarono un istante da quel giovanotto ammodo che in realtà era in un soldataccio brutale.

“Se ci fosse stata lei, signorina, non avremmo avuto bisogno di aspettare le novizie.”

A casa sua, Angelica, aveva udito molte parole grosse; questa era però la prima volta (e non l’ultima) che si trovava ad esser l’oggetto di un doppio senso lascivo; la novità le piacque, la sua risata salì di tono: si fece stridula.

In quel momento tutti si alzavano da tavola; Tancredi si chinò per raccattare il ventaglio di piume che Angelica aveva lasciato cadere; rialzandosi vide Concetta col volto di brace, con due piccole lagrime sull’orlo delle ciglia: “Tancredi, queste brutte cose si dicono al confessore, non si raccontano alle signorine, a tavola; per lo meno quando ci sono anch’io.” E gli volse le spalle.

Prima di andare a letto Don Fabrizio si fermò un momento sul balconcino dello spogliatoio. Il giardino dormiva sprofondato nell’ombra, sotto; nell’aria inerte gli alberi sembravano di piombo fuso; dal campanile incombente giungeva il sibilo fiabesco dei gufi. Il cielo era sgombro di nuvole: quelle che avevano salutato a sera se ne erano andate chissà dove, verso paesi meno colpevoli nei cui riguardi la collera divina aveva decretato condanna minore. Le stelle apparivano torbide e i loro raggi faticavano a penetrare la coltre di afa.

L’anima di Don Fabrizio si slanciò verso di loro, verso le intangibili, le irraggiungibili, quelle che donano gioia senza poter nulla pretendere in cambio, 60

quelle che non barattano; come tante altre volte fantasticò di poter presto trovarsi in quelle gelide distese, puro intelletto armato di un taccuino per calcoli; per calcoli difficilissimi ma che sarebbero tornati sempre. “Esse sono le sole pure, le sole persone per bene” pensò con le sue formule mondane. “Chi pensa a preoccuparsi della dote delle Pleiadi, della carriera politica di Sirio, delle attitudini all’alcova di Vega?” La giornata era stata cattiva; lo avvertiva adesso non soltanto dalla pressione alla bocca dello stomaco, glielo dicevano anche le stelle: invece di vederle atteggiarsi nei loro usati disegni, ogni volta che alzava gli occhi scorgeva lassù un unico diagramma: due stelle sopra, gli occhi; una sotto, la punta del mento; lo schema beffardo di un volto triangolare che la sua anima proiettava nelle costellazioni quando era sconvolta. Il frack di don Calogero, gli amori di Concetta, l’infatuazione evidente di Tancredi, la propria pusillanimità, financo la minacciosa bellezza di quell’Angelica. Brutte cose, pietruzze in corsa che precedono la frana. E quel Tancredi! aveva ragione, d’accordo, e lo avrebbe anche aiutato; ma non si poteva negare che fosse un tantino ignobile. E lui stesso era come Tancredi. “Basta, dormiamoci su.”

Bendicò nell’ombra gli strisciava il testone sul ginocchio. “Vedi, tu Bendicò, sei un po’ come loro, come le stelle: felicemente incomprensibile, incapace di’

produrre angoscia.” Sollevò la testa del cane quasi invisibile nella notte. “E poi con quei tuoi occhi al medesimo livello del naso, con la tua assenza di mento è impossibile che la tua testa evochi nel cielo spettri maligni.”

Abitudini secolari esigevano che il giorno seguente all’arrivo la famiglia Salinaandasse al Monastero di Santo Spirito a pregare sulla tomba della beata Corbèra,antenata del Principe, che aveva fondato il convento, lo aveva dotato, santamentevi era vissuta e santamente vi era morta.

Il monastero era soggetto ad una rigida regola di clausura e l’ingresso ne era sbarrato agli uomini. Appunto per questo Don Fabrizio era particolarmente lieto di visitarlo, perché per lui, discendente diretto della fondatrice, la esclusione non vigeva e di questo suo privilegio che divideva soltanto col Re di Napoli, era geloso e infantilmente fiero.

Questa facoltà di canonica prepotenza era la causa principale ma non l’unica della sua predilezione per Santo Spirito. In quel luogo tutto gli piaceva, cominciando dall’umiltà del parlatorio rozzo con la sua volta a botte centrata dal Gattopardo, con le duplici grate per le conversazioni, con la piccola ruota di legno per fare entrare e uscire i messaggi, con la porta ben squadrata che il Re e lui, 61

soli maschi nel mondo, potevano lecitamente varcare. Gli piaceva l’aspetto delle suore con la loro larga bavetta di candidissimo lino a piegoline minute spiccante sulla rude tonaca nera; si edificava nel sentir raccontare per la ventesima volta dalla Badessa gli ingenui miracoli della Beata, nel vedere com’essa gli additasse l’angolo del giardino malinconico dove la santa monaca aveva sospeso nell’aria un grosso sasso che il Demonio, innervosito dalla di lei austerità, le aveva scagliato addosso; si stupiva sempre vedendo incorniciate sulla parete di una cella le due lettere famose e indecifrabili, quella che la Beata Corbèra aveva scritto al Diavolo per esortarlo al bene e la risposta di lui che esprimeva, pare, il rammarico di non poter obbedirle; gli piacevano i mandorlati che le monache confezionavano su ricette centenarie, gli piaceva ascoltare l’Uffizio nel coro, ed era financo contento di versare a quella comunità una parte non trascurabile del proprio reddito, così come voleva l’atto di fondazione.

Quella mattina quindi non vi era che gente contenta nelle due vetture che si dirigevano verso il monastero, appena fuori del paese. Nella prima stavano il Principe con la Principessa e le figlie Carolina e Concetta; nella seconda Tancredi, la figlia Caterina e Padre Pirrone i quali, beninteso, si sarebbero fermati extra muros ed avrebbero atteso nel parlatorio durante la visita, confortati dai mandorlati che sarebbero apparsi attraverso la ruota. Concetta appariva un po’

distratta ma serena, e il Principe volle sperare che le fanfaluche di ieri fossero passate.

L’ingresso in un convento di clausura non è cosa breve, anche per chi possegga il più sacro dei diritti. Le religiose tengono a far mostra di una certa riluttanza, formale sì ma prolungata, che del resto conferisce maggiore sapore alla già scontata ammissione; benché la visita fosse attesa si dovette quindi aspettare un bei po’ nel parlatorio. Fu verso la fine di quest’attesa che Tancredi improvvisamente disse al Principe: “Zio, non potresti fare entrare anche me?

Dopo tutto sono per metà Salina, e qui non ci sono stato mai.” Il Principe fu in fondo lieto della richiesta, ma scosse risolutamente il capo. “Ma, figlio mio, lo sai: io solo posso entrare qui; per gli altri è impossibile.” Non era però facile smontare Tancredi: “Scusa, zione; ho riletto stamane l’atto di fondazione in biblioteca:

‘potrà entrare il Principe di Salina e insieme a lui due gentiluomini del suo seguito se la Badessa lo permetterà.’ Farò il gentiluomo al tuo seguito, farò il tuo scudiere, farò quel che vorrai. Chiedilo alla Badessa, tè ne prego.” Parlava con inconsueto calore; voleva forse far dimenticare a qualcuno gl’inconsiderati 62

discorsi della sera prima. Don Fabrizio era lusingato: “Se ci tieni tanto, caro, vedrò...” Ma Concetta col suo sorriso più dolce si rivolse al cugino: “Tancredi, passando abbiamo visto una trave per terra, davanti la casa di Ginestra. Vai a prenderla, farai più presto a entrare.” L’occhio azzurro di Tancredi s’incupì ed il volto gli divenne rosso come un papavero, non si sa se per vergogna o ira; voleva dire qualcosa a Don Fabrizio sorpreso, ma Concetta intervenne di nuovo, con voce cattiva adesso, e senza sorriso. “Lascia stare, papa, lui scherza; in un convento almeno c’è stato, e gli deve bastare; in questo nostro non è giusto che entri.”

Con fragore di chiavistelli tirati la porta si apriva. Entrò nel parlatorio afoso la frescura del chiostro insieme al parlottare delle monache schierate. Era troppo tardi per trattare, e Tancredi rimase a passeggiare davanti al convento, sotto il cielo infuocato.

La visita riuscì a perfezione. Don Fabrizio, per amor di quiete, aveva fatto a meno di chiedere a Concetta il significato delle sue parole; doveva trattarsi senza dubbio di una delle solite ragazzate fra cugini; ad ogni modo il bisticcio fra i due giovani allontanava seccature, conversazioni, decisioni da prendere, quindi era stato il benvenuto. Su queste premesse la tomba della Beata Corbèra fu da tutti venerata con compunzione, il caffè leggero delle monache bevuto con tolleranza e i mandorlati rosa e verdognoli sgranocchiati con soddisfazione; la Principessa ispezionò il guardaroba, Concetta parlò alle monache con la consueta ritegnosa bontà, lui, il Principe, lasciò sul tavolo del refettorio le venti “onze” che offriva ogni volta. È vero che all’uscita Padre Pirrone venne trovato solo; ma poiché disse che Tancredi era andato via a piedi essendosi ricordato di una lettera urgente da scrivere, nessuno vi fece caso.

Ritornato a palazzo il Principe salì nella libreria che era proprio al centro della facciata sotto all’orologio e al parafulmine. Dal grande balcone chiuso contro l’afa si vedeva la piazza di Donnafugata: vasta, ombreggiata dai platani polverosi. Le case di fronte ostentavano alcune facciate disegnate con brio da un architetto paesano; rustici mostri in pietra tenera, levigati dagli anni, reggevano contorcendosi i balconcini troppo piccoli; altre case, fra cui quella di Don Calogero, si ammantavano dietro pudiche facciatine Impero.

Don Fabrizio passeggiava su e giù per l’immensa stanza; ogni tanto, al passaggio, gettava un’occhiata sulla piazza: su una delle panchine da lui stesso donate al comune tre vecchietti si arrostivano al sole; una diecina di monelli 63

s’inseguivano brandendo spadoni di legno; quattro muli erano attaccati a un albero. Sotto l’infuriare del solleone lo spettacolo non poteva essere più paesano.

A uno dei suoi passaggi davanti alla finestra, però, il suo sguardo fu attratto da una figura nettamente cittadina: eretta, smilza, ben vestita. Aguzzò gli occhi: era Tancredi; lo riconobbe, benché fosse un po’ lontano, dalle spalle cascanti, dal vitino ben racchiuso nella redingote. Aveva cambiato abito: non era più in marrone come a Santo Spirito ma in blu di Prussia il “colore della mia seduzione”

come diceva lui stesso. Teneva in mano una canna dal pomo smaltato (doveva essere quella con il Liocorno dei Falconeri ed il motto Semper purus) e camminava leggero come un gatto, come qualcuno che tema d’impolverarsi le scarpe. A dieci passi indietro lo seguiva un domestico che reggeva una cesta infiocchettata contenente una diecina di pesche gialline con le guancette rosse.

Scansò un monello, evitò con cura una pisciata di mulo. Raggiunse la porta di casa Sedàra.

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PARTE TERZA

Ottobre 1860

La pioggia era venuta, la pioggia era andata via; ed il sole era risalito sul trono come un re assoluto che, allontanato per una settimana dalle barricate dei sudditi, ritorna a regnare iracondo ma raffrenato da carte costituzionali. Il calore ristorava senza ardere, la luce era autoritaria ma lasciava sopravvivere i colori, e dalla terra rispuntavano trifogli e mentucce cautelose, sui volti diffidenti speranze.

Don Fabrizio insieme a Teresina ed Arguto, cani, e a don Ciccio Tumeo, seguace, passava lunghe ore a caccia, dall’alba al pomeriggio. La fatica era fuori d’ogni proporzione con i risultati, perché anche ai più esperti tiratori riesce difficile colpire un bersaglio che non c’è quasi mai, ed era molto se il Principe rincasando poteva far penare in cucina un paio di pernici così come don Ciccio si reputava fortunato se a sera poteva sbattere sul tavolo un coniglio selvatico, il quale del resto veniva ipso facto promosso al grado di lepre, come si usa da noi.

Un’abbondanza di bottino sarebbe stata d’altronde per il Principe un piaceresecondario; il diletto dei giorni di caccia era altrove, suddiviso in molti episodiminuti. Cominciava con la rasatura nella camera ancora buia, al lume di unacandela che rendeva enfatici i gesti sul soffitto dalle architetture dipinte; si acuivanel traversare i saloni addormentati, nello scansare alla luce traballante i tavoli conle carte da gioco in disordine fra gettoni e bicchierini vuoti, e nello scorgere fra esseil cavallo di spade che gli rivolgeva un augurio virile; nel percorrere il giardinoimmoto sotto la luce grigia nel quale gli uccelli più mattinieri si strizzavano per farsaltar via la rugiada dalle penne; nello sgusciare attraverso la porticina impeditadall’edera; nel fuggire, insomma; e poi sulla strada, innocentissima ancora ai primialbori, ritrovava don Ciccio sorridente fra i baffi ingialliti mentre sacramentavaaffettuoso contro i cani; a questi, nell’attesa, fremevano i muscoli sotto il velluto delpelo. Venere brillava, chicco d’uva sbucciato, trasparente e umido, e di giàsembrava di udire il rombo del carro solare che saliva l’erta sotto l’orizzonte; prestos’incontravano le prime greggi che avanzavano torpide come maree, guidate asassate dai pastori calzati di pelli; le lane erano rese morbide e rosee dai primi 65

raggi; poi bisognava dirimere oscuri litigi di precedenza fra i cani da mandria e ibracchi puntigliosi, e dopo quest’intermezzo assordante si svoltava su per unpendio e ci si trovava nell’immemoriale silenzio della Sicilia pastorale. Si era subitolontani da tutto, nello spazio e ancor più nel tempo. Donnafugata con il suo palazzoe i suoi nuovi ricchi era appena a due miglia ma sembrava sbiadita nel ricordocome quei paesaggi che talvolta s’intravedono allo sbocco lontano di una galleriaferroviaria; le sue pene e il suo lusso apparivano ancor più insignificanti che sefossero appartenuti al passato, perché rispetto all’immutabilità di queste contradefuori di mano sembravano far parte del futuro, esser ricavati non dalla pietra edalla carne ma dalla stoffa di un sognato avvenire, estratte da una Utopiavagheggiata da un Plafone rustico e che per un qualsiasi minimo accidente avrebbeanche potuto conformarsi in fogge del tutto diverse o addirittura non essere;sprovviste così anche di quel tanto di carica energetica che ogni cosa passatacontinua a possedere, non potevano più recar fastidio.

Don Fabrizio ne aveva avuto parecchi di fastidi in questi due ultimi mesi: erano sbucati da tutte le parti come formiche all’arrembaggio di una lucertola morta.

Alcuni erano spuntati fuori dai crepacci della situazione politica; altri gli erano stati buttati addosso dalle passioni altrui; altri ancora (ed erano i più mordaci) erano germogliati dal suo proprio interno, cioè dalle irrazionali reazioni sue alla politica ed ai capricci del prossimo (capricci chiamava, quando era irritato, ciò che da calmo designava come passioni); e questi fastidi se li passava in rivista ogni giorno, li faceva manovrare, comporsi in colonna o spiegarsi in fila sulla piazza d’armi della propria coscienza sperando di scorgere nelle loro evoluzioni un qualsiasi senso di finalità che potesse rassicurarlo; e non ci riusciva. Gli anni scorsi le seccature erano in numero minore e ad ogni modo il soggiorno a Donnafugata costituiva un periodo di riposo: i crucci lasciavano cadere il fucile, si disperdevano fra le anfrattuosità delle valli e stavano tanto tranquilli, intenti a mangiare pane e formaggio, che si dimenticava la bellicosità delle loro uniformi e potevano esser presi per bifolchi inoffensivi. Quest’anno invece, come truppe ammutinate che vociassero brandendo le armi, erano rimasti adunati e, a casa sua, gli suscitavano lo sgomento di un colonnello che abbia detto: “Fate rompere le righe!” e che dopo vede il reggimento più serrato e minaccioso che mai.

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