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Mentre andava al salone da ballo Don Fabrizio vide che Sedàra parlava ancora con Giovanni Finale. Si udivano le parole “russella,” “primintìo,” “marzolino”: paragonavano i pregi dei grani da semina. Il Principe previde imminente un invito a Margarossa, il podere per il quale Finale si stava rovinando a forza di innovazioni agricole.

La coppia Angelica-Don Fabrizio fece una magnifica figura. Gli enormi piedi del Principe si muovevano con delicatezza sorprendente e mai le scarpette di raso della sua dama furono in pericolo di esser sfiorate; la zampaccia di lui le stringeva la vita con vigorosa fermezza, il mento poggiava sull’onda letèa dei capelli di lei; dalla scollatura di Angelica saliva un profumo di bouquet à la Maréchale, soprattutto un aroma di pelle giovane e liscia. Alla memoria di lui risalì una frase di Tumèo: “Le sue lenzuola debbono avere l’odore del paradiso.” Frase sconveniente, frase villana; esatta però. Quel Tancredi... Lei parlava. La sua naturale vanità era sodisfatta quanto la sua tenace ambizione. “Sono così felice, zione. Tutti sono stati tanto gentili, tanto buoni. Tancredi, poi, è un amore; e anche Lei è un amore. Tutto questo lo devo a Lei, zione, anche Tancredi. Perché se Lei non avesse voluto si sa come sarebbe andato a finire.” “Io non c’entro, figlia mia; tutto lo devi a tè sola.” Era vero: nessun Tancredi avrebbe mai resistito alla sua bellezza unita al suo patrimonio. La avrebbe sposata calpestando tutto. Una fitta gli traversò il cuore: pensava agli occhi alteri e sconfitti di Concetta. Ma fu un dolore breve: ad ogni giro un anno gli cadeva giù dalle spalle; presto si ritrovò come a venti anni quando in questa sala stessa ballava con Stella, quando ignorava ancora cosa fossero le delusioni, il tedio, il resto. Per un attimo, quella notte, la morte fu di nuovo ai suoi occhi, “roba per gli altri.” Tanto assorto era nei suoi ricordi che combaciavano così bene con la sensazione presente che non si accorse che ad un certo punto Angelica e lui ballavano soli. Forse istigate da 154

Tancredi le altre coppie avevano smesso e stavano a guardare; anche i due Ponteleone erano li: sembravano inteneriti, erano anziani e forse comprendevano.

Stella pure era anziana, però, ma da sotto una porta i suoi occhi erano foschi.

Quando l’orchestrina tacque un applauso non scoppiò soltanto perché Don Fabrizio aveva l’aspetto troppo leonino perché si arrischiassero simili sconvenienze. Finito il valzer, Angelica propose a Don Fabrizio di cenare alla tavola sua e di Tancredi; lui ne sarebbe stato molto contento ma proprio in quel momento i ricordi della sua gioventù erano troppo vivaci perché non si rendesse conto di quanto una cena con un vecchio zio gli sarebbe riuscita ostica, allora, mentre Stella era li a due passi. “Soli vogliono stare gli innamorati o magari con estranei; con anziani e, peggio che peggio, con parenti, mai.” “Grazie, Angelica, non ho appetito. Prenderò qualcosa all’impiedi. Vai con Tancredi, non pensate a me.” Aspettò un momento che i ragazzi si allontanassero, poi entrò anche lui nella sala del buffet. Una lunghissima stretta tavola stava nel fondo, illuminata dai famosi dodici candelabri di vermeil che il nonno di Diego aveva ricevuto in dono dalla Corte di Spagna al termine della sua ambasciata a Madrid: ritte sugli alti piedestalli di metallo rilucente, sei figure di atleti e sei di donne, alternate, reggevano al disopra delle loro teste il fusto d’argento dorato, coronato in cima dalle fiammelle di dodici candele: la perizia dell’orefice aveva maliziosamente espresso la facilità serena degli uomini, la fatica aggraziata delle giovinette nel reggere lo spropositato peso. Dodici pezzi di prim’ordine. “Chissà a quante ‘salme’

di terra equivarranno” avrebbe detto l’infelice Sedàra. Don Fabrizio ricordò come Diego gli avesse un giorno mostrato gli astucci di ognuno di quei candelabri, montagnole di marocchino verde recanti impresso sui fianchi l’oro dello scudo tripartito dei Ponteleone e quello delle cifre intrecciate dei donatori.

Al disotto dei candelabri, al disotto delle alzate a cinque ripiani che elevavano verso il soffitto lontano le piramidi di “dolci di riposto” mai consumati, si stendeva la monotona opulenza delle tables a thè dei grandi balli: coralline le aragoste lessate vive, cerei e gommosi gli chaud-froids di vitello, di tinta acciaio le spigole immerse nelle soffici salse, i tacchini che il calore dei forni aveva dorato, le beccacce disossate recline su tumuli di crostoni ambrati decorati delle loro stesse viscere triturate, i pasticci di fegato grasso rosei sotto la corazza di gelatina; le galantine color d’aurora, dieci altre crudeli colorate delizie; all’estremità della tavola due monumentali zuppiere d’argento contenevano il consommé, ambra 155

bruciata e limpido. I cuochi delle vaste cucine avevano dovuto sudare fin dalla notte precedente per preparare questa cena.

“Caspita quanta roba! Donna Margherita sa far bene le cose. Ma ci vogliono altri stornaci del mio per tutto questo.

Disprezzò la tavola delle bibite che stava sulla destra luccicante di cristalli ed argenti, si diresse a sinistra verso quella dei dolci. Li immani babà sauri come il manto dei cavalli, Monte-Bianco nevosi di panna; beignets Dauphine che le mandorle screziavano di bianco ed i pistacchi di verdino; collinette di profiteroles alla cioccolata, marroni e grasse come l’humus della piana di Catania dalla quale, di fatto, attraverso lunghi rigiri esse provenivano, parfaits rosei, parfaits sciampagna, parfaits bigi che si sfaldavano scricchiolando quando la spatola li divideva, sviolinature in maggiore delle amarene candite, timbri aciduli degli ananas gialli, e “trionfi della Gola” col verde opaco dei loro pistacchi macinati, impudiche “paste delle Vergini.” Di queste Don Fabrizio si fece dare due e tenendole nel piatto sembrava una profana caricatura di Sant’Agata esibente i propri seni recisi. “Come mai il Santo Uffizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci? I ‘trionfi della Gola’ (la gola, peccato mortale!), le mammelle di S. Agata vendute dai monasteri, divorate dai festaioli! Mah!” Nella sala odorosa di vaniglia, di vino, di cipria, Don Fabrizio si aggirava alla ricerca di un posto. Da un tavolo Tancredi lo vide, batté la mano su una sedia per mostrargli che vi era da sedersi; accanto a lui Angelica cercava di vedere nel rovescio di un piatto d’argento se la pettinatura era a posto. Don Fabrizio scosse la testa sorridendo per rifiutare. Continuò a cercare. Da un tavolo si udiva la voce sodisfatta di Pallavicino: “La più alta emozione della mia vita...” Vicino a lui vi era un posto vuoto. Ma che gran seccatore! Non era meglio dopo tutto ascoltare la cordialità forse voluta ma rinfrescante di Angelica, la lepidezza asciutta di Tancredi? No; meglio annoiarsi che annoiare gli altri. Chiese scusa, sedette vicino al colonnello che si alzò al suo giungere il che gli riconciliò un poco delle simpatie gattopardesche. Mentre degustava la raffinata mescolanza di bianco mangiare, pistacchio e cannella racchiusa nei dolci che aveva scelti, Don Fabrizio conversava con Pallavicino e si accorgeva che questi, al di là delle frasi zuccherose riservate forse alle signore, era tutt’altro che un imbecille; era un

“signore” anche lui e il fondamentale scetticismo della sua classe, soffocato abitualmente dalle impetuose fiamme bersaglieresche del bavero, taceva di nuovo 156

capolino adesso che si trovava in un ambiente eguale a quello suo natio, fuori dell’inevitabile retorica delle caserme e delle ammiratrici.

“Adesso la Sinistra vuoi mettermi in croce perché, in Agosto, ho ordinato ai mieiragazzi di far fuoco addosso al venerale. Ma mi dica Lei, principe, cosa potevo fared’altro con gli ordini scritti che avevo addosso? Debbo però confessarlo: quando liad Aspromonte mi son visto dinanzi quelle centinaia di scamiciati, con facce difanatici incurabili alcuni, altri con la grinta dei rivoltosi di mestiere, sono stato feliceche questi ordini fossero tanto aderenti a ciò che io stesso pensavo; se non avessifatto sparare quella gente avrebbe fatto polpette dei miei soldati e di me, e il guaionon sarebbe stato grande, ma avrebbe finito col provocare l’intervento francese equello austriaco, un putiferio senza precedenti nel quale sarebbe crollato questoRegno d’Italia che si è formato per miracolo, vale a dire non si capisce come. E glielo dico in confidenza: la mia brevissima sparatoria ha giovato soprattutto aGaribaldi, lo ha liberato da quella congrega che gli si era attaccata addosso, datutti quegli individui tipo Zambianchi che si servivano di lui per chissà quali fini,forse generosi benché inetti, forse però voluti dalle Tuileries e da palazzo Farnese;tutti individui ben diversi da quelli che erano sbarcati con lui a Marsala, gente checredeva, i migliori fra essi, che si può compiere l’Italia con una serie di

‘quarantottate’. Lui, il Generale, questo lo sa perché al momento del mio famosoinginocchiamento mi ha stretto la mano e con un calore che non credo abitualeverso chi, cinque minuti prima, vi ha fatto scaricare una pallottola nel piede; e sacosa mi ha detto a bassa voce, lui che era la sola persona per bene che si trovasseda quella parte su quell’infausta montagna? ‘Grazie, colonnello.’ Grazie di che, Lechiedo? di averlo reso zoppo per tutta la vita? no, evidentemente; ma di avergli fattotoccar con mano le smargiassate, le vigliaccherie, peggio forse, di questi suoi dubbiseguaci.”

“Ma voglia scusarmi, non crede Lei, colonnello, di avere un po’ esagerato in baciamani, scappellate e complimenti?”

“Sinceramente, no. Perché questi atti di omaggio erano genuini. Bisognava vederlo quel povero grand’uomo steso per terra sotto un castagno, dolorante nel corpo e ancor più indolenzito nello spirito. Una pena! Si rivelava chiaramente per ciò che è sempre stato, un bambino, con barba e rughe, ma un ragazzo lo stesso, avventato e ingenuo. Era difficile resistere alla commozione per esser stati costretti a fargli ‘bu-bu.’ Perché d’altronde avrei dovuto resistere? Io la mano la bacio soltanto alle donne; anche allora, principe, ho baciato la mano alla salvezza 157

del Regno, che è anch’essa una signora cui noi militari dobbiamo rendere omaggio.” Un cameriere passava: Don Fabrizio disse che gli portassero una fetta di Mont-Blanc e un bicchiere di champagne. “E Lei, colonnello, non prende niente?” “Niente da mangiare, grazie. Forse anch’io una coppa di champagne.” Poi prosegui; si vedeva che non poteva staccarsi da quel ricordo che, fatto, come era di poche schioppettate e di molta destrezza, era proprio del tipo che affascinava i suoi simili. “Gli uomini del Generale, mentre i miei bersaglieri li disarmavano, inveivano e bestemmiavano. E sa contro chi? contro lui, che era stato il solo a pagare di persona. Una schifezza, ma naturale: vedevano sfuggirsi dalle mani quella personalità infantile ma grande che era la sola a poter coprire le oscure mene di tanti fra essi. E quand’anche le mie cortesie fossero state superflue sarei lieto lo stesso di averle fatte: qui da noi, in Italia non si esagera mai in fatto di sentimentalismi e sbaciucchiamenti; sono gli argomenti politici più efficaci che abbiamo.” Bevve il vino che gli avevano penato, ma ciò sembrò aumentare ancora la sua amarezza. “Lei non è stato sul continente dopo la fondazione del Regno?

Fortunato lei. Non è un bello spettacolo. Mai siamo stati tanto divisi come da quando siamo uniti. Torino non vuoi cessare di essere capitale, Milano trova la nostra amministrazione inferiore a quella austriaca, Firenze ha paura che le portino via le opere d’arte, Napoli piange per le industrie che perde, e qui, in Sicilia sta covando qualche grosso, irrazionale guaio... Per il momento, per merito anche del vostro umile servo, delle camicie rosse non si parla più, ma se ne riparlerà. Quando saranno scomparse queste ne verranno altre di diverso colore; e poi di nuovo rosse. E come andrà a finire? C’è lo Stellone, si dice. Sarà. Ma Lei sa meglio di me, principe, che anche le stelle fisse veramente fisse non sono.”

Forse un po’ brillo, profetava. Don Fabrizio dinanzi alle prospettive inquietanti sentiva stringersi il cuore. Il ballo continuò a lungo e si fecero le sei del mattino: tutti erano sfiniti e avrebbero voluto essere a letto da almeno tre ore: ma andar via presto era come proclamare che la festa non era riuscita e offendere i padroni di casa che, poveretti, si erano data tanta pena.

I volti delle signore erano lividi, gli abiti sgualciti, gli aliti pesanti. “Maria! che stanchezza! Maria! che sonno!” Al disopra delle loro cravatte in disordine le facce degli uomini erano gialle e rugose, le bocche intrise di saliva amara. Le loro visite a una cameretta trascurata, a livello della loggia dell’orchestra, si facevano più frequenti: in essa era disposta in bell’ordine una ventina di vasti pitali, a quell’ora quasi tutti colmi, alcuni sciabordanti per terra. Sentendo che il ballo stava per 158

finire i servitori assonnati non cambiavano più le candele dei lampadari: i mozziconi corti spandevano nei saloni una luce diversa, fumosa, di mal augurio.

Nella sala del buffet, vuota, vi erano soltanto piatti smantellati, bicchieri con un dito di vino che i camerieri bevevano in fretta guardandosi attorno. La luce dell’alba si insinuava dai giunti delle imposte, plebea.

La riunione andava sgretolandosi e attorno a donna Margherita vi era già un gruppo di gente che si congedava. “Bellissimo! un sogno! all’antica!” Tancredi dovette faticare per svegliare don Calogero che con la testa all’indietro si era addormentato su una poltrona appartata; i calzoni gli erano risaliti sino al ginocchio e al disopra delle calze di seta si vedevano le estremità delle sue mutande, davvero molto paesane. Il colonnello Pallavicino aveva le occhiaie anche lui; dichiarava però, a chi volesse sentirlo, che non sarebbe andato a casa e che sarebbe passato direttamente da palazzo Ponteleone alla piazza d’armi; così infatti voleva la ferrea tradizione seguita dai militari invitati a un ballo.

Quando la famiglia si fu messa in carrozza (la guazza aveva reso umidi i cuscini) Don Fabrizio disse che sarebbe tornato a casa a piedi; un po’ di fresco gli avrebbe fatto bene, aveva un’ombra di mal di capo. La verità era che voleva attingere un po’ di conforto guardando le stelle. Ve n’era ancora qualcuna proprio su, allo zenith. Come sempre il vederle lo rianimò; erano lontane, onnipotenti e nello stesso tempo tanto docili ai suoi calcoli; proprio il contrario degli uomini, troppo vicini sempre, deboli e pur tanto riottosi. Nelle strade vi era di già un po’ di movimento: qualche carro con cumuli d’immondizia alti quattro volte l’asinello grigio che li trascinava. Un lungo barroccio scoperto portava accatastati i buoi uccisi poco prima al macello, già fatti a quarti e che esibivano i loro meccanismi più intimi con l’impudicizia della morte. A intervalli una qualche goccia rossa e densa cadeva sul selciato. Da una viuzza traversa intravide la parte orientale del cielo, al disopra del mare. Venere stava li, avvolta nel suo turbante di vapori autunnali. Essa era sempre fedele, aspettava sempre Don Fabrizio alle sue uscite mattutine, a Donnafugata prima della caccia, adesso dopo il ballo. Don Fabrizio sospirò. Quando si sarebbe decisa a dargli un appuntamento meno effimero, lontano dai torsoli e dal sangue, nella propria regione di perenne certezza?

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PARTE SETTIMA

Luglio 1883

Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente come i granellini che si affollano e sfilano ad uno ad uno, senza fretta e senza soste, dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia. In alcuni momenti d’intensa attività, di grande attenzione questo sentimento di continuo abbandono scompariva per ripresentarsi impassibile alla più breve occasione di silenzio o d’introspezione, come un ronzio continuo all’orecchio, come il battito di una pendola s’impongono quando tutto il resto tace; e ci rendono sicuri, allora, che essi sono sempre stati li vigili anche quando non li udivamo.

In tutti gli altri momenti gli bastava sempre un minimo di attenzione per avvertireil fruscio dei granelli di sabbia che sgusciavano via lievi, degli attimi di tempo cheevadevano dalla sua vita e lo lasciavano per sempre; la sensazione del resto nonera, prima, legata ad alcun malessere, anzi questa impercettibile perdita di vitalitàera la prova, la condizione per così dire, della sensazione di vita; e per lui, avvezzoa scrutare spazi esteriori illimitati, a indagare vastissimi abissi Ulteriori essa nonera per nulla sgradevole: era quella di un continuo, minutissimo sgretolamentodella personalità congiunto però al presagio vago del riedificarsi altrove di unaindividualità (grazie a Dio) meno cosciente ma più larga: quei granellini di sabbianon andavano perduti, scomparivano si ma si accumulavano chissà dove percementare una mole più duratura. Mole però, aveva riflettuto, non era la parolaesatta pesante com’era; e granelli di sabbia, d’altronde, neppure: erano più comedelle particelle di vapor acqueo che esalassero da uno stagno costretto, per andarsu nel cielo a formare le grandi nubi leggere e libere. Talvolta si sorprendeva che ilserbatoio vitale potesse ancora contenere qualcosa dopo tanti; anni di perdite.

“Neppure se fosse grande come una piramide.” Tal altra volta, più spesso, si erainorgoglito di esser quasi i solo ad avvertire questa fuga continua mentre attorno alui nessuno sembrava sentire lo stesso; e ne aveva tratto motivo di disprezzo per glialtri, come il soldato anziano disprezza il coscritto che si illude che le pallottole 160

ronzanti intorno siano dei mosconi innocui. Queste sono cose che, non si sa poiperché, non si confessano; si lascia che gli altri le intuiscano e nessuno intorno a luile aveva intuite mai, nessuna delle fìglie che sognavano un oltretomba identico aquesta vita, completo di magistratura, cuochi, conventi e orologiai, di tutto; nonStella che divorata dalla cancrena del diabete si era pure aggrappatameschinamente a questa esistenza di pene. Forse solo Tancredi per un attimoaveva compreso quando gli aveva detto con la sua ritrosa ironia: “Tu, zione,corteggi la morte.” Adesso il corteggiamento era finito: la bella aveva detto il suo si,la fuga decisa, lo scompartimento nel treno, riservato.

Perché adesso la faccenda era differente, del tutto diversa. Seduto su una poltrona, le gambe lunghissime avvolte in una coperta, sul balcone dell’albergo Trinacria, sentiva che la vita usciva da lui a larghe ondate incalzanti, con un fragore spirituale paragonabile a quello della cascata del Reno. Era il mezzogiorno di un Lunedì di fine Luglio, ed il mare di Palermo compatto, oleoso, inerte, si stendeva di fronte a lui, inverosimilmente immobile ed appiattito come un cane che si sforzasse di rendersi invisibile alle minacce del padrone; ma il sole immoto e perpendicolare stava li sopra piantato a gambe larghe e lo frustava senza pietà.

Il silenzio era assoluto. Sotto l’altissima luce Don Fabrizio non udiva altro suono che quello Ulteriore della vita che erompeva via da lui.

Era arrivato la mattina da Napoli, poche ore fa; vi si era recato per consultare il professore Sémmola. Accompagnato dalla quarantenne figlia Concetta, dal nipote Fabrizietto, aveva compiuto un viaggio lugubre, lento come una cerimonia funebre. Il tramestio del porto alla partenza e quello dell’arrivo a Napoli, l’odore acre della cabina, il vocio incessante di quella città paranoica lo avevano esasperato, di quella esasperazione querula dei debolissimi che li stanca e li prostra, che suscita l’esasperazione opposta dei buoni cristiani che hanno molti anni di vita nelle bisacce. Aveva preteso di ritornare per via di terra: decisione improvvida che il medico aveva cercato di combattere; ma lui aveva insistito e così imponente era ancora l’ombra del suo prestigio che la aveva spuntata; col risultato di dover poi rimanere trentasei ore rintanato in una scatola rovente, soffocato dal fumo delle gallerie che si ripetevano come sogni febbrili, accecato dal sole nei tratti scoperti, espliciti come tristi realtà, umiliato dai cento bassi servizi che aveva dovuto richiedere al nipote spaurito; si attraversavano paesaggi malefici, giogaie maledette, pianure malariche e torpide; quei paesaggi calabresi e basilischi che a lui sembravano barbarici mentre di fatto erano tali e quali quelli 161

siciliani. La linea ferroviaria non era ancora compiuta: nel suo ultimo tratto vicino a Reggio faceva una larga svolta per Metaponto attraverso paesaggi lunari che per scherno portavano i nomi atletici e voluttuosi di Crotone e di Sibari. A Messina poi, dopo il mendace sorriso dello Stretto, sbugiardato subito dalle riarse colline peloritane, di nuovo una svolta, lunga come una crudele mora procedurale; si era discesi a Catania, ci si era arrampicati verso Castrogiovanni; la locomotiva che annaspava su per i pendii favolosi sembrava dovesse crepare come un cavallo sforzato; e, dopo una discesa fragorosa, si era giunti a Palermo. All’arrivo le solite maschere dei familiari con il dipinto sorriso di compiacimento per il buon esito del viaggio. Fu anzi dal sorriso consolatorio delle persone che lo aspettavano alla stazione, dal loro finto, e mal finto, aspetto rallegrato che gli si rivelò il vero senso della diagnosi di Sémmola che a lui stesso aveva detto soltanto delle rassicuranti generalità; e fu allora, dopo esser sceso dal treno, mentre abbracciava la nuora sepolta nelle gramaglie di vedova, i figli che mostravano i loro denti nei sorrisi, Tancredi con i suoi occhi timorosi Angelica con la seta del corpetto ben tesa dai seni maturi, fu allora che si fece udire il fragore della cascata.

Probabilmente svenne, perché non ricordava come fosse arrivato alla vettura; vi si trovò disteso con le gambe rattrappite, col solo Tancredi vicino. La carrozza non si era ancora mossa e da fuori gli giungeva all’orecchio il parlottare dei familiari.

“Non è niente” “II viaggio è stato troppo lungo” “Con questo caldo sveniremmo tutti.” “Arrivare sino alla villa lo stancherebbe troppo.” Era di nuovo perfettamente lucido: notava la conversazione seria che si svolgeva fra Concetta e Francesco Paolo, l’eleganza di Tancredi, il suo vestito a quadretti marrone e bigi, la bombetta bruna; e notò anche come il sorriso del nipote non fosse una volta tanto beffardo, anzi come fosse tinto di malinconico affetto; e da questo ricevette la sensazione agrodolce che il nipote gli volesse bene ed anche che sapesse che lui era spacciato, dato che la perpetua ironia si era adattata ad esser spazzata via dalla tenerezza. La carrozza si mosse e svoltò sulla destra. “Ma dove andiamo, Tancredi?” La propria voce lo sorprese, vi avvertiva l’eco del rombo interiore.

“Zione, andiamo all’albergo Trinacria; sei stanco e la villa è lontana; ti riposerai una notte e domani tornerai a casa. Non ti sembra giusto?” “Ma allora andiamo alla nostra casa di mare; è ancora più vicina.” Questo però non era possibile: la casa non era montata, come ben sapeva; serviva solo per occasionali colazioni in vista del mare; non vi era neppure un letto. “All’albergo starai meglio, zio; avrai 162

tutte le comodità.” Lo trattavano come un neonato; di un neonato, del resto, aveva appunto il vigore.

Un medico fu la prima comodità che trovò all’albergo; era stato fatto chiamare in fretta, forse durante la sua sincope. Ma non era il dottor Cataliotti, quello che sempre lo curava, incravattato di bianco sotto il volto sorridente e i ricchi occhiali d’oro; era un povero diavolo, il medico di quel quartiere angustiato, il testimonio impotente di mille agonie miserabili. Al di sopra della redingote sdrucita si allungava il povero volto emaciato irto di peli bianchi, un volto disilluso d’intellettuale famelico; quando estrasse dal taschino l’orologio senza catena si videro le macchie di verderame che avevano trapassato la doratura posticcia.

Anche lui era una povera otre che lo sdrucio della mulattiera aveva liso e che spandeva senza saperlo le ultime gocce di olio. Misurò i battiti del polso, prescrisse delle gocce di canfora, mostrò i denti cariati in un sorriso che voleva essere rassicurante e che invece chiedeva pietà; se ne andò a passi felpati.

Presto dalla farmacia vicina giunsero le gocce; gli fecero bene; si senti un po’

meno debole ma l’impeto del tempo che gli sfuggiva non diminuì la propria foga.

Don Fabrizio si guardò nello specchio dell’armadio: riconobbe più il proprio vestito che sé stesso: altissimo, allampanato, con le guance infossate, la barba lunga di tre giorni; sembrava uno di quegli inglesi maniaci che deambulano nelle vignette dei libri di Verne che per Natale regalava a Fabrizietto, un Gattopardo in pessima forma. Perché mai Dio voleva che nessuno morisse con la propria faccia?

Perché a tutti succede cosi: si muore con una maschera sul volto; anche i giovani; anche quel soldato col viso imbrattato; anche Paolo quando lo avevano rialzato dal marciapiede con la faccia contratta e spiegazzata mentre la gente rincorreva nella polvere il cavallo che lo aveva sbattuto giù. E se in lui, vecchio, il fragore della vita in fuga era tanto potente, quale mai doveva essere stato il tumulto di quei serbatoi ancora colmi che si svuotavano in un attimo da quei poveri corpi giovani? Avrebbe voluto contravvenire per quanto potesse a quest’assurda regola del camuffamento forzato; sentiva però che non poteva, che sollevare il rasoio sarebbe stato come, un tempo, sollevare il proprio scrittoio. “Bisogna far chiamare un barbiere” disse a Francesco Paolo. Ma subito pensò: “No. È una regola del gioco, esosa ma formale. Mi raderanno dopo.” E disse forte: “Lascia stare; ci penseremo poi.” L’idea di questo estremo abbandono del cadavere con il barbiere accovacciato sopra non lo turbò.

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Il cameriere entrò con una bacinella di acqua tiepida e una spugna, gli tolse la giacca e la camicia, gli lavò la faccia e le mani, come si lava un bimbo, come si lava un morto. La fuliggine di un giorno e mezzo di ferrovia rese funerea anche l’acqua. Nella stanza bassa si soffocava: il caldo faceva lievitare gli odori, esaltava il tanfo delle peluches mal spolverate; le ombre delle diecine di scarafaggi che vi erano stati calpestati apparivano nel loro odore medicamentoso; fuori dal tavolino di notte i ricordi tenaci delle orine vecchie e diverse incupivano la camera. Fece aprire le persiane: l’albergo era in ombra ma la luce riflessa dal mare metallico era accecante; meglio questo però che quel fetore di prigione; disse di portare una poltrona sul balcone; appoggiato al braccio di qualcheduno si trascinò fuori e dopo quel paio di metri sedette con la sensazione di ristoro che provava un tempo riposandosi dopo sei ore di caccia in montagna. “Di’ a tutti di lasciarmi in pace; mi sento meglio; voglio dormire.” Aveva sonno davvero; ma trovò che cedere adesso al sopore era altrettanto assurdo quanto mangiare una fetta di torta subito prima di un desiderato banchetto. Sorrise. “Sono sempre stato un goloso saggio.” E se ne stava li immerso nel grande silenzio esteriore, nello spaventevole rombo interno.

Poté volgere la testa a sinistra: a fianco di Monte Pellegrino si vedeva la spaccatura nella cerchia dei monti, e più lontano i due colli ai piedi dei quali era la sua casa; irraggiungibile com’era questa gli sembrava lontanissima; ripensò al proprio osservatorio, ai cannocchiali destinati ormai a decenni di polvere; al povero Padre Pirrone che era polvere anche lui; ai quadri dei feudi, alle bertucce del parato, al grande letto di rame nel quale era morta la sua Stelluccia; a tutte queste cose che adesso gli sembravano umili anche se preziose, a questi intrecci di metallo, a queste trame di fili, a queste tele ricoperte di terre e di succhi d’erba che erano tenute in vita da lui, che fra poco sarebbero piombate, incolpevoli, in un limbo fatto di abbandono e di oblio; il cuore gli si strinse, dimenticò la propria agonia pensando all’imminente fine di queste povere cose care. La fila inerte delle case dietro di lui, la diga dei monti, le distese flagellate dal sole, gli impedivano financo di pensare chiaramente a Donnafugata; gli sembrava una casa apparsa in sogno; non più sua, gli sembrava: di suo non aveva adesso che questo corpo sfinito, queste lastre di lavagna sotto i piedi, questo precipizio di acque tenebrose verso l’abisso. Era solo, un naufrago alla deriva su una zattera, in preda a correnti indomabili.

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C’erano i figli, certo. I figli. Il solo che gli rassomigliasse, Giovanni, non era più qui. Ogni paio di anni inviava saluti da Londra; non aveva più nulla da fare con il carbone e commerciava in brillanti; dopo che Stella era morta era giunta all’indirizzo di lei una letterina e poco dopo un pacchettino con un braccialetto.

Are sens