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“zappone” e dai molti giorni di ozio coatto ed affamato. Scaracchiavano e sputavano spesso ma tacevano; tanto tacevano che dovette essere allora (come 75

disse poi Don Fabrizio) che le “facce forestiere” decisero di anteporre, fra le arti del Quadrivio, la Matematica alla Rettorica.

Verso le quattro del pomeriggio il Principe si era recato a votare fiancheggiato a destra da Padre Pirrone, a sinistra da don Onofrio Rotolo; accigliato e pelli-chiaro procedeva cauto verso il Municipio e spesso con le mani si proteggeva gli occhi per impedire che quel ventaccio, carico di tutte le schifezze raccolte per via, gli cagionasse quella congiuntivite cui era soggetto; e andava dicendo a Padre Pirrone che senza vento l’aria sarebbe stata come uno stagno putrido ma che, anche, le ventate risanatrici trascinavano con sé molte porcherie. Portava la stessa redingote nera con la quale tre anni fa, si era recato a Caserta per ossequiare quel povero Re Ferdinando che, per fortuna sua, era morto a tempo per non esser presente in questa giornata flagellata da un vento impuro durante la quale si poneva il suggello alla sua insipienza. Ma era poi stata insipienza davvero? Allora tanto vale dire che chi soccombe al tifo muore per insipienza.

Ricordò quel Re affaccendato a dare corso a fiumi di cartacce inutili ed ad un tratto si avvide quanto inconscio appello alla misericordia si fosse manifestato in quel volto antipatico. Questi pensieri erano sgradevoli come tutti quelli che ci fanno comprendere le cose troppo tardi e l’aspetto del Principe, la sua figura, divennero tanto solenni e neri che sembrava seguisse un carro funebre invisibile.

Soltanto la violenza con la quale i ciottolini della strada venivano schizzati via dall’urto rabbioso dei piedi rivelava i conflitti interni; è superfluo dire che il nastro della sua tuba era vergine di qualsiasi cartello ma agli occhi di chi lo conoscesse un “si” e un “no” alternati s’inseguivano sulla lucentezza del feltro.

Giunto in un locale del Municipio dove era il luogo di votazione fu sorpreso vedendo come tutti i membri del seggio si alzarono quando la sua statura riempi intera l’altezza della porta; vennero messi da parte alcuni contadini arrivati prima e che volevano votare e così, senza dover aspettare, Don Fabrizio consegnò il proprio “sì” nelle patriottiche mani del sindaco Sedàra. Padre Pirrone invece non votò affatto perché era stato attento a non farsi iscrivere come residente nel paese. Don ‘Nofrio, lui, obbedendo agli ordini del Principe, manifestò la propria monosillabica opinione sulla complicata quistione italiana, capolavoro di concisione che venne compiuto con la medesima buona grazia con la quale un bambino beve l’olio di ricino.

Dopo di che tutti furono invitati a “prendere un bicchierino” su, nello studio del sindaco; ma Padre Pirrone e don ‘Nofrio misero avanti buone ragioni di astinenza 76

l’uno, di mal di pancia l’altro e rimasero abbasso. Don Fabrizio dovette affrontare il rinfresco da solo.

Dietro la scrivania di don Calogero fiammeggiava una oleografia di Garibaldi e (di già) una di Vittorio Emanuele, fortunatamente collocata a destra; bell’uomo il primo, bruttissimo il secondo affratellati però dal prodigioso rigoglio del loro pelame che quasi li mascherava. Su un tavolinetto vi era un piatto con biscotti anzianissimi che defecazioni di mosche listavano a lutto e dodici bicchierini tozzi colmi di rosolio: quattro rossi, quattro verdi, quattro bianchi: questi, in centro; ingenua simbolizzazione della nuova bandiera che venò di un sorriso il rimorso del Principe che scelse per sé il liquore bianco perché presumibilmente meno indigesto e non, come si volle dire, come tardivo omaggio al vessillo borbonico. Le tre varietà di rosolio erano del resto egualmente zuccherose, attaccaticce e disgustevoli. Si ebbe il buon gusto di non brindare e comunque, come disse don Calogero, le grandi gioie sono mute. Venne mostrata a Don Fabrizio una lettera delle autorità di Girgenti che annunziava ai laboriosi cittadini di Donnafugata la concessione di un contributo di duemila lire per la fognatura, opera che sarebbe stata completata entro, il 1961, come assicurò il Sindaco, inciampando in uno di quei lapsus dei quali Freud doveva spiegare il meccanismo molti decenni dopo; e la riunione si sciolse.

Prima del tramonto le tre o quattro bagascette di Donnafugata (ve ne erano anche lì non raggruppate ma operose nelle loro aziende private) comparvero in piazza col crine adorno di nastrini tricolori per protestare contro l’esclusione delle donne dal voto; le poverine vennero beffeggiate via anche dai più accesi liberali e furono costrette a rintanarsi. Questo non impedì che il “Giornale di Trinacria”

quattro giorni dopo facesse sapere ai Palermitani che a Donnafugata “alcune gentili rappresentanti del bei sesso hanno voluto manifestare la propria fede inconcussa nei nuovi fulgidi destini della Patria amatissima, ed hanno sfilato nella piazza fra il generale consenso di quella patriottica popolazione.”

Dopo il seggio elettorale venne chiuso, gli scrutatori si posero all’opera ed a notte fatta venne spalancato il balcone centrale del Municipio e don Calogero si rese visibile con panciera tricolore e tutto, fiancheggiato da due ragazzini con candelabri accesi che peraltro il vento spense senza indugio. Alla folla invisibile nelle tenebre annunzio che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati: Iscritti 515; votanti 512; “si” 512; “no” zero.

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Dal fondo oscuro della piazza salirono applausi ed evviva; dal balconcino di casa sua Angelica, insieme alla cameriera funerea, batteva le belle mani rapaci; vennero pronunziati discorsi: aggettivi carichi di superlativi e di consonanti doppie rimbalzarono e si urtavano nel buio da una parete all’altra delle case; nel tuonare dei mortaretti si spedirono messaggi al Re (a quello nuovo) ed al Generale; qualche razzo tricolore si inerpicò dal paese al buio verso il cielo senza stelle; alle otto tutto era finito, e non rimase che l’oscurità come ogni altra sera, da sempre.

Sulla cima di monte Morco, adesso tutto era nitido sotto la gran luce; la cupezza di quella notte però ristagnava ancora in fondo all’anima di Don Fabrizio.

Il suo disagio assumeva forme tanto più penose in quanto più incerte: non era in alcun modo originato dalle grosse questioni delle quali il Plebiscito aveva iniziato la soluzione: i grandi interessi del Regno (delle Due Sicilie), gl’interessi della propria classe, i suoi vantaggi privati uscivano da tutti questi avvenimenti ammaccati ma ancora vitali; date le circostanze non era lecito chiedere di più; il disagio suo non era di natura politica e doveva avere radici più profonde radicate in una di quelle cagioni che chiamiamo irrazionali perché seppellite sotto cumuli d’ignoranza di noi stessi.

L’Italia era nata in quell’accigliata sera a Donnafugata; nata proprio lì in quel paese dimenticato quanto nell’ignavia di Palermo e nelle agitazioni di Napoli; una fata cattiva però della quale non si conosceva il nome doveva esser stata presente; ad ogni modo era nata e bisognava sperare che avrebbe potuto vivere in questa forma: ogni altra sarebbe stata peggiore. D’accordo. Eppure questa persistente inquietudine qualcosa doveva significare; egli sentiva che durante quella troppo asciutta enunciazione di cifre come durante quei troppo enfatici discorsi, qualche cosa, qualcheduno era morto, Dio solo sapeva in quale andito del paese, in quale piega della coscienza popolare.

Il fresco aveva disperso la sonnolenza di don Ciccio, la massiccia imponenza del Principe aveva allontanato i suoi timori; ora a galla della sua coscienza emergeva soltanto il dispetto, inutile certo ma non ignobile. In piedi, parlava in dialetto e gesticolava, pietoso burattino che aveva ridicolmente ragione.

“Io, Eccellenza, avevo votato ‘no’. ‘No’, cento volte ‘no’. Ricordavo quello che mi avevate detto: la necessità, l’inutilità, l’unità, l’opportunità. Avrete ragione voi, ma io di politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo e un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati (e percuoteva sulle sue 78

chiappe gli accurati rattoppi dei pantaloni da caccia) e il beneficio ricevuto non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s’inghiottono la mia opinione, la Masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco! Per una volta che potevo dire quello che pensavo quel succhiasangue di Sedàra mi annulla, fa come se non fossi mai esistito,’ come se fossi niente immischiato con nessuno, io che sono Francesco Tumeo La Manna fu Leonardo, organista della Madre Chiesa di Donnafugata, padrone suo mille volte e che gli ho anche dedicato una mazurka composta da me quando è nata quella...

(e si morse un dito per frenarsi) quella smorfiosa di sua figlia!”

A questo punto la calma discese su Don Fabrizio che finalmente aveva sciolto l’enigma; adesso sapeva chi era stato strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata di vento lercio: una neonata, la buonafede; proprio quella creaturina che più si sarebbe dovuta curare, il cui irrobustimento avrebbe giustificato altri stupidi vandalismi inutili. Il voto negativo di don Ciccio, cinquanta voti simili a Donnafugata, centomila “no” in tutto il Regno non avrebbero mutato nulla al risultato, lo avrebbero anzi reso più significativo, e si sarebbe evitata la storpiatura delle anime. Sei mesi fa si udiva la voce dispotica che diceva: “fai come dico io, o saranno botte.” Adesso si aveva di già l’impressione che la minaccia venisse sostituita dalle parole molli dell’usuraio:

“Ma se hai firmato tu stesso? Non lo vedi? È tanto chiaro! Devi fare come diciamo noi, perché, guarda la cambiale! la tua volontà è uguale alla nostra.”

Don Ciccio tuonava ancora: “Per voi signori è un’altra cosa. Si può essere ingrati per un feudo in più; per un pezzo di pane la riconoscenza è un obbligo. Un altro paio di maniche ancora è per i trafficanti come Sedàra per i quali approfittare è legge di natura. Per noi piccola gente le cose sono come sono. Voi lo sapete, Eccellenza, la buon’anima di mio padre era guardacaccia nel Casino reale di S. Onofrio, già al tempo di Ferdinando IV quando c’erano qui gl’Inglesi. Si faceva vita dura ma l’abito verde reale e la placca d’argento conferivano autorità.

Fu la regina Isabella, la spagnuola, che era duchessa di Calabria allora, a farmi studiare a permettermi di essere quello che sono, Organista della Madre Chiesa, onorato della benevolenza di Vostra Eccellenza; e negli anni di maggior bisogno quando mia madre mandava una supplica a corte, le cinque ‘onze’ di soccorso arrivavano sicure come la morte, perché là a Napoli ci volevano bene, sapevano che eravamo buona gente e sudditi fedeli. Quando il Re veniva erano manacciate sulla spalla di mio padre e: ‘Don Lionà, ne vurria tante come a vuie, fedeli 79

sostegni del Trono e della Persona mia.’ L’aiutante di campo, poi, distribuiva le monete d’oro. Elemosine le chiamano ora, queste generosità di veri Re; lo dicono per non dover darle loro, ma erano giuste ricompense alla devozione. E oggi se questi santi Re e belle Regine guardano dal Cielo che dovrebbero dire? ‘Il figlio di don Leonardo Tumeo ci ha tradito!’ Meno male che in Paradiso si conosce la verità. Lo so, Eccellenza, le persone come voi me lo hanno detto, queste cose da parte dei Reali non significano niente, fanno parte del loro mestiere! Sarà vero, è vero, anzi. Ma le cinque onze d’oro c’erano, è un fatto, e con esse ci si aiutava a campare l’inverno. E ora che potevo riparare il debito, niente. ‘Tu non ci sei’. Il mio ‘no’ diventa un ‘sì’. Ero un ‘fedele suddito’, sono diventato un ‘borbonico schifoso’. Ora tutti Savoiardi sono! ma io i Savoiardi me li mangio col caffè, io!” E

tenendo fra il pollice e l’indice un biscotto fittizio lo inzuppava in una immaginaria tazza.

Don Fabrizio aveva sempre voluto bene a don Ciccio, ma era stato un sentimento nato dalla compassione per ogni persona che da giovane si era creduta destinata all’arte e che da vecchio, accortosi di non possedere talento, continua ad esercitare quella stessa attività su scalini più bassi, con in tasca i propri poveri sogni; e compativa anche la sua contegnosa miseria. Ma adesso provava anche una specie di ammirazione per lui e nel fondo, proprio nel fondo, della sua altera coscienza una voce chiedeva se per caso don Ciccio non si fosse comportato più signorilmente del Principe di Salina; e i Sedàra, tutti questi Sedàra da quello minuscolo che violentava l’aritmetica a Donnafugata a quelli maggiori a Palermo, a Torino,’ non avevano forse commesso un delitto strozzando queste coscienze? Don Fabrizio non poteva saperlo allora, ma una parte della neghittosità, dell’acquiescenza per la quale durante i decenni seguenti si doveva vituperare la gente del Mezzogiorno, ebbe la propria origine nello stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questo popolo si era mai presentata.

Don Ciccio si era sfogato; ora alla sua autentica ma rara personificazione del

“galantuomo austero” subentrava l’altra, assai più frequente e non meno genuina dello “snob.” Perché Tumeo apparteneva alla specie zoologica degli “snob passivi,”

specie adesso ingiustamente vilipesa. Beninteso la parola “snob” era ignota nel 1860 in Sicilia, ma così come prima di Koch esistevano i tubercolotici, così in quella remotissima età esisteva la gente per la quale ubbidire, imitare e soprattutto non far della pena a chi si stima di levatura sociale superiore alla 80

propria, è legge suprema di vita: lo “snob” essendo infatti il contrario dell’invidioso. Allora egli si presentava sotto nomi differenti: era chiamato

“devoto,” “affezionato,” “fedele”; e trascorreva vita felice perché il più fuggevole sorriso di un nobiluomo era sufficiente a riempire di sole una intera sua giornata; e, poiché si profilava accompagnato da quegli appellativi affettuosi, le grazie ristoratrici erano più frequenti di quel che siano adesso. Là cordiale natura snobistica di don Ciccio, dunque, temette di aver recato fastidio a Don Fabrizio e la di lui sollecitudine si affrettava a cercare i mezzi per fugare le ombre accumulatesi per sua colpa, credeva, sul ciglio olimpico del Principe; il mezzo più immediatamente idoneo era quello di proporre di riprendere la caccia; e così fu fatto.

Sorprese durante la loro siesta meridiana alcune sventurate beccacele e un altro coniglio caddero sotto i colpi dei cacciatori, colpi, quel giorno, particolarmente spietati perché tanto Salina quanto Tumeo si compiacevano nell’identificare con don Calogero Sedàra quegli innocenti animali. Gli sparacchia-menti, però, i batuffoli di pelo o di penne che gli spari facevano un istante brillare al sole, non bastavano però quel giorno a rasserenare il Principe; via via che le ore passavano e che il ritorno a Donnafugata si avvicinava, la preoccupazione, il dispetto, l’umiliazione per la imminente conversazione con il plebeo sindaco lo opprimevano, e l’aver chiamato in cuor suo “don Calogero” due beccacce e un coniglio non era servito dopo tutto a nulla; benché fosse già. deciso a inghiottire lo schifosissimo rospo, senti il bisogno di possedere più ampie informazioni sull’avversario o, per meglio dire, di sondare l’opinione della gente riguardo al passo che stava per compiere. Fu così che per la seconda volta in quel giorno don Ciccio venne sorpreso da una domanda a bruciapelo.

“Don Ciccio, statemi a sentire. Voi che vedete tante persone in paese, che cosa si pensa veramente di don Calogero a Donnafugata?”

A Tumeo, in verità, sembrava di aver già espresso con sufficiente chiarezza la propria opinione sul sindaco, e così stava per rispondere quando gli balenarono in mente le vaghe voci che aveva inteso sussurrare circa la dolcezza degli occhi con i quali Don Tancredi contemplava Angelica; ed allora venne assalito dal dispiacere di essersi lasciato trascinare a manifestazioni tribunizie che forse Ruzzavano alle narici del Principe se quel che si assumeva era vero; e ciò mentre in un altro compartimento della sua mente egli si rallegrava di non aver detto 81

nulla di positivo contro Angelica; anzi il lieve dolore che ancora sentiva al suo indice destro gli fece l’effetto di un balsamo.

“Dopo tutto, Eccellenza, don Calogero Sedàra non è peggiore di tanta altra gente venuta su in questi ultimi mesi.” L’elogio era modesto ma fu sufficiente a permettere a Don Fabrizio d’insistere “Perché, vedete, don Ciccio, a me interessa molto di conoscere la verità su don Calogero e la sua famiglia.”

“La verità, Eccellenza, è che don Calogero è molto ricco, e molto influente anche; che è avaro (quando la figlia era in collegio lui e la moglie mangiavano in due un uovo fritto) ma che quando occorre sa spendere; e poiché ogni ‘tari’ speso nel mondo finisce in tasca a qualcheduno è successo che molta gente ora dipende da lui; e poi quando è amico, è amico, bisogna dirlo; la sua terra la da a quattro terraggi e i contadini debbono crepare per pagarlo, ma un mese fa ha prestato cinquanta onze a Pasquale Tripi che lo aveva aiutato nel periodo dello sbarco; e senza interessi, il che è il più grande miracolo che si sia visto da quando Santa Rosalia fece cessare la peste a Palermo. Intelligente come un diavolo, del resto: Vostra Eccellenza avrebbe dovuto vederlo nella primavera scorsa: andava avanti e indietro in tutto il territorio come un pipistrello, in carrozzino, sul mulo, a piedi, pioggia o sereno che fosse; e dove era passato si formavano circoli segreti, si preparava la strada per quelli che dovevano venire. Un castigo di Dio, Eccellenza, un castigo di Dio! E ancora non vediamo che il principio della sua carriera! fra qualche mese sarà deputato a Torino, e fra qualche anno, quando saranno posti in vendita i beni ecclesiastici, pagando quattro soldi, si prenderà i feudi di Marca e di Masciddàro, e diventerà il più gran proprietario della provincia. Questo è don Calogero, Eccellenza, l’uomo nuovo come dev’essere; è peccato però che debba essere così.”

Don Fabrizio ricordò la conversazione di qualche mese prima con Padre Pirrone nell’osservatorio sommerso nel sole; quel che aveva predetto il Gesuita si avverava; ma non era forse una buona tattica quella d’inserirsi nel movimento nuovo e farlo volgere, almeno in parte, a favore di alcuni individui della sua classe? Il fastidio della conversazione vicina con don Calogero diminuì.

“Ma gli altri di casa, don Ciccio, gli altri, come sono veramente?”

“Eccellenza, la moglie di Don Calogero non l’ha vista nessuno da anni, meno di me. Esce soltanto per andare a messa, alla prima messa, quella delle cinque, quando non c’è nessuno. A quell’ora servizio di organo non ce n’è; ma io una volta ho fatto una levataccia apposta per vederla. Donna Bastiana entrò accompagnata 82

dalla cameriera, ed io impedito dal confessionale dietro il quale mi ero nascosto, non riuscivo a vedere molto; ma alla fine del servizio il caldo fu più forte della povera donna ed essa scartò il velo nero. Parola d’onore, Eccellenza, essa è bella come il sole! e non si può dar torto a don Calogero se, scarafaggio come è lui, se la vuoi tenere lontana dagli altri. Però anche dalle case meglio custodite le notizie finiscono col gocciolare; le serve parlano; e pare che donna Bastiana sia una specie di animale: non sa leggere, non sa scrivere, non conosce l’orologio, quasi non sa parlare: una bellissima giumenta, voluttuosa e rozza; è incapace anche di voler bene alla figlia; buona ad andare a letto e basta.” Don Ciccio che, pupillo di regine e seguace di principi, teneva molto alle proprie semplici maniere che stimava perfette, sorrideva compiaciuto: aveva scoperto il modo di prendersi un po’ di rivincita sull’annientatore della propria personalità. “Del resto” continuava

“non potrebbe essere altrimenti. Lo sapete, Eccellenza, di chi è figlia donna Bastiana?” Voltatesi, si alzò sulla punta dei piedi e con l’indice mostrava un lontano gruppetto di case che sembravano scivolare giù dal dirupo di un colle ed esservi a mala pena inchiodate da un campanile miserabile: un borgo crocifisso.

“È figlia di un vostro affittuario di Runci, Peppe Giunta si chiamava e tanto sudicio, e torvo era che tutti lo chiamavano ‘Peppe ‘Mmerda’. Scusate la parola, Eccellenza.” E, sodisfatto, avvolgeva attorno a un suo dito un orecchio di Teresina. “Due anni dopo la fuga di don Calogero con Bastiana lo hanno trovato morto sulla trazzera che va a Rampinzeri, con dodici ‘lupare’ nella schiena.

Sempre fortunato don Calogero, perché quello stava diventando importuno e prepotente.”

Molte di queste cose erano già note a Don Fabrizio ed erano state passate in bilancio; ma il soprannome del nonno di Angelica non lo conosceva; esso apriva una prospettiva storica profonda, svelava abissi in paragone dei quali don Calogero sembrava un’aiuola da giardino. Senti veramente il terreno mancargli sotto i piedi; come avrebbe fatto Tancredi a mandar giù anche questo? e lui stesso? La sua testa si mise a calcolare quale legame di parentela avrebbe potuto unire il Principe di Salina, zio dello sposo, al nonno della sposa; non ne trovò, non ve n’erano. Angelica era Angelica, un fiore di ragazza, una rosa cui il soprannome del nonno era servito solo da fertilizzante. “Non olet” ripeteva “non olet” anzi “optime foeminam ac contubernium olet.”

“Di tutto mi avete parlato, don Ciccio, di madri selvagge e di nonni fecali, ma non di ciò che mi interessa di più, della signorina Angelica.”

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Il segreto sulle intenzioni matrimoniali di Tancredi, benché ancora embrionali sino a poche ore prima, sarebbe stato certamente divulgato se, per caso, non avesse avuto la fortuna di mimetizzarsi. Senza dubbio erano state notate le frequenti visite del giovane alla casa di don Calogero come pure i suoi sorrisi rapiti; le mille piccole premure, abituali e insignificanti in città, divenivano sintomi di violente brame agli occhi del puritanesimo donnafugasco. Lo scandalo maggiore era stato il primo: i vecchietti che si rosolavano al sole e i ragazzini che duellavano avevano visto tutto, compreso tutto e ripetuto tutto; sui significati ruffianeschi e afrodisiaci di quella dozzina di pesche erano state consultate megere espertissime e libri disvelatori di arcani fra i quali in primo luogo il Rutilio Benincasa, l’Aristotile delle plebi contadine. Per fortuna si era prodotto un fenomeno relativamente frequente da noi: il desiderio di malignare aveva mascherato la verità; tutti si erano costruiti il pupazzo di un Tancredi libertino che aveva fissato la propria lascivia su Angelica e che armeggiasse per sedurla, e basta. Il semplice pensiero di un matrimonio meditato fra un Principe di Falconeri e una nipote di Peppe ‘Mmerda non traversò neppure l’immaginazione di quei villici che rendevano così alle case feudali un omaggio equivalente a quello che il bestemmiatore rende a Dio. La partenza di Tancredi troncò poi queste fantasie e non se ne parlò più. Sotto questo riguardo Tumeo era stato alla pari con gli altri e perciò accolse la domanda del Principe con l’aria divertita di un uomo anziano che parli delle bricconate di un giovanotto.

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