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Aspettava paziente, sicuro di sé.

Una edizione delle furie di Vicenzino, sia pure riveduta ed espurgata da un Padre Gesuita, si presentava sempre come illeggibile per la infelice Sarina che per la terza volta ricominciò a piangere; a poco a poco i singhiozzi però decrebbero, cessarono. La donna si alzò: “Sia fatta la volontà di Dio: aggiusta tu la cosa, qua non è più vita. Ma quel bei Chìbbaro! Tutto sudore di nostro padre!”

Le lagrime erano sul punto di ricominciare, ma Padre Pirrone era di già andato via.

Celebrato che fu il Divino Sacrifìzio, accettata la tazza di caffè offerta dal Parroco, il Gesuita si diresse di filato alla casa dello zio Turi. Non vi era mai stato ma sapeva che era una poverissima bicocca, proprio in Cima al paese, vicino alla forgia di mastro Ciccu. La trovò subito e dato che non vi pH erano finestre e che la porta era aperta per lasciar entrare un po’ di sole, si fermò sulla soglia: 138

nell’oscurità, dentro, si vedevano accumulati basti per muli, bisacce e sacchi: don Turi tirava avanti facendo il mulattiere, aiutato, adesso, dal figlio.

“Doràzio!” gridò Padre Pirrone. Era una abbreviazione della formula Deo gratias (agamus) che serviva agli ecclesiastici per chiedere il permesso di entrare. La voce di un vecchio gridò: “Chi è?” e un uomo si alzò dal fondo della stanza e si avvicinò alla porta. “Sono vostro nipote, il padre Saverio Pirrone. Vorrei parlarvi, se permettete.”

La sorpresa non fu grande: da due mesi almeno la visita sua o di un suo sostituto doveva essere attesa. Lo zio Turi era un vecchio vigoroso e diritto, cotto e ricotto dal sole e dalla grandine, con sul volto i solchi sinistri che i guai tracciano sulle persone non buone.

“Entra” disse, senza sorridere; gli fece largo ed anche, di malavoglia, l’atto di baciargli la mano. Padre Pirrone sedette su una delle grandi selle di legno.

L’ambiente era quanto mai povero: due galline razzolavano in un cantone e tutto odorava di stereo, di panni bagnati e di miseria cattiva.

“Zio, sono moltissimi anni che non ci vediamo, ma non è stata tutta colpa mia; io non sto in paese, come sapete, e voi del resto non vi fate mai vedere a casa di mia madre, vostra cognata; e questo ci dispiace.” “Io in quella casa i piedi non ce li metterò mai. Mi si rivolta lo stomaco quando vi passo davanti. Turi Pirrone i torti ricevuti non li dimentica, neppure dopo vent’anni.”

“Sicuro, si capisce, sicuro. Ma io oggi vengo come la colombella dell’Arca di Noè, per assicurarvi che il diluvio è finito. Sono molto contento di trovarmi qui e sono stato felice, ieri, quando a casa mi hanno detto che Santino, vostro figlio, si è fidanzato con mia nipote Angelina; sono due buoni ragazzi, così mi dicono, e la loro unione chiuderà il dissidio che esisteva fra le nostre famiglie e che a me, permettetemi di dirlo, è sempre dispiaciuto.”

Il volto di Turi espresse una sorpresa troppo manifesta per non esser finta.

“Non fosse il sacro abito che portate, Padre, vi direi che dite una bugia. Chissà che storielle vi hanno raccontato le femminette di casa vostra. Santino, in vita sua, non ha mai parlato con Angelina; è un figlio troppo rispettoso per andare contro i desideri di suo padre.”

Il Gesuita ammirava l’asciuttezza del vecchio, l’imperturbabilità delle sue menzogne.

“Si vede, zio, che mi avevano informato male; figuratevi che mi avevano anche detto che vi eravate messi d’accordo sulla dote e che oggi voi due sareste venuti a 139

casa per il ‘riconoscimento.’ Che trottole raccontano queste donne sfaccendate!

Però anche se non sono veri questi discorsi dimostrano il desiderio del loro buon cuore. Adesso, zio, è inutile che resti qui: vo subito a casa a rimproverare mia sorella. E scusatemi; sono stato molto contento di avervi trovato in buona salute.”

Il volto del vecchio cominciava a mostrare un qualche avido interessamento.

“Aspettate, Padre. Continuate a farmi ridere con le chiacchiere di casa vostra; e di che dote parlavano quelle pettegole?”

“Che so io, zio! Mi sembra aver sentito nominare la metà di Chìbbaro! ‘Ncilina, dicevano, è la pupilla dei loro occhi e nessun sacrificio sembra esagerato per assicurare la pace nella famiglia.”

Don Turi non rideva più. Si alzò. “Santino!” si mise a berciare con la stessa forza con la quale richiamava i muli incaponiti. E poiché nessuno veniva gridò più forte ancora: “Santino! sangue della Madonna, che fai?” Quando vide Padre Pirrone trasalire si tappò la bocca con un gesto inaspettatamente servile.

Santino stava governando le bestie nel cortiletto attiguo. Entrò intimorito, con la striglia in mano; era un bel ragazzone di ventidue anni, alto ed asciutto come il padre, con gli occhi non ancora inaspriti. Il giorno prima aveva, come tutti, visto Passare il Gesuita per le vie del paese, e lo riconobbe subito.

“Questo è Santino. E questo è tuo cugino il padre Saverio Pirrone. Ringrazia Dio che c’è qui il Reverendissimo, se no ti avrei tagliato le orecchie. Che roba è questo amoreggiare senza che io, che sono tuo padre, lo sappia? I figli nascono per i padri e non per correre dietro alle sottane.”

Il giovanotto si vergognava, forse non della disubbidienza ma anzi del consenso passato, e non sapeva cosa dire; per trarsi d’impaccio posò la striglia per terra e andò a baciare la mano del prete. Questi mostrò i denti in un sorriso e abbozzò una benedizione. “Dio ti benedica, figlio mio, benché credo che non lo meriti.”

Il vecchio proseguiva: “Tuo cugino qui, mi ha tanto pregato e ripregato che ho finito col dare il mio consenso. Ma perché non me lo avevi detto prima? Adesso ripulisciti e andremo subito in casa di ‘Ncilina.”

“Un momento, zio, un momento.” Padre Pirrone pensava che doveva ancora parlare con l’‘uomo di onore’ che non sapeva niente. “A casa vorranno certo fare i preparativi; del resto mi avevano detto che vi aspettavano a un’ora di notte.

Venite allora e sarà una festa vedervi.” E se ne andò, abbracciato dal padre e dal figlio.

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Di ritorno alla casetta cubica, Padre Pirrone trovò che il cognato Vicenzino era di già rincasato e così, per rassicurare la sorella, non poté far altro che ammiccare verso di lei da dietro le spalle del fiero marito, il che del resto, trattandosi di due siciliani era del tutto sufficiente. Dopo disse al cognato che aveva da parlargli e i due si avviarono verso lo scheletrito pergolatino dietro la casa: il bordo inferiore ondeggiante della tonaca tracciava intorno al Gesuita una sorta di mobile frontiera, invalicabile; le chiappe grasse dell’“uomo di onore” si dondolavano, simbolo perenne di altezzosa minaccia. La conversazione fu del resto completamente differente dal previsto. Una volta assicurato dell’imminenza delle nozze di ‘Ncilina, l’indifferenza dell’‘uomo di onore’ nei riguardi della condotta della figlia fu marmorea; invece fin dal primo accenno alla dote da consegnare i suoi occhi rotearono, le vene delle tempie si gonfiarono e l’ondeggiare dell’andatura divenne frenetico: un rigurgito di considerazioni oscene gli uscì dalla bocca, turpe, ed esaltato ancora delle più micidiali risoluzioni; la sua mano che non aveva avuto un solo gesto in difesa dell’onore della figlia, corse a palpare nervosa la tasca destra dei pantaloni per significare che nella difesa del mandorleto egli era risoluto a versare sin l’ultima goccia del sangue altrui.

Padre Pirrone lasciò esaurirsi le turpitudini accontentandosi di rapidi segni della croce quando esse, spesso, sconfinavano nella bestemmia; al gesto annunziatore di stragi non badò affatto. Durante una pausa: “Si capisce, Vicenzino,” disse “che anch’io voglio contribuire al riassestamento di tutto. Quella carta privata che mi assicura la proprietà di quanto mi spetta sull’eredità della Buon’Anima, tè la rimanderò da Palermo, stracciata.”

L’effetto di questo balsamo fu immediato. Vicenzino intento a supputare il valore dell’eredità anticipata, tacque; e nell’aria soleggiata e fredda passarono le note stonatissime di una canzone che ‘Ncilina aveva avuto voglia di cantare spazzando la camera dello zio.

Nel pomeriggio lo zio Turi e Santino vennero a far la loro visita, alquanto ripuliti e con camicie bianchissime. I due fidanzati, seduti su due sedie contigue, prorompevano ogni tanto in fragorose risate senza parole, l’uno sulla faccia dell’altro. Erano contenti davvero, lei di “sistemarsi” e di avere quel bei maschiaccio a disposizione, lui di aver seguito i consigli paterni e di avere adesso una serva e mezzo mandorleto; il geranio rosso che aveva di nuovo all’orecchio non appariva più a nessuno un riflesso infernale.

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Due giorni dopo Padre Pirrone ripartì per Palermo. Strada facendo rimetteva in ordine le impressioni sue che non erano tutte gradevoli: quel brutale amorazzo venuto a frutto durante l’estate di S. Martino, quel gramo mezzo mandorleto riacchiappato per mezzo di un premeditato corteggiamento, gli mostravano l’aspetto rustico, miserabile, di altre vicende alle quali aveva di recente assistito. I gran signori erano riservati e incomprensibili, i contadini espliciti e chiari; ma il Demonio se li rigirava attorno al mignolo, egualmente.

A villa Salina trovò il Principe di ottimo umore. Don Fabrizio gli chiese se avesse passato bene quei quattro giorni e se si fosse ricordato di portare i suoi saluti alla madre: la conosceva, infatti, sei anni prima essa era stata ospite alla villa e la sua vedovile serenità era piaciuta ai padroni di casa. Dei saluti il Gesuita si era completamente dimenticato, e tacque; ma disse poi che la madre e la sorella lo avevano incaricato di ossequiare Sua Eccellenza, il che era soltanto una favola, meno grossa quindi di una menzogna. “Eccellenza” aggiunse poi

“desideravo pregarLa se domani potesse dare ordini che diano una carrozza: dovrei andare all’Arcivescovado a chiedere una dispensa matrimoniale: una mia nipote si è fidanzata con un cugino.”

“Certo, padre Pirrone, certo, se lo volete; ma dopodomani io debbo andare a Palermo; potreste venire con me; proprio così di furia dev’essere?”

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PARTE SESTA

Novembre 1862

La principessa Maria-Stella sali in carrozza, sedette sul raso azzurro dei cuscini, raccolse il più possibile attorno a sé le fruscìanti pieghe della veste.

Intanto Concetta e Carolina salivano anch’esse: sedevano di fronte e dai loro identici vestiti rosa si sprigionava un tenue profumo di violetta; dopo il peso spropositato di un piede che si poggiò sul montatoio fece vacillare la calèche sulle alte molle: Don Fabrizio saliva anche lui. La carrozza fu piena come un uovo: le onde delle sete, delle armature di tre crinoline montavano, si urtavano si confondevano sin quasi all’altezza delle teste; sotto era un fìtto miscuglio di calzature, scarpini di seta delle ragazze, scarpette mordere della Principessa, pantofoloni di pelle lucida del Principe; ciascuno pativa della presenza dei piedi altrui e non sapeva più dove fossero i propri. I due scalini del montatoio furono richiusi, il servitore ricevette gli ordini. “A palazzo Ponteleone.” Risali a cassetta, il palafreniere che teneva la briglia dei cavalli si scostò, il cocchiere fece impercettibilmente schioccare la lingua, la calèche scivolò via. Si andava al ballo.

Palermo in quel momento attraversava uno dei suoi intermittenti periodi dimondanità, i balli infuriavano. Dopo la venuta dei Piemontesi, dopo il fattaccio diAspromonte, fugati gli spettri di espropria e di violenze, le duecento persone checomponevano “il mondo” non si stancavano d’incontrarsi, sempre gli stessi, percongratularsi di esistere ancora.

Tanto frequenti erano le diverse e pur sempre identiche feste che i principi di Salina erano venuti a stare per tre settimane nel loro palazzo in città per non dover fare quasi ogni sera il lungo tragitto da S. Lorenzo. I vestiti delle signore arrivavano da Napoli nelle lunghe cassette nere simili a feretri, ed era stato un viavai isterico di crestaie, pettinatrici e calzolai; servi esasperati avevano recato alle sarte biglietti affannosi. Il ballo dai Ponteleone sarebbe stato il più importante di quella breve stagione: importante per tutti per lo splendore del casato e del palazzo, per il numero degli invitati; più importante ancora per i Salina che vi avrebbero presentato alla “società” Angelica, la bella fidanzata del nipote.

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Erano soltanto le dieci e mezza, un po’ presto per presentarsi a un ballo quando si è il principe di Salina che è giusto giunga sempre quando la festa abbia sprigionato tutto il proprio calore; questa volta però non si poteva fare altrimenti se si voleva esser lì quando sarebbero entrati i Sedàra che (“non lo sanno ancora, poveretti”) era gente da prendere alla lettera l’indicazione di orario scritta sul cartoncino lucido dell’invito. Era costata un po’ di fatica il far rimettere a loro uno di quei biglietti: nessuno li conosceva, e la principessa Maria-Stella, dieci giorni prima, aveva dovuto sobbarcarsi a fare una visita a Margherita Ponteleone; tutto era andato liscio, si capisce, ma nondimeno era stata questa una delle spinucce che il fidanzamento di Tancredi aveva inserito nelle delicate zampe del Gattopardo.

Il breve percorso sino a palazzo Ponteleone si svolgeva per un intrico di viuzze buie, e si procedeva al passo: via Salina, via Valverde, la discesa dei Bambinai, così festosa il giorno con le sue bottegucce di figurine in cera, così tetra la notte.

La ferratura dei cavalli risuonava prudente fra le nere case che dormivano o facevano finta di dormire.

Le ragazze, questi esseri incomprensibili per i quali un ballo è una festa e non un tedioso dover mondano, parlottavano liete a mezzavoce; la principessa Maria Stella tastava la borsa per assicurarsi della presenza del flaconcino di “sal volatile”, Don Fabrizio pregustava l’effetto che la bellezza di Angelica avrebbe fatto su tutta quella gente che non la conosceva e quello che la fortuna di Tancredi avrebbe fatto su quelle stesse persone che lo conoscevano troppo. Un’ombra però oscurava la sua soddisfazione: come sarebbe stato il “frack” di don Calogero?

Certo non come quello che aveva avuto addosso a Donnafugata: egli era stato affidato a Tancredi che lo aveva trascinato dal miglior sarto ed aveva perfino assistito alle prove; ufficialmente era sembrato contento dei risultati, l’altro giorno, ma in confidenza” aveva detto: “II ‘frack’ è come può essere; il padre di Angelica manca di chic.” Era innegabile. Ma Tancredi si era reso garante di una perfetta rasatura e della decenza degli scarpini. Era già qualche cosa. Là dove la discesa dei Bambinai sbocca sull’abside di S. Domenico, la carrozza si fermò: si sentiva un gracile scampanellio e da uno svolto comparve un prete recante un calice col Santissimo; dietro un chierichetto gli reggeva sul capo un ombrello bianco ricamato in oro; davanti un altro teneva nella sinistra un grosso cero acceso, e con la destra agitava, divertendosi molto, un campanellino di argento.

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