Maggio 1910
Chi andava a far visita alle vecchie signorine Salina trovava quasi sempre almeno un cappello di prete sulle sedie dell’anticamera. Le signorine erano tre, segrete lotte per l’egemonia casalinga le avevano dilaniate, e ciascuna di esse, caratteri forti a proprio modo, desiderava avere un confessore particolare. Come in quell’anno 1910 si usava ancora le confessioni avvenivano in casa e gli scrupoli delle penitenti esigevano che esse fossero frequenti. A quel plotoncino di confessori bisognava aggiungere il cappellano che ogni mattina veniva a celebrare la Messa nella cappella privata, il Gesuita che aveva assunto la direzione spirituale generale della casa, i monaci e i preti che venivano a riscuotere elargizioni per questa o per quella parrocchia od opera pia; e si comprenderà subito come il viavai di sacerdoti fosse incessante e perché l’anticamera di villa Salina ricordasse spesso uno di quei negozi romani intorno a piazza della Minerva che espongono in vetrina tutti i copricapo ecclesiastici immaginabili da quelli color di fiamma dei Cardinali a quelli color tizzone per curati di campagna.
In quel tale pomeriggio di Maggio 1910 l’adunata di cappelli era addirittura senza precedenti. La presenza del Vicario Generale dell’Archidiocesi era attestata dal suo vasto cappello di fine castoro di un delizioso color “fuchsia” adagiato su di una sedia appartata, con accanto un guanto solo, il destro, in seta intrecciata del medesimo delicato colore; quella del suo segretario da una lucente peluche nera a peli lunghi, la calotta del quale era circondata da un sottile cordoncino violetto; quella di due padri gesuiti dai loro cappelli dimessi in feltro tenebroso, simboli di riserbo e modestia. Il copricapo del cappellano giaceva su una sedia isolata come si conviene a quello di persona sottoposta a inchiesta.
La riunione di quel giorno, infatti, non era roba da poco. In esecuzione di disposizioni pontificie il cardinale-arcivescovo aveva iniziato una ispezione agli oratori privati dell’Archidiocesi allo scopo di assicurarsi dei meriti delle persone che avevano l’autorizzazione di farvi officiare, della conformità dell’arredamento e del culto ai canoni della Chiesa, dell’autenticità delle reliquie in esse venerate. La cappella privata delle signorine Salina era la più nota della città e una delle prime 170
che Sua Eminenza si proponeva di visitare; e proprio per predisporre questo avvenimento, fissato per l’indomani mattina, Monsignor Vicario si era recato a villa Salina. Alla Curia Arcivescovile erano pervenute, sgocciolate attraverso chissà quali filtri, voci incresciose in relazione a quella cappella; non certo in rapporto ai meriti delle proprietarie ed al loro diritto di adempiere in casa propria ai loro doveri religiosi; questi erano argomenti fuori discussione, e neppure si poneva in dubbio la regolarità e la continuità del culto, cose che erano quasi perfette se si volesse trascurare una soverchia riluttanza, del resto comprensibile, delle signorine Salina a far partecipare ai riti sacri persone estranee alla loro più intima cerchia familiare. L’attenzione del Cardinale era stata attratta su di una immagine venerata nella cappella e sulle reliquie, sulle diecine di reliquie, esposte: circa l’autenticità di esse erano corse le dicerie più inquietanti e si desiderava che la loro genuinità venisse comprovata. Il cappellano, che pur era un ecclesiastico di buona cultura e di migliori speranze, era stato rimproverato con energia per non aver sufficientemente aperto gli occhi alle vecchie signorine: egli aveva avuto, se è lecito esprimersi così, “una lavata di tonsura.”
La riunione si svolgeva nel salone centrale della villa, quello delle bertucce e dei pappagalli. Su di un divano ricoperto di panno bleu con filettature rosse acquisto di trent’anni prima che stonava malamente con le tinte evanescenti del prezioso parato, sedeva la signorina Concetta con Monsignor Vicario alla destra; ai lati del divano due poltrone simili ad esso avevano accolto la signorina Carolina ed uno dei Gesuiti, padre Corti, mentre la signorina Caterina, che aveva le gambe paralizzate, se ne stava su una seggiolina a rotelle e gli altri ecclesiastici si accontentavano delle sedie ricoperte della medesima seta del parato che allora sembravano a tutti di minor pregio delle invidiate poltrone.
Le tre sorelle erano tutte poco al di qua o poco al di là , della settantina, e Concetta non era la maggiore; ma la lotta egemonica alla quale si è fatto cenno all’inizio essendosi chiusa da tempo con la debellatio delle avversarie, nessuno avrebbe mai pensato a contestarle il rango di padrona di casa. Nella persona di lei emergevano ancora i relitti di una passata bellezza: grassa e imponente nei suoi rigidi abiti di moire nera, portava i capelli bianchissimi rialzati sulla testa in modo da scoprire la fronte quasi indenne; questo, insieme agli occhi sdegnosi e ad una contrazione astiosetta al di sopra del naso, le conferiva un aspetto autoritario e quasi imperiale; a tal punto che un suo nipote, avendo intravisto il ritratto di una zarina illustre in non sapeva più qual libro, la chiamava in privato La Grande 171
Catherine, appellativo sconveniente che, del resto, la totale purezza di vita di Concetta e l’assoluta ignoranza del nipote in fatto di storia russa rendevano, a conti fatti, innocente.
La conversazione durava da un’ora, il caffè era stato preso, e si faceva tardi; Monsignor Vicario riassunse i propri argomenti: “Sua Eminenza paternamente desidera che il culto celebrato in privato sia conforme ai più puri riti di Santa Madre Chiesa ed è proprio per questo che la sua cura pastorale si rivolge fra le prime alla vostra cappella perché egli sa come la vostra casa splenda, faro di luce, sul laicato palermitano, e desidera che dalla ineccepibilità degli oggetti venerati scaturisca maggiore edificazione per voi stesse e per tutte le anime religiose.”
Concetta taceva, ma Carolina, la sorella maggiore, esplose: “Adesso ci dovremo presentare alle nostre conoscenze come delle accusate; questa di una verifica alla nostra cappella è una cosa, scusatemi Monsignore, che non avrebbe dovuto nemmeno passare per la testa di Sua Eminenza.”
Monsignore sorrideva, divertito: “Signorina, Lei non immagina quanto la Sua emozione appaia grata ai miei occhi: essa è l’espressione della fede ingenua, assoluta, graditissima alla Chiesa e, certamente, a Gesù Cristo Nostro Signore; ed è soltanto per più far fiorire questa fede e per purificarla che il Santo Padre ha raccomandato queste revisioni le quali, d’altronde, si vanno compiendo da qualche mese in tutto l’orbe cattolico.”
Il riferirsi al Santo Padre non era a dir vero opportuno. Carolina infatti faceva parte di quelle schiere di cattolici che sono persuasi di possedere le verità religiose più a fondo del Papa; ed alcune moderate innovazioni di Pio Decimo, l’abolizione di alcune secondarie feste di precetto in ispecie, la avevano già prima esasperata. “Questo Papa dovrebbe badare ai fatti propri; farebbe meglio.” Poiché le sorse il dubbio di essere andata troppo oltre, si segnò, mormorò un Gloria Patri.
Concetta intervenne: “Non lasciarti trascinare a dire cose che non pensi, Carolina. Che impressione riporterà di noi Monsignore qui presente?”
Questi, a dir vero, sorrideva più che mai; pensava soltanto che si trovava di fronte a una bambina invecchiata nella ristrettezza di idee e nelle pratiche senza luce. E, benigno, indulgeva.
“Monsignore pensa che si trovi dinanzi a tre sante donne,” disse. Padre Corti, il Gesuita, volle rallentare la tensione. “Io, Monsignore, sono fra quelli che meglio possono confermare le Vostre parole. Padre Pirrone, la cui memoria è venerata da quanti lo hanno conosciuto, mi narrava spesso, quando ero novizio, del santo 172
ambiente nel quale le signorine sono state allevate; del resto il nome di Salina basterebbe a render conto di tutto.”
Monsignore desiderava giungere a fatti concreti: “Piuttosto, signorina Concetta, adesso che tutto è stato chiarito, vorrei visitare, se loro lo permettono, la cappella per poter preparare Sua Eminenza, alle meraviglie di fede che vedrà domattina.”
Ai tempi del Principe Fabrizio nella villa non vi era cappella: tutta la famiglia si recava in chiesa nei giorni di festa ed anche Padre Pirrone per celebrare la propria messa doveva ogni mattina fare un pezzo di strada. Dopo la morte di Don Fabrizio però, quando per varie complicazioni ereditarie che sarebbe fastidioso narrare, la villa divenne esclusiva proprietà delle tre sorelle, esse pensarono subito a metter su il proprio oratorio. Venne scelto un salotto un po’ fuor di mano che, con le sue mezze colonne di finto marmo incastrate nelle pareti destava un tenuissimo ricordo di basilica romana; dal centro del soffitto venne raschiata via una pittura sconvenientemente mitologica e si addobbò un altare. E tutto era fatto.
Quando Monsignore entrò la cappella era illuminata dal sole del pomeriggio calante; e al disopra dell’altare il quadro veneratissimo dalle signorine si trovava in piena luce: era un dipinto nello stile di Cremona e rappresentava una giovinetta esile, assai piacente, gli occhi rivolti al ciclo, i molli capelli bruni sparsi in grazioso disordine sulle spalle seminude; nella destra essa stringeva una lettera spiegazzata; l’espressione sua era di trepida attesa non disgiunta da una certa letizia che le brillava nei candidissimi occhi; nel fondo verdeggiava un mite paesaggio lombardo. Niente Gesù Bambini, ne corone, ne serpenti, ne stelle, nessuno insomma di quei simboli che sogliono accompagnare l’immagine di Maria; il pittore doveva essersi fidato che l’espressione verginale fosse sufficiente a farla riconoscere. Monsignore si avvicinò, sali uno dei gradini dell’altare e, senza essersi segnato, rimase a guardare il quadro per qualche minuto, esprimendo una sorridente ammirazione, come se fosse stato un critico d’arte. Dietro di lui le sorelle si facevano segni della croce e mormoravano delle Ave Maria.
Poi il prelato ridiscese il gradino, si volse: “Una bella pittura” disse, “molto espressiva.”
“Una immagine miracolosa, Monsignore, miracolosissima!” spiegò Caterina la povera inferma, sporgendosi dal suo strumento di tortura ambulante. “Quanti miracoli ha fatto!” Carolina incalzava: “Rappresenta la Madonna della Lettera. La Vergine è sul punto di consegnare la Santa Missiva ed invoca dal Figlio Divino la protezione sul popolo messinese; quella protezione che è stata gloriosamente 173
concessa, come si è visto dai molti miracoli avvenuti in occasione del terremoto di due anni fa.”
“Bella pittura, signorina; qualunque cosa rappresenti è un bei quadro e bisogna tenerlo da conto.” Poi si volse alle reliquie: settantaquattro ve ne erano e coprivano fitte le due parti di parete di fianco all’altare: ciascuna era chiusa in una cornice che conteneva anche un cartiglio con l’indicazione di che cosa fosse e un numero che si riferiva alla documentazione di autenticità. I documenti stessi, spesso voluminosi e gravati di sigilli, erano chiusi in una cassa ricoperta di damasco che stava in un angolo. Vi erano cornici di argento scolpito e di argento liscio, cornici di rame e di corallo, cornici di tartaruga; ve ne erano di filigrana, di legni rari, di bosso, di velluto rosso e di velluto azzurro; grandi e minuscole, ottagonali, quadrate, tonde, ovali; cornici che valevano un patrimonio e cornici comperate ai magazzini Bocconi; tutte amalgamate, per quelle anime devote, ed esaltate dal loro religioso compito di custodi dei soprannaturali tesori.
Carolina era stata la vera creatrice di questa raccolta: aveva scovato donna Rosa, una grassissima vecchia, per metà monaca, che possedeva relazioni fruttuose in tutte le chiese, tutti i conventi e tutte le opere pie di Palermo e dintorni. Era stata questa donna Rosa a portare a villa Salina ogni paio di mesi una reliquia di santi avvolta in carta velina. Era riuscita, diceva, a strapparla ad una parrocchia disagiata o a un casato in decadenza. Se il nome del venditore non era fatto era soltanto a cagione di una comprensibile, anzi encomiabile, discrezione; e d’altronde le prove di autenticità che essa recava e consegnava sempre erano lì chiare come il sole, scritte com’erano in latino o in caratteri misteriosi che venivano detti greci o siriaci. Concetta, amministratrice e tesoriera, pagava. Dopo vi era la ricerca e l’adattamento delle cornici. E di nuovo l’impassibile Concetta pagava. Vi fu un momento, un paio d’anni durò, durante il quale la smania collezionista turbò financo i sonni di Carolina e Caterina; al mattino si raccontavano l’un l’altra i loro sogni di miracolosi ritrovamenti, e speravano si realizzassero come talvolta avveniva dopo che i sogni erano stati confidati a donna Rosa. Quel che sognasse Concetta non lo sapeva nessuno. Poi donna Rosa mori e l’afflusso delle reliquie cessò quasi del tutto; del resto era sopravvenuta una certa sazietà.
Monsignore guardò con una certa fretta alcune delle cornici più a portata di vista. “Tesori” diceva “tesori; che bellezza di cornici.” Poi, congratulandosi dei belli arredi (proprio così disse, dantescamente) e promettendo di ritornare l’indomani 174
con Sua Eminenza (“sì, alle nove precise”), si genuflette e si segnò rivolto a una modesta Madonna di Pompei appesa su una parete laterale, e uscì dalla cappella.
Presto le sedie rimasero vedove di cappelli, e gli ecclesiastici salirono sulle carrozze dell’Arcivescovado che, con i loro cavalli morelli, avevano aspettato in cortile.
Monsignore tenne ad avere nella propria carrozza il cappellano, padre Titta, che da questa distinzione fu molto confortato. Le vetture si mossero e Monsignore taceva, si costeggiò la ricca villa Falconeri, con la “bougainvillea” fiorita che si spandeva oltre il muro del giardino splendidamente curato; quando si giunse alla discesa verso Palermo, fra gli aranceti, Monsignore parlò.
“E così Lei, padre Titta, ha avuto il fegato di celebrare per anni il Santo Sacrificio dinanzi al quadro di quella ragazza? Di quella ragazza che ha ricevuto l’appuntamento ed aspetta l’innamorato. Non venga a dirmi che anche Lei credeva che fosse una immagine sacra.” “Monsignore, sono colpevole, lo so. Ma non è facile affrontare le signorine Salina, la signorina Carolina. Lei questo non può saperlo.” Monsignore rabbrividì al ricordo. “Figliolo, hai toccato la piaga col dito; e questo sarà preso in considerazione.”
Carolina era andata a sfogare la propria ira in una lettera a Chiara, la sorella sposata a Napoli; Caterina, stancata dalla lunga conversazione penosa, era stata posta a letto; Concetta rientrò nella sua camera solitaria. Era una di quelle stanze (sono numerose a tal punto che si potrebbe esser tentati di dire che lo sono tutte) che hanno due volti: uno, quello mascherato, che mostrano al visitatore ignaro; l’altro, quello nudo, che si rivela soltanto a chi sia al corrente delle cose, al loro padrone anzitutto cui si palesano nella propria squallida essenza. Soleggiata era questa camera, e si affacciava sul profondo giardino; in un angolo un alto letto con quattro guanciali (Concetta soffriva del cuore e doveva dormire quasi seduta); niente tappeti ma un bei pavimento bianco con intricate filettature gialle, un monetario prezioso con diecine di cassettini ricoperti di pietra dura e di scagliola; scrivania, tavolo centrale e tutto il mobilio di un brioso stile maggiolino di esecuzione paesana, con figure di cacciatori, di cani, di selvaggina che si affaccendavano ambrate sul fondo di palissandro; arredamento questo che Concetta stessa stimava antiquato e persino di pessimo gusto e che, venduto all’asta che segui la morte di lei, forma oggi l’orgoglio di uno spedizioniere dovizioso quando la “sua signora” offre un cocktail alle amiche invidiose. Sulle pareti ritratti, acquarelli, immagini sacre; tutto pulito, in ordine. Due cose 175
soltanto potevano forse apparire inconsuete: nell’angolo opposto al letto un torreggiare di quattro enormi casse di legno dipinte in verde, ciascuna con un grosso lucchetto; e davanti ad esse, per terra, un mucchietto di pelliccia malandata. Al visitatore ingenuo la cameretta avrebbe, se mai, strappato un sorriso, tanto chiaramente vi si rivelava la bonarietà, la cura di una vecchia zitella.
Per chi conoscesse i fatti, per Concetta, essa era un inferno di memorie mummificate. Le quattro casse verdi contenevano dozzine di camicie da giorno e da notte, di vestaglie, di federe, di lenzuola accuratamente suddivise in “buone” e
“andanti”: il corredo di Concetta invano confezionato cinquanta anni fa; quei chiavistelli non si aprivano mai per timore che saltassero fuori demoni incongrui e sotto l’ubiquitaria umidità palermitana la roba ingialliva, si disfaceva, inutile per sempre e per chiunque. I ritratti erano quelli di morti non più amati, le fotografie quelle di amici che in vita avevano inferto ferite e che per ciò soltanto non erano dimenticati in morte; gli acquarelli mostravano case e luoghi in maggior parte venduti, anzi malamente barattati, da nipoti sciuponi; i santi al muro erano come fantasmi che si temono ma cui in fondo non si crede più. Se si fosse ben guardato nel mucchietto di pelliccia tarlata si sarebbero viste due orecchie erette, un muso di legno nero, due attoniti occhi di vetro giallo: era Bendicò, da quarantacinque anni morto, da quarantacinque anni imbalsamato, nido di ragnatele e di tarme, aborrito dalle persone di servizio che da decenni ne chiedevano l’abbandono all’immondezzaio: ma Concetta vi si opponeva sempre: essa teneva a non distaccarsi dal solo ricordo del suo passato che non le destasse sensazioni penose.
Ma le sensazioni penose di oggi (a una certa età ogni giorno presenta puntuale la propria pena) si riferivano tutte al presente. Assai meno infervorata di Carolina, assai più sensibile di Caterina, Concetta aveva compreso il significato della visita di Monsignor Vicario e ne prevedeva le conseguenze; l’allontanamento ordinato per tutte, o quasi, le reliquie; la sostituzione del quadro sull’altare, l’eventuale necessità di riconsacrare la cappella. All’autenticità di quelle reliquie essa aveva creduto assai poco ed aveva pagato con l’animo indifferente di un padre che salda il conto di giocattoli che a lui stesso non interessano ma che son serviti a tener buoni i ragazzi; la rimozione di quegli oggetti le era indifferente; ciò che la pungeva, ciò che costituiva l’assillo di quel giorno era la brutta figura che casa Salina avrebbe fatto adesso di fronte alle autorità ecclesiastiche e fra poco di 176
fronte alla città intera; la riservatezza della Chiesa era quanto di meglio potesse trovarsi in Sicilia ma ciò non voleva ancora significare molto; fra un mese, fra due, tutto sarebbe dilagato come tutto dilagava in quest’isola che anziché la Trinacria dovrebbe avere a proprio simbolo il siracusano Orecchio di Dionisio che fa rimbombare il più lieve sospiro in un raggio di cinquanta metri. Ed essa alla stima della Chiesa aveva tenuto. Il prestigio del nome in sé stesso era lentamente svanito. Il patrimonio diviso e ridiviso nella migliore ipotesi equivaleva a quello di tanti altri casati inferiori, ed era enormemente inferiore a ciò che possedevano alcuni opulenti industriali; ma nella Chiesa, nei rapporti con essa, i Salina avevano mantenuto la loro preminenza; bisognava vedere come Sua Eminenza riceveva le tre sorelle quando andavano a fargli visita per il Natale! Ma adesso?
Una cameriera entrò. “Eccellenza, sta arrivando la Principessa. L’automobile è nel cortile.” Concetta si alzò, si ravviò i capelli, buttò sulle spalle uno scialle di merletto nero, riassunse lo sguardo imperiale; e giunse in anticamera mentre Angelica saliva gli ultimi gradini della scalinata esterna. Soffriva di vene varicose, e le sue gambe, che sempre erano state un pochino troppo corte, la sostenevano male e veniva su appoggiata al braccio del proprio servitore il cui lungo pastrano nero spazzava, salendo, gli scalini. “Concetta cara!” “Angelica mia! da quanto tempo non ci vediamo!” Dall’ultima visita erano passati soltanto cinque giorni, per esser precisi, ma l’intimità fra le due cugine (intimità simile per vicinanza e per sentimenti a quella che pochissimi anni dopo avrebbe stretto italiani ed austriaci nelle contigue trincee), l’intimità era tale che cinque giorni potevano veramente sembrar molti.
In Angelica che era vicina ai settantenni si scorgevano ancora molti ricordi di bellezza; la malattia che tre anni dopo la avrebbe trasformata in una larva miseranda era già in atto ma se ne stava acquattata nelle profondità del suo sangue; gli occhi verdi erano ancora quelli di un tempo, gli anni li avevano soltanto lievemente appannati e le rughe del collo erano nascoste dai soffici nastri neri della capoto che essa, vedova da tre anni, portava con una civetteria che poteva sembrare nostalgica. “Hai ragione” diceva a Concetta mentre si dirigevano allacciate verso un salotto “hai ragione, ma con queste feste imminenti per il cinquantenario dei Mille non c’è più pace. Tre giorni fa figurati che mi comunicano di avermi chiamato a far parte del Comitato di onore; un omaggio alla memoria del nostro Tancredi, certo, ma quanto da fare per me! Pensare all’alloggio dei superstiti che verranno da ogni parte d’Italia, disporre gli inviti per 177
le tribune senza offendere nessuno; premurarsi a far aderire tutti i sindaci dei comuni dell’isola. A proposito cara, il Sindaco di Salina è un clericale ed ha rifiutato di prender parte alla sfilata; così ho pensato subito a tuo nipote, a Fabrizio: era venuto a farmi visita e tac! lo ho acchiappato; non ha potuto dirmi di no e così alla fine del mese lo vedremo sfilare in palamidone per via Libertà davanti a un bei cartello con tanto di ‘Salina’ a lettere di scatola. Non ti sembra un bei colpo? Un Salina renderà omaggio a Garibaldi, sarà una fusione della vecchia e della nuova Sicilia. Ho pensato anche a tè, cara; ecco il tuo invito per la tribuna di onore, proprio alla destra di quella reale.” E trasse fuori dalla borsetta parigina un cartoncino rosso-garibaldino, dell’identico colore della fascetta di seta che Tancredi per qualche tempo aveva portato al disopra del colletto. “Carolina e Caterina saranno scontente” continuò a dire in modo del tutto arbitrario “ma potevo disporre di un solo posto: del resto tu ne hai più diritto di loro, eri tu la cugina preferita del nostro Tancredi.”
Parlava molto e parlava bene; quaranta anni di vita in comune con Tancredi, coabitazione tempestosa e interrotta ma lunga a sufficienza, avevano cancellato da tempo fin le ultime tracce dell’accento e delle maniere di Donnafugata; essa si era mimetizzata al punto da fare, intrecciandole e storcendole, quel gioco leggiadro di mani che era una delle caratteristiche di Tancredi. Leggeva molto e sul tavolo del suo salotto i più recenti libri di France e di Bourget si alternavano con quelli di D’Annunzio e della Serao; e nei salotti palermitani passava per una specialista dell’architettura dei castelli francesi della Loira dei quali parlava spesso con esaltazione imprecisa contrapponendo, forse inconsciamente, la loro serenità rinascimentale all’irrequietezza barocca del palazzo di Donnafugata contro il quale nutriva un’avversione inspiegabile per chi non avesse conosciuto la di lei infanzia sottomessa e trascurata.
“Ma che testa ho, cara! Dimenticavo di dirti che fra poco verrà qui il senatore Tassoni; è mio ospite a villa Falconeri e desidera conoscerti: era un grande amico del povero Tancredi, un suo compagno d’arme, anche, e pare che abbia sentito parlare di tè da lui. Caro il nostro Tancredi!” Il fazzoletto col sottile bordino nero uscì dalla borsetta, asciugò una lacrima dagli occhi ancor belli.