Padre Pirrone si era allontanato da quella casa a sedici anni quando i suoi successi alla scuola parrocchiale e la benevolenza dell’Abbate Mitrato di S.
Eleuterio lo avevano incamminato verso il seminario arcivescovile, ma, a distanza di anni, vi era ritornato più volte o per benedire le nozze delle sorelle o per dare 128
una (mondanamente, s’intende) superflua assoluzione a don Gaetano morente e vi ritornava adesso, sul finire del Febbraio 1861, per il quindicesimo anniversario della morte del padre; ed era una giornata ventosa e limpida, proprio come era stata quella.
Erano state cinque ore di scossoni, con i piedi penzoloni dietro la coda del cavallo; ma, una volta sormontata la nausea causata dalle pitture patriottiche dipinte di fresco sui pannelli del carretto e che culminavano nella retorica raffigurazione di un Garibaldi color di fiamma a braccetto di una Santa Rosalia color di mare, erano state cinque ore piacevoli. La vallata che sale da Palermo a S.
Cono riunisce in sé il paesaggio fastoso della zona costiera e quello inesorabile dell’interno, ed è percorsa da folate di vento improvvise che ne rendono salubre l’aria e che erano famose per esser capaci di sviare la traiettoria delle pallottole meglio premeditate, sicché i tiratori posti di fronte a problemi balistici ardui preferivano esercitarsi altrove. Il carrettiere, poi, aveva conosciuto molto bene il defunto e si era dilungato in ampie ricordanze dei meriti di lui, ricordanze che, benché non sempre adatte ad orecchie filiali ed ecclesiastiche, avevano lusingato l’ascoltatore assuefatto.
All’arrivo fu accolto con lacrimosa allegria. Abbracciò e benedisse la madre che ostentava i capelli candidi e la cera rosea delle vedove di fra le lane di un lutto imprescrittibile, salutò le sorelle e i nipoti ma, fra quest’ultimi guardò di traverso Carmelo che aveva avuto il pessimo gusto d’inalberare sulla berretta, in segno di festa, una coccarda tricolore. Appena entrato in casa fu assalito, come sempre, dalla dolcissima furia dei ricordi giovanili: tutto era immutato, il pavimento di coccio rosso come il parco mobilio; l’identica luce entrava dai finestrozzi esigui; il cane Romeo che latrava breve in un cantone era il trisnipote rassomigliantissimo di un altro cernieco compagno suo nei violenti giochi; e dalla cucina esalava il secolare aroma del “ragù” che sobbolliva, estratto di pomodoro, cipolle e carne di castrato, per gli “anelletti” dei giorni segnalati; ogni cosa esprimeva la serenità raggiunta mediante i travagli della Buon’Anima.
Presto si diressero alla chiesa per ascoltare la messa commemorativa. S. Cono, quel giorno, mostrava il proprio aspetto migliore e scialava in una quasi orgogliosa esibizione di feci diverse; caprette argute dai neri uberi penzolanti e molti di quei maialetti siciliani scuri e slanciati come puledri minuscoli, si rincorrevano fra la gente, su per le strade ripide; e poiché Padre Pirrone era divenuto una specie di gloria locale molte erano le donne, i bambini ed anche i 129
giovanotti che gli si affollavano intorno per chiedergli una benedizione o per ricordare i tempi passati.
In sacrestia si fece una rimpatriata col parroco e, ascoltata la Messa ci si recò sulla lapide sepolcrale, in una cappella di fianco: le donne baciarono il marmo lagrimando, il figlio pregò ad alta voce nel suo arcano latino; e quando si ritornò a casa gli “anelletti” erano pronti e piacquero molto a Padre Pirrone cui le raffinatezze culinarie di villa Salina non avevano guastato la bocca.
Verso sera poi gli amici vennero a salutarlo e si riunirono in camera sua: una lucerna di rame a tre braccia pendeva dal soffitto e spandeva la luce dimessa dei suoi moccoli a olio; in un angolo il letto ostentava le materassa variopinte e la soffocante trapunta rossa e gialla; un altro angolo della stanza era recinto da una alta e rigida stuoia, lo “zimmile” che custodiva il frumento color di miele che ogni settimana si recava al mulino per i bisogni della famiglia; alle pareti, da incisioni butterate, Sant’Antonio mostrava il Divino Infante, Santa Lucia i propri occhi divelti e S. Francesco Saverio arringava turbe di Indiani piumati e discinti; fuori, nel crepuscolo stellato, il vento zufolava e, a modo suo, era il solo a commemorare. Al centro della stanza, sotto la lucerna, si appiattiva al suolo il grande braciere racchiuso in una fascia di legno lucido sulla quale si posavano i piedi; tutt’intorno sedie di corda con gli ospiti. Vi era il parroco, i due fratelli Schirò, proprietari del luogo e don Pietrine, il vecchissimo erbuario: cupi erano venuti, cupi rimanevano perché, mentre le donne sfaccendavano abbasso, essi parlavano di politica e speravano di aver notizie consolanti da Padre Pirrone che arrivava da Palermo e che doveva saper molto dato che viveva fra i “signori.” Il desiderio di notizie era stato appagato, quello di conforto però fu deluso perché il loro amico gesuita un po’ per sincerità, un po’ anche per tattica mostrava loro nerissimo l’avvenire: su Gaeta sventolava ancora il tricolore borbonico ma il blocco era ferreo e le polveriere della piazzaforte saltavano in aria una per una, e li ormai non si salvava più nulla all’infuori dell’onore, cioè non molto; la Russia era amica ma lontana, Napoleone III infido e vicino, e degli insorti di Basilicata e Terra di Lavoro il Gesuita parlava poco perché sotto sotto se ne vergognava. Era necessario, diceva, subire la realtà di questo stato italiano che si formava, ateo e rapace, di queste leggi di espropria e di coscrizione che dal Piemonte sarebbero dilagate sin qui, come il colèra. “Vedrete” fu la sua non originale conclusione
“vedrete che non ci lasceranno neanche gli occhi per piangere.”
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A queste parole venne mescolato il coro tradizionale delle lagnanze rustiche. I fratelli Schirò e l’erbuario già sentivano il morso della fiscalità; per i primi vi erano stati contributi straordinari e centesimi addizionali; per l’altro una sconvolgente sorpresa: era stato chiamato in Municipio dove gli avevano detto che, se non avesse pagato venti lire ogni anno, non gli sarebbe più stato consentito di vendere i suoi semplici. “Ma io questa senna, questo stramonio, queste erbe sante fatte dal Signore me le vado a raccogliere con le mie mani sulle montagne, pioggia o sereno, nei giorni e nelle notti prescritte! me le essicco al sole che è di tutti e le metto in polvere da me col mortaio che era di mio nonno! Che c’entrate voi del Municipio? perché dovrei pagarvi venti lire? così per la vostra bella faccia?”
Le parole gli uscirono smozzicate dalla bocca senza denti, ma gli occhi gli s’incupirono di autentico furore. “Ho torto o ragione, Padre? Dimmelo tu!”
Il Gesuita gli voleva bene: se lo ricordava uomo già fatto, anzi già curvo per il continuo girovagare e raccattare quando lui stesso era un ragazzo che tirava sassate ai passeri; e gli era anche grato perché sapeva che quando vendeva un suo decotto alle donnette diceva sempre che senza tante o tanti “Ave Maria” o
“Gloriapatri” esso sarebbe rimasto inoperoso; il suo prudente cervello, poi, voleva ignorare che cosa ci fosse veramente negli intrugli e per quali speranze venissero richiesti.
“Avete ragione, don Pietrine, cento volte ragione. E come no? Ma se non prendono i soldi a voi e agli altri poveretti come voi dove li trovano per fare la guerra al Papa e rubargli ciò che gli appartiene?”
La conversazione si dilungava sotto la mite luce vacillante per il vento che riusciva a sorpassare le imposte massicce. Padre Pirrone spaziava nelle future inevitabili confische dei beni ecclesiastici: addio allora il mite dominio dell’Abbazia qui intorno; addio le zuppe distribuite durante gli inverni duri; e quando il più giovane degli Schirò ebbe l’imprudenza di dire che forse così alcuni contadini poveri avrebbero avuto un loro fondicello, la sua voce s’inaridì nel più deciso disprezzo. “Lo vedrete, don Antonino, lo vedrete. Il Sindaco comprerà tutto, pagherà le prime rate, e chi si è visto si è visto. Così di già è avvenuto in Piemonte.”
Finirono con l’andarsene, assai più accigliati di quando erano venuti e provvisti di mormorazioni per due mesi; rimase soltanto l’erbuario che quella notte non sarebbe andato a letto perché era luna nuova e doveva andare a raccogliere il 131
rosamarino sulle rocce dei Pietrazzi; aveva portato con sé il lanternino e si sarebbe incamminato appena uscito.
“Ma, Padre, tu che vivi in mezzo alla ‘nobbiltà’, che cosa ne dicono i ‘signori’ ditutto questo fuoco grande? Che cosa ne dice il principe di Salina, grande, rabbioso eorgoglioso come è?”
Già più d’una volta Padre Pirrone aveva posto a sé stesso questa domanda e rispondervi non era stato facile soprattutto perché aveva trascurato o interpretato come esagerazioni quanto Don Fabrizio gli aveva detto una mattina in osservatorio quasi un anno fa. Adesso lo sapeva ma non trovava il modo di tradurlo in forma comprensibile a don Pietrine che era lungi dall’essere uno sciocco ma che s’intendeva meglio delle proprietà anticatarrali, carminative e magari afrodisiache delle sue erbe che di simili astrazioni.
“Vedete, don Pietrine, i ‘signori’ come dite voi, non sono facili da capirsi. Essi vivono in un universo particolare che è stato creato non direttamente da Dio ma da loro stessi durante secoli di esperienze specialissime, di affanni e di gioie loro; essi posseggono una memoria collettiva quanto mai robusta e quindi si turbano o si allietano per cose delle quali a voi ed a me non importa un bei nulla ma che per loro sono vitali perché poste in rapporto con questo loro patrimonio di ricordi, di speranze, di timori di classe. La Divina Provvidenza ha voluto che io divenissi umile particella dell’Ordine più glorioso di una Chiesa sempiterna alla quale è stata assicurata la vittoria definitiva; voi siete all’altro limite della scala, e non dico il più basso ma solo il più differente. Voi quando scoprite un cespo vigoroso di origano o un nido ben fornito di cantaridi (anche quelle cercate, don Pietrine, lo so) siete in comunicazione diretta con la natura che il Signore ha creato con possibilità indifferenziate di male e di bene affinché l’uomo possa esercitarvi la sua libera scelta; e quando siete consultato dalle vecchiette maligne o dalle ragazzine vogliose voi scendete nell’abisso dei secoli sino alle epoche oscure che hanno preceduto la luce del Golgota.”
Il vecchio guardava stupito: lui voleva sapere se il principe di Salina era sodisfatto o no del nuovo stato di cose, e l’altro gli parlava di cantaridi e di luci del Golgota. “A forza di leggere è diventato pazzo, meschinello.”
“I ‘signori’ no, non sono così; essi vivono di cose già manipolate. Noi ecclesiastici serviamo loro per rassicurarli sulla vita eterna, come voi erbuari per procurar loro emollienti o eccitanti. E con questo non voglio dire che sono cattivi: tutt’altro. Sono differenti; forse ci appaiono tanto strani perché hanno raggiunto 132
una tappa verso la quale tutti coloro che non sono santi camminano, quella della noncuranza dei beni terreni mediante l’assuefazione. Forse per questo non badano a certe cose che a noialtri importano molto; chi sta in montagna non si cura delle zanzare delle pianure, e chi vive in Egitto trascura i parapioggia. Il primo però teme le valanghe, il secondo i coccodrilli, cose che invece ci preoccupano poco. Per loro sono subentrati nuovi timori che noi ignoriamo: ho visto Don Fabrizio rabbuiarsi, lui uomo serio e saggio, per un colletto di camicia mal stirato; e so di certo che il principe di Làscari dal furore non ha dormito tutta una notte perché ad un pranzo alla Luogotenenza gli avevano dato un posto sbagliato. Ora, non vi sembra che il tipo di umanità che si turba soltanto per la biancheria o per il protocollo sia un tipo felice, quindi superiore?”
Don Pietrino non capiva più niente: le stramberie si moltiplicavano, adesso saltavano fuori i colletti delle camicie e i coccodrilli. Ma un fondo di buon senso rustico lo sosteneva ancora. “Ma se è così, Padre, andranno tutti all’inferno!” “E
perché? Alcuni saranno perduti, altri salvi, a secondo di come avranno vissuto dentro questo loro mondo condizionato. Ad occhio e croce Salina, per esempio, dovrebbe cavarsela; il giuoco suo lo gioca bene, segue le regole, non bara; il Signore Iddio punisce chi contravviene volontariamente alle leggi divine che conosce, chi imbocca volontariamente la cattiva strada; ma chi segue la propria via, purché su di essa non commetta sconcezze, è sempre a posto. Se voi, don Pietrino, vendeste cicuta invece di mentuccia, sapendolo, sareste fritto; ma se avrete creduto di essere nel vero, la gnà Tana farà la morte nobilissima di Socrate e voi andrete dritto dritto in cielo con tonaca e alucce, tutto bianco.”
La morte di Socrate era stata troppo, per l’erbuario; si era arreso e dormiva.
Padre Pirrone lo notò e ne fu contento perché adesso avrebbe potuto parlare libero senza timore di essere frainteso; e parlare voleva, fissare nelle volute concrete delle frasi le idee che oscuramente gli si agitavano dentro.
“E fanno molto bene anche. Se sapeste, per dirne una, a quante famiglie che sarebbero sul lastrico danno ricetto quei loro palazzi! E non richiedono nulla per questo, neppure un’astensione dai furtarelli. Ciò non viene fatto per ostentazione ma per una sorta di oscuro istinto atavico che li spinge a non poter fare altrimenti. Benché possa non sembrare, sono meno egoisti di tanti altri: lo splendore delle loro case, la pompa delle loro feste contengono in sé un che d’impersonale, un po’ come la magnificenza delle chiese e della liturgia, un che di fatto ad maiorem gentis gloriam, che li redime non poco; per ogni bicchiere di 133
sciampagna che bevono ne offrono cinquanta agli altri, e quando trattano male qualcheduno, come avviene, non è tanto la loro personalità che pecca quanto il loro ceto che si afferma. Fata crescunt Don Fabrizio ha protetto e educato il nipote Tancredi, per esempio, ha insomma salvato un povero orfano che altrimenti si sarebbe perduto. Ma voi direte che lo ha fatto perché il giovane era anche lui un signore, che non avrebbe messo un dito all’acqua fredda per un altro. È vero, ma perché avrebbe dovuto farlo se sinceramente, in tutte le radici del suo cuore gli
‘altri’ gli sembrano tutti esemplari mal riusciti, maiolichette venute fuori sformate dalle mani del figurinaio e che non vai la pena di esporre alla prova del fuoco?
“Voi, don Pietrine, se in questo momento non dormiste, saltereste su a dirmi che i signori fanno male ad avere questo disprezzo per gli altri e che tutti noi, egualmente soggetti alla doppia servitù dell’amore e della morte, siamo eguali dinanzi al Creatore; ed io non potrei che darvi ragione. Però aggiungerei che non è giusto incolpare di disprezzo soltanto i ‘signori,’ dato che questo è vizio universale. Chi insegna all’Università disprezza il maestrucolo delle scuole parrocchiali, anche se non lo dimostra, e poiché dormite posso dirvi senza reticenze che noi ecclesiastici ci stimiamo superiori ai laici, noi Gesuiti superiori al resto del clero, come voi erbuari spregiate i cavadenti che a loro volta v’irridono; i medici per conto loro prendono in giro cavadenti ed erbuari e vengono loro stessi trattati da asini dagli ammalati che pretendono di continuare a vivere con il cuore o il fegato in poltiglia. Per i magistrati gli avvocati non sono che dei seccatori che cercano di dilazionare il funzionamento delle leggi, e d’altra parte la letteratura ribocca di satire contro la pomposità, l’ignavia e talvolta peggio di quegli stessi giudici. Non ci sono che gli zappatori a esser disprezzati anche da loro stessi; quando avranno appreso a irridere gli altri il ciclo sarà chiuso e bisognerà incominciare da capo.
“Avete mai pensato, don Pietrine, a quanti nomi di mestiere sono diventati delle ingiurie? da quelli di facchino, ciabattino e pasticciere a quelli di reitre e di pompier in francese? La gente non pensa ai meriti dei facchini e dei pompieri; guarda solo i loro difetti marginali e li chiama tutti villani e vanagloriosi; e poiché non potete sentirmi posso dirvi che conosco benissimo il significato corrente della parola ‘gesuita.’
“Questi nobili poi hanno il pudore dei propri guai: ne ho visto uno, sciagurato, che aveva deciso di uccidersi l’indomani e che sembrava sorridente e brioso come un ragazzo alla vigilia della Prima Comunione; mentre voi, don Pietrine, lo so, se 134
siete costretto a bere uno dei vostri decotti di senna fate echeggiare il paese dei vostri lamenti. L’ira e la beffa sono signorili; l’elegia, la querimonia, no. Anzi voglio darvi una ricetta: se incontrate un ‘signore’ lamentoso e querulo guardate il suo albero genealogico: vi troverete presto un ramo secco.
“Un ceto difficile da sopprimere perché in fondo si rinnova continuamente e perché quando occorre sa morire bene, cioè sa gettare un seme al momento della fine. Guardate la Francia: si son fatti massacrare con eleganza e adesso son lì come prima, dico come prima perché non sono i latifondi e i diritti feudali a fare il nobile, ma le differenze. Adesso mi dicono che a Parigi vi sono dei conti polacchi che le insurrezioni e il despotismo hanno costretto all’esilio e alla miseria; fanno i fiaccherai ma guardano i loro clienti borghesi con tale cipiglio che i poveretti salgono in vettura, senza saper perché, con l’aria umile di cani in chiesa.
“E vi dirò pure, don Pietrine, se, come tante volte è avvenuto, questa classe dovesse scomparire, se ne costituirebbe subito un’altra equivalente, con gli stessi pregi e gli stessi “rotti: non sarebbe più basata sul sangue forse, ma che so io...
sull’anzianità di presenza in un luogo o su pretesa miglior conoscenza di qualche testo presunto sacro.”